La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 febbraio 2016

La «green economy» non basta

di Alberto Ziparo
In attesa della prossima «catastrofe ambientale», sono addirittura le organizzazioni economiche a ricordarci la gravità delle crisi ecologiche: il Global Risks Report (Grr) del Wef a Davos, e addirittura l’Ocse.
Nel primo si spiega come l’emergenza ambientale sia oggi avvertita dalla popolazione mondiale come il maggior rischio o danno, destinato a crescere per le interazioni e il mutuo alimentarsi con crisi economiche e guerre; e quindi con ulteriori motivi di consolidamento dei problemi sociali (in primis migrazioni forzate e rifugiati) e dunque del disagio e del terrorismo. L’Ocse scopre «i limiti dello sviluppo»:se le tendenze attuali proseguissero con le previsioni di crescita, pure rallentate, di Cina, India e molte aree emergenti, nel giro di un trentennio avremmo il raddoppio della domanda di energia, ma anche la crescita esponenziale delle alterazioni inquinanti: con quasi 4 milioni di morti annui per problemi respiratori o epidemiologici dovuti a gas e polveri sottili, impennate delle emergenze sanitarie dovute alle ondate di calore, oltre alla perdita delle fasce più vulnerabili del territorio e irrimediabili cancellazioni di ecosistemi strutturali fondamentali (foreste equatoriali, molto permafrost polare, ghiacciai di alta montagna, bacini di biodiversità, ecc.), con l’ invivibilità di molte aree metropolitane.
Gli obiettivi formulati a Parigi nello scorso dicembre – al di là della labilità dei meccanismi attuativi – sarebbero innegabilmente compromessi.
Servirebbero invece strumenti rapidi di realizzazione e addirittura di miglioramento delle misure previste dal documento finale della conferenza parigina: ma emerge la debolezza dei quadri istituzionali rispetto a questo obiettivo.
Ciò richiama decisamente le azioni – continue e possibilmente coordinate – di comitati territoriali e associazioni ambientaliste che, ben oltre la difesa dei patrimoni locali, dovrebbero «costringere» i quadri decisionali ad andare oltre le declaratorie e ad attuare rapidamente le determinazioni in questione. E assumere e diffondere la coscienza che la crisi ambientale non è più tanto un’emergenza, quanto un dato strutturale, che richiede ormai politiche permanenti. Che rimandano necessariamente a un modello di sviluppo non subalterno, ma in grado di circoscrivere e ridimensionare, e addirittura normare, l’economia finanziarizzata. Non basta la «green economy»: la riconversione verde delle produzioni deve essere «landscape oriented» ovvero dettata dalla necessità di tutelare e valorizzare i contesti territoriali e i «valori verticali» dei luoghi.
La difesa del suolo – emergenza drammatica invocata disperatamente allorché le «città affogano» sotto la pioggia – richiede non solo un blocco della tendenza al suo consumo, ma la ricostituzione – ove possibile – degli apparati paesistici : vanno riconfigurati, anche con operazioni di renaturing, i cicli biogeochimici, in primis quello dell’acqua. E intanto rispetto ai prossimi temporali alluvionali è importante che si puliscano e si liberino gli alvei fluviali e torrentizi, le vie di fuga dell’acqua.
Serve pianificazione: della città, della mobilità, dell’energia, dell’ambiente, del paesaggio. Anche e soprattutto per abbattere gli inquinamenti urbani, solidi, liquidi e atmosferici. Considerando che la smart city (che pure sta registrando una non irrilevante e confortante crescita spontanea) non può giocarsi solo in termini di innovazione energetica, tecnologica ed economica ma richiama la ricostituzione di un quadro di sostenibilità e qualità ecologica e tipomorfologica della città che può essere garantito solo da progetti e politiche mirati.
Vanno ricercate le operazioni «a bassa o nulla impronta ecologica»; da questo punto di vista è utile esplorare davvero le opportunità offerte dalla citata innovazione: per esempio una nuova linea di tram può significare semplicemente una corsia riservata e un sistema di colonnine elettriche a ricarica rapida, come già avviene con il «Blu Tram», mezzo elettrico a batteria che viaggia senza binari e linee aeree. In generale le infrastrutture vanno realizzate se hanno una domanda effettiva e nelle forme meno impattanti (per chi conosce Milano e le sue recenti trasformazioni invito a riflettere sulle enormi differenze di fruizione e di utilità tra Garibaldi/ Piazza Gae Aulenti, e i nuovi grattaceli del grande capitale atterrato a ingombrare la città, Bosco Verticale compreso): le grandi arterie e le gallerie ferroviarie e metropolitane realizzate decenni fa durante le fasi della città in espansione e ancora relativamente dense nel nord Europa, presentavano problemi infinitamente minori della realizzazione di grandi opere anche sotterranee nell’odierna città consolidata, anche a ridosso del centro storico; con ecosistemi già alterati che spesso non sopporterebbero ulteriori manomissioni e cantieri ingombranti (sottoattraversamento di Firenze).
Ancora il calo del prezzo del petrolio può costituire un pericolo, in quanto ostativo della necessaria transizione rapida verso le energie rinnovabili: bisognerebbe assumere lo stesso atteggiamento tenuto negli ultimi anni rispetto al carbone, riproposto ovunque a ogni piè sospinto, dati i prezzi in picchiata;ma quasi sempre rifiutato dalle popolazioni, fino a finire sostanzialmente fuori gioco in occidente; ed essere ridimensionato fortemente ovunque. Analogamente nel settore rifiuti va proseguita la tendenza verso i «rifiuti 0», rifuggendo dalle false opportunità offerte da pseudoinnovazioni ad alto impatto (termovalorizzatori ecc.).
Nel nostro paese va abrogato o profondamente cambiato lo «Sblocca Italia» che ha in parte recuperato le grandi quanto infauste opere della defunta Legge Obiettivo. È urgente approvare la legge sul blocco di consumo di suolo, impantanata in Parlamento. Per la transizione verso un’economia eco-territorializzata forse serve generalizzare la posizione di qualche anno fa, di un imprenditore come Renato Soru, allora presidente della Regione Sardegna, all’approvazione del virtuoso Piano Paesaggistico: «Il paesaggio disegna anche i profili del prossimo sviluppo economico». Qualunque cosa esuli o risulti incompatibile con le misure che esso detta è da evitare, anche per la riconversione ecologica delle produzioni.

Fonte: il manifesto 

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