La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 6 maggio 2016

L’Europa (e il mondo) che non vogliamo

di Fausto Durante 
Da alcuni anni, da quando è iniziato il negoziato tra Ue e Usa sul Ttip, ovvero il progetto del grande accordo sul commercio internazionale tra le due sponde dell'Atlantico, la Cgil e l'insieme del movimento sindacale – in Europa, negli Stati Uniti, nelle strutture internazionali – manifestano la propria contrarietà sui contenuti e sul metodo di realizzazione dell'accordo stesso, chiedono di fermare le trattative e riavviarle su basi condivise e favorevoli al mondo del lavoro, partecipano alle iniziative e alle campagne contro il Ttip e gli analoghi accordi di libero scambio (il Ceta tra Ue e Canada, il Tpp tra gli Usa e l'area del Pacifico, il Tisa sui servizi pubblici) che si sono ben presto avviate in tutto il mondo.
È per questo che oggi siamo in piazza a Roma nella prima iniziativa nazionale italiana di mobilitazione per fermare il Ttip, dove porteremo le ragioni del lavoro e le voci di delegate e delegati sindacali nella manifestazione che partirà nel primo pomeriggio da piazza della Repubblica per concludersi a piazza San Giovanni. Alla base di questa scelta c'è la nostra opposizione alla logica meramente mercantile che sottende al Ttip e all'approccio di stampo neoliberista ai temi del commercio internazionale, che purtroppo negli ultimi anni hanno avuto campo libero anche nelle scelte e nelle decisioni dell'Europa, denotando una preoccupante subalternità culturale e politica rispetto al modello economico statunitense.
Un modello che su molte questioni – dal rispetto di vincoli di sicurezza e sostenibilità nelle attività economiche al valore di regolamentazioni e controlli neutrali, dalla responsabilità sociale dell'impresa ai principi di precauzione, specie su cibo e filiera alimentare – configge con lo spirito del modello sociale europeo che oggi occorrerebbe difendere e rilanciare. È utile concentrarsi qui su tre delle principali questioni che ci portano a chiedere di fermare il negoziato sul Ttip e di ridiscuterne il senso e lo scopo. Tre ragioni che in sé riassumono la nostra generale posizione.
La prima questione riguarda l'impatto potenziale del Ttip sull'agricoltura, soprattutto sull'industria agroalimentare italiana, e sulla qualità di cibi e alimenti su cui in Europa esistono regole di tracciabilità, standarddi sicurezza e garanzie per i consumatori. Sulla base di quanto è dato di sapere dai documenti che circolano, la maggior parte dei prodotti italiani a denominazione di origine controllata e protetta e di provenienza geografica tipica sarebbero privati di ogni protezione e, quindi, soggetti a processi di imitazione e contraffazione che oggi sono in buona parte proibiti, ma che con il Ttip diventerebbero legali.
Nella bozza del trattato Ceta tra Ue e Canada solo sette dei circa 300 prodotti dell'eccellenza alimentare e gastronomica italiana hanno ricevuto garanzie di protezione, nel Ttip non saranno molti di più. Tutto ciò potrebbe avere conseguenze economiche, produttive e occupazionali molto gravi in uno dei settori più rilevanti del made in Italy. A ciò occorre aggiungere che, nella furia verso la deregolamentazione, il principio di precauzione e le norme sulla sicurezza nel ciclo della produzione alimentare rischiano di essere travolti. Non avremmo nessuna garanzia sul fatto che cibi e alimenti importati dagli Usa non siano stati "integrati" con Ogm e ormoni o lavati con cloro e derivati, pratiche molto diffuse e accettate al di là dell'Atlantico, ma vietate in Europa. Né possiamo pensare che la struttura dimensionale dell'industria alimentare europea e italiana possa sopportare senza conseguenze l'impatto con quella statunitense, di gran lunga più forte quanto a gigantismo delle imprese, a disponibilità di terreni e di risorse economiche, a trattamenti e condizioni di lavoro.
La seconda questione riguarda la presunta necessità di protezione degli investimenti e la decisione di costruire un meccanismo di arbitrato internazionale nelle controversie tra gli Stati e gli investitori, cioè le grandicorporation e le multinazionali. Noi non vediamo ragioni per creare un sistema di giustizia parallela per proteggere gli investimenti, e quindi le imprese, nell'ambito di un trattato che riguarda non paesi in via di sviluppo o con strutture statali fragili o autoritarie. Il Ttip riguarda Ue e Usa, ossia le aree economiche più forti del mondo, in cui esistono una consolidata cultura del diritto e un sistema di giustizia in grado di offrire garanzie sufficienti.
I meccanismi di arbitrato internazionale, per come li conosciamo, sono pensati sulle esigenze delle imprese.Che, infatti, prevalgono in circa il 75% dei casi sinora esaminati. E che spesso vincono anche contro entità statali e amministrazioni pubbliche che cercano di proteggere i cittadini. Abbiamo visto, in questi anni, imprese multinazionali ottenere risarcimenti ingentissimi da Stati o enti locali condannati a pagare per aver aumentato il salario minimo dei lavoratori, per aver alzato le tasse sul consumo di bevande dannose per la salute, per aver allargato di qualche millimetro lo spazio per i consigli antifumo sui pacchetti di sigarette, per aver rivisto i limiti di emissione di sostanze pericolose nell'atmosfera.
Siamo al paradosso di governi e amministratori eletti democraticamente che devono soccombere di fronte alle multinazionali per aver operato nell'interesse e per il bene delle popolazioni. Così come potremmo vedere imprese contestare accordi contrattuali, di livello nazionale o aziendale, in quanto elementi modificativi del quadro esistente al momento della realizzazione dei loro piani di investimento. Un delirio ideologico volto ad affermare sempre e a ogni costo il primato dell'impresa, un ribaltamento della gerarchia dei valori tra profitto e interesse collettivo, a cui bisogna opporsi senza più tentennamenti e liberandosi dal disorientamento fatale che sembra aver colpito l'Europa, le sue classi dirigenti, la sinistra politica. Senza trascurare il fatto che l'Europa intende stipulare un accordo di libero scambio con un paese, gli Usa, che non ha ratificato alcuna tra le principali convenzioni fondamentali dell'Oil, tra cui quelle sul diritto alla contrattazione collettiva, sulla libertà di organizzazione sindacale, sul contrasto alle discriminazioni.
La terza questione, infine, è certamente la più importante, poiché riguarda il carattere democratico e partecipativo dei processi decisionali in Europa, la cui crisi è dimostrata dalla vicenda del Ttip. Tutto ciò che riguarda questo accordo è avvolto da una coltre impenetrabile di segretezza e di oscurità. Il mandato negoziale è ambiguo, il Parlamento europeo e i quelli nazionali saranno chiamati a un voto "prendere o lasciare" a negoziati conclusi, l'accesso alla documentazione disponibile è estremamente difficile e avviene in condizioni inaccettabili per dei rappresentanti eletti dal popolo (niente carta per prendere appunti, niente penne o matite, niente foto o cellulari, obbligo assoluto alla riservatezza). I portatori di interessi diversi da quelli delle imprese, a partire da noi, dalle organizzazioni sindacali, sono coinvolti solo marginalmente nel percorso informativo sul negoziato, mentre ogni lobby trova ascolto presso i negoziatori.
Il tutto mentre la Commissione europea prosegue incurante di una consultazione popolare che ha visto milioni di cittadini esprimersi contro il Ttip e di studi economici che dimostrano come gli effetti dell'eventuale accordo sull'economia europea siano limitati se non nulli. Ecco, questa è esattamente l'Europa che non vogliamo, l'Europa che su questo come su altri temi – le politiche economiche sbagliate e la crisi dei rifugiati su tutti – sembra avere smarrito la sua anima e il suo spirito originario.
Come si vede, non è solo una questione di accordi commerciali. È in gioco una visione diversa del mondo e del suo futuro, la possibilità di definire una direzione alternativa a quella presente per ciò che riguarda lo sviluppo dell'economia e dei mercati. Noi siamo convinti di essere dalla parte giusta, quella del lavoro, dei diritti, dello sviluppo sostenibile, di un commercio internazionale improntato a principi di equità e di giustizia sociale. Per tutto ciò oggi siamo in piazza a Roma.

Fonte: Rassegna sindacale 

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