La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 29 dicembre 2015

Di chi ha paura l'Isis?

di Justin Podur 
Kabul è la capitale dell’Afghanistan, una città di più di cinque milioni di abitanti che si è trasformata completamente dal 2001. Kandahar era, e resta, una roccaforte dei talebani. L’autostrada tra Kabul e Kandahar, che passa per Wardak, Ghazni e Zabul è a volte chiamata l’Autostrada della Morte. Un giornalista britannico, scrivendo nel 2012, l’ha definita un “tirassegno pieno di crateri di bombe lungo 300 miglia”. La maggior parte degli afghani non ha altra scelta che percorrerla. Decine di persone che prendono l’autostrada sono uccise ogni anno.
Agli inizi del 2015 sopravvissuti dell’autostrada hanno raccontato al giornalista Samad Ali Nawazesh lo schema degli attacchi: “Quando siamo sull’autostrada Kabul-Kandahar diretti a Jaghoori siamo accostati da molti tipi di rapinatori e individui armati. Perquisiscono i passeggeri, derubano e lasciano andare alcuni. A volte decapitano i passeggeri”.
Prima di questo, nel 2014, l’autostrada Kabul-Behsud (che interseca l’autostrada Kabul-Kandahar) era divenuta famosa come la “Strada della morte” in cui la minoranza afgana degli Hazara era presa specificamente di mira per l’assassinio da parte dei talebani. Gli Hazara sono una minoranza tradizionalmente oppressa. In decenni recenti hanno avviato una rinascita, ottenendo opportunità di istruzione e lavoro che tradizionalmente erano loro precluse. La loro persecuzione da parte dei talebani è stata in parte settaria (gli Hazara sono sciiti, mentre i talebani sono sunniti), in parte un’oppressione tradizionale (la ricerca di mantenere gli Hazara nella loro condizione di inferiorità mediante il terrore). Molte fazioni delle guerre civili sofferte dall’Afghanistan dal 1979 hanno attaccato con particolare ferocia gli Hazara.
Così quando alcuni mesi fa un gruppo di civili Hazara – quattro uomini, due donne e un bambino – sono stati rapiti sull’autostrada Kabul-Kandahar, trattenuti per un mese, probabilmente dall’ISIS-Afghanistan (una scissione dai talebani) e poi decapitati, gli autori dell’atrocità e il governo del paese possono essersi attesi lo stesso genere di reazione terrorizzati cui hanno finito per abituarsi.
La reazione non è stata quella che si aspettavano. Le famiglie delle vittime si sono rifiutate di seppellire i corpi. Hanno marciato con le bare a Kabul.
Scrivendo sul Feministiskt Perspective svedese il dottor Farooq Sulehria, un giornalista con un’estesa esperienza dell’Afghanistan, ha descritto le proteste di massa dell’11 novembre in cui Kabul è “esplosa” su una scala vista “per la prima volta in tre decenni”, con una manifestazione “forte di 30.000 partecipanti” che “si è estesa lungo più di 15 chilometri”. La protesta è stata notevole non solo per la sua dimensione: “Anche se gli Hazara dominano numericamente, ogni etnia è visibile nella manifestazione … Donne a migliaia, a volte con bare sulle spalle, marciano all’avanguardia”. Le proteste, scrive Sulehria, hanno emarginato la tradizionale dirigenza Hazara. “Muhammad Mohaqiq, un signore della guerra e secondo vice del direttore generale e Karim Khalili, ex vicepresidente, non si sono visti alla manifestazione”. Anche la diaspora afgana si è mobilitata, con manifestazioni in molte città davanti alle ambasciate afgane di tutto il mondo. Tra gli slogan c’è n’era uno notevole per la sua semplicità: “Morte allo Stato Islamico”.
E anche se da novembre ci sono stati altri rapimenti di Hazara lungo le autostrade e sono stati trovati altri decapitati, ci sono segni che le proteste possono aver scosso sia i colpevoli sia il governo. A oggi nessuno si è assunto la responsabilità degli assassinii, anche se tutti ritengono responsabile l’ISIS-Afghanistan.
La dimensione delle proteste ha colto di sorpresa le autorità afgane. Le proteste avevano diverse nuove caratteristiche: solidarietà tra tutti i gruppi pashtun, tagiki, uzbeki e hazara dell’Afghanistan; la loro natura di base, con l’emarginazione delle autorità tradizionali del genere signori della guerra; e la loro militanza. Dopo un lungo periodo di silenzio ufficiale il presidente dell’Afghanistan ha promesso di prendere provvedimenti.
L’Afghanistan ha molte tradizioni. Sì, alcune di esse sono conservatrici e religiose. Ma una che raramente è ricordata è la tradizione del nazionalismo che ha unito i gruppi etnici del paese nella lotta per la sovranità e lo sviluppo; ci sono state molte proteste di massa su tale base negli anni ’70.
Un’altra tradizione che è ricordata raramente è la tradizione della lotta delle donne. In primavera ho scritto delle massicce esplosioni di rabbia e di protesta dopo l’assassinio di una donna di nome Farkhunda fuori da una moschea di Kabul. Quell’esplosione, che ha anche sorpreso sia gli assassini sia le autorità, ha costretto il governo ad agire per arrestare e incarcerare alcuni dei colpevoli.
E’ troppo presto per sapere se le proteste del 2015 sono l’inizio di qualcosa di più grande in Afghanistan. Ma certamente c’è del potenziale. Forse un potenziale sufficiente a spaventare quelli che terrorizzano più comodamente gli altri. Grandi numeri di persone che sono militanti, difficili da spaventare e difficili da dividere, sono una forza formidabile, una forza che l’Afghanistan può vedere di più in azione nel 2016.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: teleSUR English
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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