La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 febbraio 2016

Il Tempo senza Taylor

di Daniela Mastracci
Mi è capitato di vedere l’affanno dipinto sui volti. Lo strazio della tensione, l’ansia, la preoccupazione, la frenesia scomposta in movimenti come ipnotizzati e mandati a tutta velocità da un montatore impazzito. Occhi che ruotano vorticosi, mani che sembrano estendersi come elastici stregati a prendere e toccare tutto, gambe inarrestabili, braccia moltiplicate, bocche che pronunciano frasi ininterrottamente e verso tante direzioni insieme. Visi trasformati in maschere pesanti e scure, espressioni cupe, labbra e guance contorte in smorfie quasi macabre, lineamenti contratti. Svuotati della coscienza di sé. Perché non si fermano mai? Ho pensato. Perché mai un respiro tirato fino in fondo? 
Sempre, invece, come troppo lungo per essere respirato. Tempo perso. Anche il respiro. E si prende aria tutto insieme poi si va in apnea, siamo come cammelli ma immagazziniamo ossigeno. E il pasto veloce, e il coffè to go. Bicchieroni coperti e cannucce per succhiare un liquido caldo affogandoci dentro, bevuto per strada cosi non si “perde tempo”, intanto si cammina e si va dove si deve andare. E se qualcuno si frappone fra noi e il tempo?
Lo scansiamo via perché ci è d’intralcio. Rispondiamo congestionati e nervosi. Ma poi abbiamo capito cosa ci domandava quel tipo strano che non ha niente da fare e perciò chiede non si sa che cosa ma tanto cosa importa? Che lo vada a googolare quello che vuole sapere! 
Noi non abbiamo tempo da perdere. La macchina sociale non si ferma. E io dico un po’ stizzita, un po’ nauseata, “ti puoi fermare, la macchina sociale cammina anche senza di te. Puoi respirare, prendere una boccata d’aria, dare tregua ai tuoi muscoli. Puoi farlo. Nulla te lo impedisce” e mi si risponde che sono folle, che non so di cosa parlo, che sono la solita filosofa che non capisce niente della vita reale, delle scadenze, della responsabilità. Di tutto ciò che SI DEVE fare, non c’è mica scelta. E poi a quelle cose da fare chi ci pensa, come si fa? Ti rendi conto? Sei un’aliena. Non vivi su questa terra. Metti i piedi per terra e datti da fare che il mondo non aspetta, non può aspettare nessuno. 
Sono stata una fan del multitasking perché donna e le donne dovevano pur trovare un loro primato. Prendevo in giro gli uomini perché non sono capaci di fare le mille cose assieme che fa una donna. Quasi fosse un che di cui vantarsi, un’eccellenza di cui essere fiere. Non sono più una fan del multitasking. Come Neo in Matrix ho preso la pillola rossa e ho capito. Anche quel “primato” è ideologico, costruito ad arte, manipolatorio, ingannatore. Ci mette su un piedistallo cosi ce ne facciamo “belle” e poi mettiamo in atto ogni fibra del nostro essere per “stare al passo” con quel maledetto modello che ci schiavizza. Così super impegnate, ultra indaffarate, stremate ma “felici” di poter dire quanto siamo brave: ottime serve del sistema. Lavoratrici indefesse. Madri. Casalinghe. E chi più ne ha più ne metta. E chi paga tutto questo “esuberante” lavoro? Chi lo riconosce? Chi lo retribuisce? La fierezza che indossiamo. E però restiamo povere E il tempo? Scorre inesorabile. Non dà tregua. Vatti a chiedere quale tempo? Ecco che se te lo chiedi apri una fenditura. All’inizio è piccola, quasi impossibile vedere attraverso. Ma poi rompi un altro pezzetto di “muro”. Poi ancora un po’. E cosa trovi? La fabbrica. 
Si, trovi proprio la fabbrica con la sua indefessa catena di montaggio, i suoi ritmi inarrestabili e puntuali, il nastro trasportatore che va e viene, mi ricorda i cingoli dei carri armati. Il tempo della macchina detta legge al tempo dell’uomo: è l’uomo che sta accanto alla macchina e deve seguire il suo processo. Eseguire. Restare al passo. Sennò la pressa ti sfonda un braccio. Stai attento, sii vigile e veloce. Guai fermarsi, distrarsi. Parlare con chi ti sta vicino, voltarsi, respirare un poco più a fondo. Taylorismo storico. E non solo nella fabbrica ma nella vita di tutti i giorni. Nel lavoro di tutti. Non solo del lavoratore di fabbrica. Onnipervasivo. Ha incatenato tutti. E così tanto che le relazioni lavorative sono diventate esse stesse paradigma dell’intera gamma delle relazioni umane: sempre di fretta, sempre avanti, sempre veloci. E il ritmo incessante espropria la libertà. Non sappiamo nemmeno più che possiamo scegliere. 
Agiamo come se quel sistema che cavalca il tempo sfidando le possibilità umane sia metafisico, impossibile da fermare ma addirittura da criticare. Voglio pensare un Tempo diverso. Un Tempo mio, dove essere e non subire. 

Fonte: Esseblog 

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