La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 29 dicembre 2015

L’anno del “sogno europeo” sta alla fine terminando

di Jerome Roos 
Non è stato un anno molto buono per l’”Europa”, almeno non secondo il concetto di un continente liberale e unificato che nei decenni postbellici ha finito per incarnarsi nelle istituzioni dell’Unione Europea e nella sua spinta a “un’unione ancor più stretta” per “eliminare le barriere che dividono l’Europa”.
Tormentati da uno stato di crisi perpetua, azzoppati da un debilitante “deficit di democrazia” e con di fronte lo spettro indomabile di una destra reazionaria risorgente, molti degli ambiziosi obiettivi che un tempo sostenevano il progetto europeo stanno ora cedendo il passo ai demoni del passato. Razzismo, nazionalismo e xenofobia sono in ascesa, mentre si stanno rapidamente intensificando le disparità tra le persone.
Nulla esemplifica la morte lenta dell’ideale europeo meglio dell’annullamento dell’”OXI” greco al referendum di giugno e della resurrezione di barriere e controlli di confine tra gli stati membri della UE in reazione alla più vasta crisi dei profughi dopo la fine della seconda guerra mondiale.
La reazione collettiva dell’Europa a entrambe queste crisi ha confermato al di là di ogni dubbio che i concetti gemelli di “democrazia” e “solidarietà” – un tempo considerati fondativi del progetto europeo – sono stati da tempo svuotati dalla svolta interamente neoliberista della UE dopo il Trattato di Maastricht.
Negli ultimi due o tre decenni, mentre venivano eliminate le barriere ai capitali e i leader europei costruivano la loro “unione ancor più stretta” di interessi finanziari e imprenditoriali, nuovi muri sono stati eretti per arginare la mobilità sociale e tener fuori l’Indesiderato Altro. I popoli d’Europa e quelli che fuggono nel vecchio continente per sottrarsi a guerra, povertà e persecuzioni sono stati lasciati ai margini del percorso.
Naturalmente tutto questo era chiaro anni fa all’osservatore perspicace, ma rimane tuttavia rimarchevole quanto rapidamente le percezioni popolari delle realtà politiche possano cambiare in tempi di crisi.
Nel 2004, quando ero uno studente Erasmus di scienze politiche all’Università di Bologna, acquistai un libro di Jeremy Rifkin, l’autore statunitense noto per la sua propensione a fiutare le tendenze sociali e a trasformarle in titoli campioni di vendite pubblicizzandone sproporzionatamente e grossolanamente la rilevanza.
Il libro s’intitolava ‘Il sogno europeo’ e – dedicato com’era alla “generazione Erasmus degli studenti universitari d’Europa” – immaginavo che sarebbe stato in sintonia con le mie stesse idee filo-europee.
Emerse che mi ero sbagliato senza speranza, ma ciò nonostante il libro è oggi un’affascinante rilettura, alla luce della crisi esistenziale in aggravamento della UE, in quanto coglie perfettamente la vacuità e ingenuità della mistica liberale che un tempo circondava il progetto europeo nel suo culmine al volgere del secolo.
Nella sua introduzione elogiativa Rifkin scriveva che “il Sogno Europeo è un tentativo di creare un nuovo quadro storico che possa … collegare la razza umana a una nuova storia condivisa, rivestita dell’abito dei diritti umani universali e dei diritti intrinseci della natura; quella che chiamiamo una coscienza globale. E’ un sogno che ci porta … in una nuova era. Il Sogno Europeo, in breve, crea una nuova storia”.
Un decennio dopo, questa “coscienza globale” risulta essere poco più che una patina liberale a buon mercato sulla carta che ricopre il ventre reazionario di una classe media europea sempre più in ansia, il cui benessere sociale e la cui sicurezza economica sono stati interamente erosi dalla globalizzazione, finanziarizzazione e integrazione europea.
Oggi, dopo pochi decenni dall’ingresso nell’”era globale” tanto vantata da Rifkin, il Sogno Europeo è a brandelli. Dalle sue ceneri ora sorgono i mostri un tempo dimenticati di un resuscitato nazionalismo.
Naturalmente nulla di tutto questo è una novità. L’ideale europeo stava tirando le cuoia ormai da qualche anno, contrastato da un rinculo alla sovranità che risale almeno all’ascesa della destra euroscettica nei primi anni del nuovo millennio e al rifiuto della Costituzione europea nei referendum francese e olandese del 2005.
L’affluenza alle urne è andata scemando in ogni elezione europea successiva dopo la creazione del Parlamento europeo nel 1979 e non supera il 50 per cento dal 1999. La legittimità democratica della burocrazia europea da allora è messa pubblicamente in discussione.
Questa crisi di legittimazione è stata fortemente amplificata dalla reazione antidemocratica e antisociale alla crisi debitoria dell’eurozona. Nel 2011, di fronte all’imminente minaccia di un’insolvenza greca e di un catastrofico dissolvimento dell’eurozona, i leader europei hanno avvertito pubblicamente che la UE nel suo complesso era sull’orlo del collasso.
Anche se tali pronunciamenti erano interessato, intesi, com’erano, a giustificare misure draconiane per salvare l’euro, in realtà contenevano un elemento di verità che era rimasto sino ad allora un tabu; il fatto che il processo dell’integrazione europea poteva facilmente invertirsi; un riconoscimento che il movimento in direzione di una “unione sempre più grande” non può assolutamente essere dato per scontato.
Ma se queste tendenze erano discusse pubblicamente dal 2005 e specialmente dal 2011 in poi, gli eventi dell’anno scorso hanno realmente spinto il decadimento interno della UE a un punto di non ritorno.
Il brutale strangolamento finanziario del primo governo a guida Syriza e la brusca erezione di nuove barriere e controlli di confine tra stati membri della UE mostrano che due “conquiste” chiave del progetto neoliberista europeo – l’Unione Monetaria Europea e l’area di libera circolazione di Shengen – sono entrambe in pericolo mortale.
Sommando ciò al suo brutale regime di austerità, al suo estremo disprezzo per i diritti umani legalmente statuiti e internazionalmente vincolanti dei profughi e al suo reazionario giro di vite sulle libertà civili dopo gli attentati di Parigi, è divenuto chiaro la UE è oggi incapace di difendere persino i suoi limitati principi liberali.
Quella che emerge in questo scenario è una profonda crisi di governabilità. Come ha sostenuto in una recente intervista a ROAR Magazine l’eminente sociologo Wolfgang Streeck, l’Europa si trova in un interregno politico. E come sosteneva notoriamente Antonio Gramsci negli anni ’30, tale interregno tende ad accompagnarsi alla comparsa di ogni sorta di sintomi morbosi.
In questa situazione cupa il compito della sinistra vasta e dei movimenti di base consiste nel cominciare a creare alternative concrete alle decadenti istituzioni dell’Unione Europea e nel cominciare a costruire un progetto politico trasformativo ed emancipativo che possa contrastare la continua imposizione del dogma neoliberista della UE, prevenendo contemporaneamente il risorgere della destra reazionaria.
Per un’opposizione progressista moribonda organizzare tale iniziativa trasformativa sarà un’impresa ardua. Tuttavia primi segni di una nuova politica stanno già sorgendo all’orizzonte e nuove opportunità di agitazione sociale e organizzazione politica sorgeranno indubbiamente nel corso del 2016.
Emergendo dalle pratiche democratiche innovative delle lotte di base contro l’austerità e dalla logica partecipativa di iniziative auto-organizzate per i beni comuni, a nuove forme organizzative e immaginari politici è aperta la strada da attivisti di tutto il continente. Possono ben formare la base di un genere diverso di unificazione europea nel futuro: una “Europa in comune”.
Incoraggiata da momenti culminanti quali l’OXI greco, le mobilitazioni #RefugeesWelcome [Benvenuti profughi] e le vittorie elettorali delle piattaforme municipali in Spagna, tale politica emancipativa di base può ancora offrire un’alternativa ispiratrice alla prospettiva di un interminabile declino neoliberista e di tensioni nazionaliste in intensificazione.
Se sarà sufficiente è tutta un’altra questione; una domanda cui si spera saremo in una condizione molto migliore per rispondere tra un anno. Nel frattempo il meglio che i movimenti possono fare è costruire e ampliare il proprio potere collettivo in anticipo rispetto all’inevitabile trambusto sociale, economico e politico che abbiamo ancora davanti.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: teleSUR English
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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