La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 31 dicembre 2015

Nulla sarà come prima in America Latina

di Raúl Zibechi
Quello che finisce è stato l’anno peggiore per il progressismo latino-americano, al punto tale che i governi che ci saranno nel 2016 non assomiglieranno a quelli che c’erano nel 2014. Tuttavia, paradossi della vita, l’anno che termina è un momento chiave nella ricomposizione dei movimenti antisistemici della regione.
La caduta dei governi progressisti è un evento lungamente annunciato. La campana ha suonato due anni fa, emettendo due suoni ben distinti. La brusca caduta dei prezzi delle commodities è stata interpretata come un fenomeno passeggero, ma con il tempo ha stravolto bilanci che erano stati elaborati con il petrolio a più di cento dollari al barile.
Un disastro economico annunciato da tempo, perché nel decennio progressista i governi hanno reso più profonda la dipendenza dalla soia, dagli idrocarburi e dai minerali. Perfino il Brasile, l’unico paese industriale della regione sudamericana, ha visto la sua industria indebolirsi mentre crescevano le esportazioni di minerali di ferro, carne e soia in cambio di prodotti cinesi finiti.
L’esaurimento di un modello
Le cosiddette “conquiste” dei progressismi hanno iniziato a mostrare le sfilacciature del loro esaurimento: hanno abbassato la povertà che al culmine della crisi, verso il 2000, aveva raggiunto livelli tremendi, però sono state incapaci di modificare gli indici di disuguaglianza nella regione più disuguale del mondo. Con la crisi, le politiche sociali vengono fagocitate dall’inflazione, dalla disoccupazione e dall’adeguamento fiscale.
Come solitamente accade, la crisi economica ha messo allo scoperto le miserie che gli anni di prosperità hanno permesso di dissimulare: gestioni mediocri, corruzione, mancanza di progetti a lungo termine ed eccesso di dichiarazioni. Com’è possibile che il socialismo del XXI° secolo e le “rivoluzioni” in atto siano stati neutralizzati da una manciata di voti? Ciò nonostante, nulla tornerà ad essere uguale nella regione. Le esperienze che vivono milioni di persone possono non coincidere con i discorsi, ma lasciano sempre dei sedimenti.
Per quelli di noi che credono che la storia la facciano i popoli e che i movimenti sociali abbiano un ruolo centrale nei cambiamenti, il 2015 è stato un anno di allegria. In Argentina si è manifestata l’enorme potenza del movimento delle donne quando, a giugno, 350.000 di loro sono scese nelle strade di Buenos Aires con lo slogan “Ni una menos” [Nemmeno una di meno], contro la violenza maschilista; così come le 65.000 [donne] che si sono riunite a Mar del Plata, al 30° Encuento Nacional de Mujeres [Incontro Nazionale delle Donne].
La lotta degli studenti delle scuole secondarie di São Paulo, con l’occupazione di 200 centri scolastici come espressione del rifiuto verso una riforma educativa neoliberale, è una dimostrazione che le giornate del giugno 2013 continuano ad essere vive nei cuori e nei viali brasiliani. L’estensione della lotta contro l’attività mineraria nel sud del Perù, dove le comunità rurali stanno resistendo al progetto Las Bambas per l’estrazione di rame ad Arequipa, dimostra che il movimento è ben lontano dall’esaurirsi in una regione o di fronte a un progetto specifico. In Ecuador, la recente sollevazione indigena e popolare contro la decisione di Rafael Correa di privare le popolazioni della gestione autonoma dell’educazione interculturale bilingue, è un’altra dimostrazione che gli Stati non sono riusciti a ridurre alla disciplina i popoli.
Di fronte alla svolta a destra della regione, al riposizionamento degli USA e al capitale finanziario, ci sono ancora i movimenti, pronti a lottare per dire due cose che molti sembrano aver dimenticato: con la vita non si gioca, signori del capitale; non utilizzate la nostra lotta come una scala per arrampicarvi, signori progressisti.

Pubblicato su Diagonal
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo
Fonte: comune-info.net

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