La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 maggio 2016

Cherán e la politica dell’impossibile

di Luis Ramírez Trejo
La mattina del 15 aprile del 2011 una decina di donne del municipio p’urhépecha di Cherán, nello stato messicano di Michoacán, bloccò uno delle centinaia di camioncini che ogni giorno attraversavano il villaggio per trasportare legna rubata dai boschi della comunità. In questi camion viaggiavano sempre uomini armati fino ai denti. Dal 2008 i criminali non solo avevano saccheggiato i boschi vicini, Tres esquinas, Pakárakua, San Miguel, Cerritos los Cuates, Carichero, Cerrito de León, Patanciro e El Cerecito, ma avevano anche assassinato, umiliato, minacciato chiunque cercasse di protestare per questo. Pare che avessero anche violentato alcune ragazzine.
Le molteplici denunce da parte della comunità erano naufragate per un anno intero in una valle di silenzio e indifferenza da parte degli uffici di governo.
‏L’aggressione sessuale alle donne del posto era, in generale, pane quotidiano. Rosa, una cheranense di 34 anni, racconta con gli occhi e le guance sul punto di esplodere: “Ogni volta che passavano dicevano: la legna finirà, ma continueremo con le donne anziane di Cherán”.
Rosa faceva parte del gruppo di donne che fermò il camioncino all’angolo tra le vie Allende e 18 de marzo, vicino alla chiesa del calvario, nel Barrio Tercero di Cherán. Le donne non usarono alcun tipo di veicolo per bloccare il cammino ai taglialegna abusivi, non avevano armi e non avevano pianificato alcuna imboscata. Non si erano neanche messe d’accordo il giorno prima. Gli unici mezzi con cui affrontarono i criminali erano i loro corpi, corpi costituiti dagli stessi atomi degli altri: stessi tessuti, stesse cicatrici, stesse asimmetrie della carne, stesse rotondità, stessi brufoli, stessi eccessi. In teoria erano corpo come tutti gli altri e come nessun altro.
‏La verità è che davanti a quel gruppo di uomini armati, i corpi di quelle donne avrebbero potuto restare colpiti dagli spari, una questione di secondi. Sarebbero rimasti a versare lacrime gli orfani, i vedovi, le madri. Per fortuna non andò così. Anche se in seguito si aggiunsero i giovani e l’intero villaggio, l’orizzonte per trasformare la realtà si costituì, almeno nei momenti iniziali, grazie a un gruppetto di corpi di donne: corpi che si potevano rompere, precari,vulnerabili, a rischio perpetuo di perdersi nell’abisso della morte. Corpi che in nessun momento persero la paura ma neanche la rabbia, l’ira, il coraggio necessario per cambiare il loro mondo.
Dice Rosa: “Abbiamo solo fermato le auto. Avevamo paura. Ma avevamo insieme anche coraggio perché non potevamo fare altro che mettercela tutta. Gli uomini cercavano di sollevare l’auto, sì così, sollevata in alto… Si sollevava come fosse in piedi sulle ruote. E noi lì a fermarli. Ci voleva tanto coraggio ma avevamo un po’ di paura nel cuore. Uno decide di ribellarsi perché non gli interessa più il coraggio, e così agisce”.
‏Quella sera, il 15 aprile, la maggior parte dei 18 mila abitanti del villaggio si riunì attorno ai falò, nei quartieri, nelle strade, fuori dalle case. In quelle stesse strade da cui era stata cacciata grazie alla complicità del crimine organizzato con il governo locale. Cherán in p’urhépecha significa spaventare. Gli abitanti di questo villaggio scoprirono che con i falò potevano condividere la paura e il panico ogni volta che gli allarmi annunciavano che stavano per arrivare “i cattivi”. Lì, vicino alle fiamme protettrici, cominciarono a condividere anche l’ira, il caffè, la dignità, il tè di nuriten (pianta medicinale p’urhépecha, ndt), il mezcal, l’amaro e la cena.
‏Nelle prime settimane del movimento mandarono via i taglialegna illegali, la polizia collusa con il crimine, il presidente municipale e tutti i partiti politici. L’intero villaggio si organizzò in una forma di democrazia innovatrice che da allora si concentra nella partecipazione diretta a circa 150 falò collocati in tutti gli angoli della comunità. La Suprema Corte de Justicia de la Nación ha approvato un contenzioso costituzionale che permette a Cherán di reggersi secondo i propri usi e costumi. Hanno eletto, con votazione pubblica, un consiglio maggiore formato da 12 personalità chiamate Keri (grandi). Sono stati tutti prima proposti nei rispettivi falò, poi eletti nelle assemblee di quartiere e designati dall’assemblea generale. La maggior grandezza di questi Keri è che non sono autorità. Come spiegano con orgoglio gli abitanti di Cherán: all’interno della comunità “i Keri sono solo rappresentanti; l’unica autorità è l’assemblea”. Ciò significa in pratica che i Keri possono solo eseguire le decisioni che vengono prese nei falò e nelle assemblee e possono essere rimossi dal loro incarico in qualunque momento, se lo decide l’assemblea. Qualcosa di molto diverso da ciò che succede al resto dei rappresentanti messicani.
Come risultato di questa nuova politica, Cherán non ha partecipato alle elezioni federali del 2012 e 2015. Il villaggio non si è riempito di propaganda elettorale, né di accordi sporchi, corruzione e promesse con cui tutti i partiti di questo paese operano. Nel maggio 2015 Cherán ha eletto secondo i propri usi e costumi il suo secondo Consiglio Maggiore. A distanza di cinque anni la comunità affronta numerose sfide al suo interno, e pressioni continue dall’esterno. Nonostante tutto, accada quel che accada, il municipio di Cherán ha dato una testimonianza concreta di come creare una politica molto diversa da quella che mantiene questo paese affogato nel sangue.
Nonostante tutto, dall’inizio del movimento fino ad oggi, la maggior parte degli analisti, studiosi e politici hanno mostrato scetticismo, quando non ostilità e sdegno, nei confronti del processo che si sta sviluppando a Cherán. Per molti è impossibile che una piccola comunità p’urhépecha continui a sviluppare in maniera duratura una politica che sfida i limiti stabiliti dalle istituzioni governative, i partiti politici, i mezzi di comunicazione e le imprese. “È impossibile che Cherán duri”, dissero in molti cinque anni fa. “E’ impossibile che Cherán sopravviva”, dicono in molti cinque anni dopo. È impossibile tanto quanto lo sono 10 donne che bloccano un fuoristrada con un equipaggio di criminali armati di AK-47. Quanto gli huicholes che bloccano l’avanzamento delle miniere canadesi a Wirikuta. Quanto gli zapatisti che esistono ormai da più di 30 anni. Quanto il fatto che la politica significa qualcosa di più della tragedia con cui si governa questo paese.
‏Forse la politica, o almeno la politica come si pratica a Cherán, è proprio questo: una specie di impegno con l’impossibilità. La politica come una specie di creazione artigianale dell’impossibile; come un telaio in cui al contrario di quello che ci dettano i partiti politici, le istituzioni e i governi- si tesse un mantello impossibile che attraversa e ricopre tutti quelli che vi partecipano. O forse questa politica è come una macchina senza pulegge né ingranaggi dove si fabbricano parole impossibili come giustizia, verità, dignità e comunità. Parole che si affermano come possibilità a partire dalla spoliazione dell’impossibilità.
‏Questo 15 aprile 2016 si sono compiuti cinque anni di impossibilità a Cherán. Impossibile non fare loro gli auguri: buon anniversario.

Articolo pubblicato su Desinformemonos
Traduzione di Miichela Giovannini
Fonte: comune-info.net

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