La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 5 maggio 2016

Università. Cominciò tutto così: il 3+2

di Federico Bertoni
In principio erano due numeri, anzi un’addizione: 3+2. È la formula con cui viene designata comunemente la riforma voluta dall’allora ministro Luigi Berlinguer, che ha cambiato radicalmente gli ordinamenti didattici e la struttura di fondo dell’università italiana. Dico «cambiato» in senso astratto, per sentito dire, perché rispetto al cambiamento non ho mai vissuto un prima e un dopo: ho preso infatti servizio nel novembre del 2000, proprio quando entrava in vigore il nuovo assetto concordato a livello europeo nel cosiddetto «Processo di Bologna» (giugno 1999) e poi sancito dal Decreto Ministeriale 509 del 3 novembre 1999. Come i prigionieri di Platone nella caverna delle ombre, non conosco dunque altra realtà che questa. La mia vita accademica si è sostanzialmente svolta tra le costanti e le variabili di questa formula: un primo ciclo di tre anni concluso dalla Laurea e da un epiteto fondamentale in terra italica, «dottore»; e un eventuale secondo ciclo di due anni che inizialmente si chiamava Laurea Specialistica e che in seguito (potere magico dei nomi!) si è nobilitato in Laurea Magistrale.

Poi, nei meandri tecnici di questo impianto generale, una complicatissima ingegneria burocratica fatta di tabelle e classi di laurea, ordinamenti e regolamenti, curricula e piani didattici. Ci siamo letteralmente spaccati la testa. E l’università italiana ha dato i numeri: 180 crediti al triennio, 120 al biennio, 60 all’anno; quote fisse di crediti definite dalle tabelle ministeriali e ripartite in discipline «di base», «caratterizzanti», «affini e integrative», con un certo margine di manovra lasciato alle singole facoltà. Un puzzle, un rompicapo, un Risiko per ammazzare la noia (e forse gli ultimi cervelli pensanti). Ho visto cose che voi umani… Colleghi che schieravano le truppe per annettere tre crediti in più alla loro disciplina; altri che lottavano come dannati perché volevano stare tra le «caratterizzanti» (o forse tra le «base», mai capito quali contassero di più); altri ancora che tessevano alleanze per sgominare un nemico o attestarsi in un punto strategico. I rapporti di forza si consolidavano con la sanzione implacabile dei numeri. Chi era un po’ somaro in aritmetica era fregato: se ti distraevi e non facevi bene i calcoli ti tagliavano fuori, e buona notte. La cosa più impressionante era lo sfrenato, abissale scollamento tra il nostro vero lavoro e ciò di cui si discuteva per ore e ore nelle commissioni e nei consigli di facoltà. Era la distanza siderale che separava i contenuti, i metodi, la passione e l’esperienza vissuta del nostro sapere dagli scatoloni più o meno vuoti in cui cercavamo di stiparlo, costruendo corsi e master come mobili dell’Ikea[1], e con l’unica preoccupazione di far tornare i conti.
Perché il 3+2, soprattutto all’inizio, è stato davvero un grande business: scelte politiche e provvedimenti legislativi hanno fornito il quadro giuridico in cui far scorrazzare l’imperdonabile irresponsabilità del corpo docente italiano. Crediti in più per la propria disciplina, possibilmente obbligatori, significavano un maggior numero di studenti, corsi sdoppiati, esami, tesi – e dunque nuovi posti da rivendicare, e maggior potere. Gli effetti immediati, impliciti nel sistema e assolutamente prevedibili, sono stati quelli che hanno legittimato le riforme delle riforme e i tagli finanziari successivi: proliferazione delle sedi didattiche e dei corsi di laurea, moltiplicazione e frammentazione estrema degli insegnamenti. Fai crescere in modo indiscriminato la foresta e poi affili la scure. Genio strategico di prim’ordine. Trappola perfetta.
Ovviamente la riforma aveva un senso e una giustificazione storica. Nasceva da obiettivi condivisibili e dal tentativo di emendare vizi cronici dell’università italiana – modernizzare, aumentare il numero dei laureati, ridurre i fuori corso, ricondurre i curricula italiani agli standard internazionali, inseguire il cosiddetto «mondo del lavoro». Però è stata applicata con pressappochismo, miopia, stupidità congiunturale e una buona dose di malafede. In sostanza, i primi anni di vita della “nuova” università hanno impostato il perverso schema di fondo che ritroviamo anche oggi: un cambiamento potenzialmente positivo, e probabilmente necessario, ideato e realizzato nel modo più stupido possibile. Criticare questo stato di cose non significa rimpiangere il passato ma pretendere che il presente sia governato con un minimo di intelligenza. Io non ho alcuna nostalgia della “vecchia” università. Ne ho conosciuto gli ultimi strascichi da studente, gli inverosimili programmi da migliaia di pagine, la burocrazia ostile e cartacea, le code interminabili in segreteria, i professori come figure un po’ aliene e remote che sparivano a maggio e riapparivano a ottobre, e che a volte si eclissavano per un intero anno sabbatico, per me pura fantascienza. Ma non ne ho alcuna vera esperienza in quanto ricercatore e docente. Sospetto che le accuse dei detrattori siano fondate, e che quel pittoresco castello in rovina fosse in gran parte un concentrato di inefficienza, feudalesimo e privilegio, legato a una forma di vita ormai estinta e a una visione del mondo anacronistica e obsoleta. In verità ricordo anche alcuni corsi memorabili tenuti in quelle aule malandate, tra cui quelli del mio maestro, Mario Lavagetto, una delle cose certamente buone uscite dalla vecchia università. Ricordo lezioni di letteratura e di vita, e ore passate a discutere nei seminari o a leggere libri su libri per cercare (o fingere) di essere all’altezza. Ma è più o meno tutto. Non credo che si potesse invocare il dispositivo retorico di Sodoma: «forse ci sono cinquanta giusti nella città…». E quando sono riuscito a intrufolarmi nel castello, alla svolta del millennio, ho visto che gli interni erano assai meno fascinosi delle torri merlate visibili in facciata, piene di crepe ma ancora slanciate verso il cielo: mucchi di ciarpame, scartoffie, robaccia, caricature del dipendente pubblico imboscato, studiosi mediocri cooptati con l’ope legis, vecchi tromboni che concionavano in cattedra senza capire che l’edificio stava crollando. Certo qualcosa bisognava cambiare. Non per la gloria del solito ministro iperattivo ma perché erano cambiati gli studenti, le tecnologie, le enciclopedie, gli orizzonti condivisi, le modalità di relazione, i modelli di sapere e molte altre cose. Però non così. Non con questo fanatismo ideologico. Non con questa idiozia.
Tra le mille sciocchezze che abbiamo commesso io vedo soprattutto due errori, uno teorico e uno psicologico. Il primo è un vizio di fondo implicito nello schema 3+2 e nella finalità primaria che ne ha plasmato l’ideologia e la prassi: creare percorsi «professionalizzanti» (orrenda parola magica di quegli anni) per ridurre lo scarto tra formazione e lavoro e immettere sul mercato laureati già pronti per l’uso, senza quel fastidioso bagaglio di nozioni teoriche e sapere critico di cui il tardo capitalismo, soprattutto in Italia, non sa proprio che farsi. Che l’obiettivo sia sostanzialmente fallito nella prassi (riuscendo però a meraviglia nell’intento di sterilizzare curiosità scientifica e senso critico) è in fondo meno grave rispetto alla contraddizione logica di tutto il progetto, concepito e realizzato come un edificio a testa in giù. Lo ha spiegato lucidamente Raul Mordenti:
"il DM 509 propone e impone che la Laurea triennale sia già professionalizzante, cioè che essa prepari immediatamente a una professione, mentre rimanda al successivo, ed eventuale, biennio della Laurea specialistica (o magistrale) l’approfondimento della teoria e dunque l’attività di ricerca; ma pensare questo è come pensare di costruire una casa cominciando dal tetto, rimandando a un secondo tempo la costruzione delle fondamenta. […] La verità è che per i saperi specialistici a cui l’Università prepara […] la teoria e la ricerca non sono affatto un lusso, non sono un “di più” facoltativo ed eventuale; esse sono – al contrario – il cuore, il contenuto professionale stesso di tutte le professioni intellettuali, senza eccezioni[2]."
Il secondo errore attiene invece a quel volatile insieme di giudizi, abitudini e rappresentazioni psichiche che chiamiamomentalità, e che a dispetto del nome produce effetti rilevanti sulla vita pratica e materiale. Ho intuito subito che l’interpretazione della maggior parte dei docenti collimava con il vizio ideologico del 3+2: una base larga, in cui fare il lavoro sporco e giocare inevitabilmente (?) al ribasso, riducendo e banalizzando i programmi, trattando gli studenti come mandrie al pascolo, e un vertice elitario a cui riservare il distillato del proprio sapere e attività più selezionate e gratificanti come seminari, ricerche individuali o percorsi personalizzati. Quando sentivo scattare questa trappola mentale cercavo inutilmente di sfuggire; e dicevo: colleghi, stiamo attenti, gli studenti della laurea magistrale non piovono dalla luna ma sono i nostri stessi studenti del triennio, solo più vecchi di un anno. Li abbiamo laureati noi. Se li alleviamo come somari non potranno volare. Se non investiamo innanzitutto sul livello più basso non andremo da nessuna parte. Ma allora ero giovane e ingenuo. Non capivo che la finalità intrinseca del sistema, voluto e istituito da un ministro di sinistra, era esattamente questa: divaricare i livelli, contrapporre massa e qualità, rinsaldare i privilegi di origine e classe, e in fin dei conti smantellare quel confuso ma glorioso progetto di emancipazione sociale che l’Italia repubblicana aveva tentato di realizzare, anche e soprattutto attraverso l’università, fedele all’articolo 3 della Costituzione. Ma quel progetto era fallito, e gli anni successivi l’avrebbero ribadito a oltranza. Il Sessantotto era lontano come il Giurassico. Stava iniziando l’era dell’Eccellenza.

[1] Traggo l’immagine, indubbiamente efficace, dal titolo di un pamphlet di Maurizio Ferraris del 2001 poi ripubblicato in edizione aumentata nel 2009, Una ikea di università. Alla prova dei fatti, Raffaello Cortina, Milano 2009.

[2] R. Mordenti, L’università struccata. Il movimento dell’Onda tra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, pp. 44-45.

Esce in questi giorni, per Laterza, Universitaly. La cultura in scatola di Federico Bertoni, un «libro sull’università del XXI secolo, e forse su altre cose del mondo in cui viviamo». Questo testo è un estratto.

Fonte: leparoleelecose.it

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