La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 6 maggio 2016

Governo del fare e Partito dell'onestà

di Augusto Illuminati
Governo del fare. Fare che? Mica è lo stesso privatizzare o promuovere l’accesso ai beni comuni, abbassare i salari e le tutele dei salariati o accrescerli, incrementare la precarietà o introdurre un reddito di cittadinanza – eppure sempre di "fare" si tratta, come farsi una canna, fare opere di bene, fare schifo.
Onestà? Se sento vantare l'onestà del capitano – per parafrasare Brecht –, sospetto che gli strumenti della nave non stiano messi bene. L'onestà è una virtù privata con risvolti relazionali, ma si dice in molti modi: diversa l'affidabilità reciproca di partner amorosi, la fiducia in chi mi vende un'obbligazione, la credibilità di un eletto.
Come si vede, non sono cose incomunicabili, ma neanche coincidenti.
Il giudizio sul governo dipende dai suoi contenuti, dagli interessi che rappresenta, in ultima battuta anche dalla coerenza fra le promesse con cui ha conquistato consenso e il grado in cui le mantiene. Che ci siano nel ceto politico troppi che vivono di politica più che vivere per la politica produce alla lunga inefficienza complessiva, oltre che disonore per i singoli. Diciamo incidentalmente che l’onestà propria di un politico (non la scrupolosa oggettività di un funzionario esecutivo) è, weberianamente, l’onore, lo spirito di parte, la dedizione appassionata a una causa e il coraggio di prendersi le proprie responsabilità nella lotta. Dal punto di vista degli esclusi e degli oppressi, l’onore è lo spirito di parte dei senza parte. Non abbiamo l’ossessione delle mani pulite, anche se rifiutiamo il degrado dei politici a faccendieri. E ovviamente non crediamo che i giudici debbano essere gli arbitri dell’onore politico, ma solo dell’illegalità burocratica – anche se non è facile separarli per la natura stessa amministrativa della governamentalità post-democratica.
Esattamente come il “fare” è una categoria ambigua, perché non solo comprende il “fare bene” e il “fare male”, ma lo stesso “fare bene” dipende dagli scopi serviti: “fa bene” il proprio mestiere il padrone o il governante che abbassa i salari, “fa bene” il proprio mestiere il lavoratore o il governante che riesce ad alzarli. E, siccome nessuno se ne sta per principio con le mani in mano e anche il non agire è una forma di azione, di lasciare le cose come stanno salvaguardando un certo tipo di rapporti, tutto il discorso sul “fare” è pura retorica di attivismo, vanteria di avercelo più lungo.
Idem per l’onestà. Le forze politiche che la rivendicano come un patrimonio esclusivo, oltre a restare nel vago, l’associano in genere al rispetto rigoroso della “legalità”. Concetto altrettanto vago, perché rinvia a una determinata struttura di interessi giuridicamente espressi in un ordinamento riconosciuto, da cui le singole disposizioni discendono. Di essa possiamo dire soltanto che l’inosservanza della legalità vigente, quale che sia il nostro giudizio sulla legittimità retrostante, porta a sanzioni penali o meglio alla probabilità di tali sanzioni, visto che la coerenza nell’applicare la legge è del tutto smagliata. Quindi chi viola la “legalità” rischia, magari per ottimi motivi, per esempio per instaurare una nuova legittimità. Quante accuse di devastazione e saccheggio o attentato ai poteri dello stato hanno colpito chi si batteva contro la guerra o per difendere il carattere pubblico di scuola e università o altri beni comuni? Prima di entusiasmarci per avvisi di garanzia e facili carcerazioni preventive riflettiamoci un poco. Strillare contro i ladri e i corrotti copre spesso ingiustizie più radicali, il moralismo adorna di fiori di plastica lo sfruttamento.
Se la società è divisa in classi o se l’1% si contrappone al 99% o qualsiasi analisi facciamo di una condizione asimmetrica e conflittuale, fare, onestà e legalità non possono essere concetti neutri. Non si tratta di relativismo caso per caso – questo lo praticano già i fautori del fare per cui è buono quello che fanno loro e cattivo quello che fanno gli altri, o i paladini dell’onestà che si rinfacciano a vicenda le disgrazie giudiziarie dei loro avversari – ma di prendere atto del fatto che viviamo in una città divisa e su questo vanno calibrati i discorsi di principio.
Lo stesso vale per l’espressione giuridica massima della legittimità, per la Costituzione come fonte della legalità corrente. Il cambiamento costituzionale non è buono in sé come neppure la sua conservazione. In entrambi i casi, poi, l’efficienza governamentale appartiene a un altro piano. Valutiamo, per esempio, che i cambiamenti proposti e messi a referendum a ottobre prossimo accentuano lo squilibrio di poteri a favore dell’esecutivo e la restrizione della partecipazione democratica, in perfetta consonanza con le privatizzazioni, il JobsAct, le impostazioni neo-liberali, ecc., quindi vale la pena di opporsi senza fare della Costituzione vigente un feticcio, anzi sapendo benissimo che corrisponde a una fase ormai tramontata del riformismo capitalistico del secondo dopoguerra. E che contiene, per aggiunte recenti eterogenee, anche principi nefasti, quale il pareggio obbligatorio di bilancio imposto dall’Europa. Ci opponiamo ai peggioramenti renzian-boschiani soltanto come prima tappa di una riforma costituente che vada in senso opposto, verso l’incorporazione nella legittimità costituita dei beni comuni, di una maggiore partecipazione democratica, del diritto alla città e del municipalismo più che del regionalismo, ecc. Per questo il nostro rapporto con i costituzionalisti dei Comitati per il NO va costruito tenendo conto dell’esistenza di contraddizioni strategiche e di comuni vantaggi tattici.

Fonte: dinamopress.it 

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