La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 luglio 2016

Il Brexit e l’implosione dell’Unione Europea

di Samir Amin
La difesa della sovranità nazionale, così come la sua critica, dà luogo a i gravi malintesi non appena la si stacca dal contenuto sociale di classe della strategia nella quale essa si iscrive. Il blocco sociale dirigente delle società capitalistiche concepisce sempre la sovranità come uno strumento necessario per la promozione dei propri interessi, fondati allo stesso tempo sullo sfruttamento capitalista del lavoro e sul consolidamento delle sue posizioni internazionali. Oggi, all’interno del sistema neoliberale mondializzato (che preferisco qualificare come ordoliberale), dominato dai monopoli finanziarizzati della triade imperialista (Stati Uniti, Europa, Giappone), i poteri politici incaricati della gestione del sistema a beneficio esclusivo dei monopoli in questione, concepiscono la sovranità nazionale come strumento che permette loro di migliorare le loro posizioni “competitive” nel sistema mondiale.
I mezzi economici e sociali di Stato (sottomissione del lavoro alle esigenze degli imprenditori, organizzazione della disoccupazione e della precarietà, segmentazione del mondo del lavoro) e gli interventi politici (ivi compresi gli interventi militari) sono associati e combinati nel perseguimento di un solo obiettivo: massimizzare il volume della rendita accaparrata dai monopoli “nazionali”. Il discorso ideologico ordoliberale vuole stabilire un ordine fondato esclusivamente sul mercato generalizzato, nel quale i meccanismi sarebbero auto regolatori e produttivi dell’ottimo sociale (cosa che è evidentemente falsa), a condizione che la concorrenza sia libera e trasparente (cosa che non avviene mai, e che non può essere nell’era dei monopoli), così come pretende che lo Stato non abbia alcun ruolo da svolgere oltre alla garanzia del funzionamento della competizione nella gestione (cosa che è contraria ai fatti: questa esige l’intervento attivo dello Stato in suo favore; l’ordoliberismo è una politica di Stato). Questo discorso – espressione dell’ideologia del “virus liberale” - impedisce di comprendere il funzionamento reale del sistema e come le funzioni dello Stato e la sovranità nazionale la soddisfino. Gli Stati Uniti sono un esempio di una pratica della messa in opera decisa e continua della sovranità nazionale intesa in questo senso “borghese”, cioè oggi al servizio del capitale dei monopoli finanziarizzati. Il diritto “nazionale” beneficia negli Stati Uniti della supremazia affermata e riconfermata sul “diritto internazionale”. Era lo stesso nei paesi imperialisti dell’Europa del XIX e del XX secolo.
Le cose sono cambiate con la costruzione dell’Unione Europea? Il discorso europeo le sostiene e le legittima attraverso la sottomissione delle sovranità nazionali al “diritto europeo”, espresso attraverso le decisioni degli organi di Bruxelles e della Bce, in virtù dei trattati di Maastricht e di Lisbona. La libertà di scelta degli elettori è essa stessa limitata dalle esigenze sovranazionali evidenti dell’ordoliberismo. Come la Sig.ra Merkel ha detto: “ questa scelta deve essere compatibile con le esigenze del mercato”; al di là perde la sua legittimità. Ciononostante al contrario di questo discorso, la Germania afferma nei fatti delle politiche che mettono in opera l’esercizio della sua sovranità nazionale, e si impegna a sottomettere i suoi associati europei al rispetto delle sue esigenze.
La Germania ha messo a profitto l’ordoliberismo europeo per stabilire la propria egemonia, in particolare nella zona Euro. La Gran Bretagna – attraverso la sua scelta del Brexit – ha affermato a sua volta la sua scelta decisa a mettere in opera i vantaggi dell’esercizio della sua sovranità nazionale.
Si può comprendere allora che il “discorso nazionalista” e il suo elogio senza limiti delle virtù della sovranità nazionale, intesa in questo modo (la sovranità borghese-capitalista) senza che si menzioni il contenuto di classe degli interessi che serve, sia sempre stata oggetto di riserve, ad essere gentili, delle correnti di sinistra latu sensu, cioè di tutti quelli che si preoccupano di difendere gli interessi delle classi lavoratrici. Guardiamoci bene quindi dal ridurre la difesa della sovranità nazionale alle sole modalità del “nazionalismo borghese”. Questo avvertimento diventa necessario per servire altri interessi sociali rispetto a quelli del blocco capitalista dirigente. Questa sarà quindi strettamente legata allo sviluppo delle strategie di uscita dal capitalismo e di impegno per la lunga strada verso il socialismo. Rappresenta una condizione inevitabile degli avanzamenti possibili in questa direzione. La ragione è che la rimessa in questione effettiva dell’ordoliberismo mondiale (ed europeo) non sarà mai altro che il prodotto degli avanzamenti ineguali di un paese sull’altro, da un momento all’altro. Il sistema mondiale (e il sotto sistema europeo) non è mai stato trasformato “dall’alto”, attraverso decisioni collettive della “comunità internazionale” (o “europea”). Le evoluzioni di questo sistema non sono mai stato altro che il prodotto dei cambiamenti che si impongono nel quadro degli stati che li compongono, e di quello che risulta rispetto all’evoluzione dei rapporti di forza tra gli Stati. Il quadro definito dallo Stato (“nazione”) resta quello nel quale si svolgono le lotte decisive che trasformano il mondo.
I popoli delle periferie del sistema mondiale, polarizzato per natura, hanno una lunga esperienza di questo nazionalismo positivo, cioè antimperialista (rifiuto dell’ordine mondiale imposto) e potenzialmente anticapitalista. Dico solo potenzialmente perché questo nazionalismo può essere allo stesso modo portatore dell’illusione della costruzione di un capitalismo nazionale che arriva a “raggiungere” le costruzioni nazionali dei centri dominanti. Il nazionalismo dei popoli delle periferie non è progressista che a questa condizione: che sia antimperialista, oggi in rottura con l’ordoliberismo mondializzato. D’altra parte un “nazionalismo” (quindi solo apparente) che si iscriva nell’ordoliberismo mondializzato, e che per questo non rimetta in causa le posizioni subalterne nel sistema della nazione in questione, diventa lo strumento delle classi dominanti locali preoccupate di partecipare allo sfruttamento dei loro popoli ed eventualmente dei partner periferici più deboli, verso i quali si comporta come un “sub-imperialismo”.
Oggi degli avanzamenti – audaci o limitati – che permettano di uscire dall’ordoliberismo sono necessari e possibili in tutte le regioni del mondo, Nord e Sud. La crisi del capitalismo ha creato un terreno favorevole alla maturazione di una congiuntura rivoluzionaria. Esprimo questa esigenza oggettiva, necessaria e possibile, in una breve frase: “uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?” (il titolo di uno dei miei libri). Uscire dalla crisi non è un nostro problema, lo è per i dirigenti capitalisti. Che ci arrivino (e a mio parere non sono affatto impegnati sulle vie che lo permettano) o meno non è un nostro problema. Cosa abbiamo da guadagnarci associandoci ai nostri avversari per ridare vita all’ordoliberismo in panne? Questa crisi crea al contrario delle possibilità di avanzamento costante, audace o meno, a condizione che i movimenti in lotta adottino strategie che si pongano questo obiettivo. L’affermazione della sovranità nazionale si impone allora, per permettere questi avanzamenti ovviamente ineguali tra un paese e l’altro, ma sempre in conflitto con le logiche dell’ordoliberismo. Il progetto nazionale sovrano popolare, sociale e democratico proposto in questo scritto è concepito in questo senso. Il concetto di sovranità messo in opera qui non è quello della sovranità borghese-capitalista; se ne distingue e deve essere qualificato per questa ragione come sovranità popolare. 
L’amalgama tra questi due concetti antinomici, e a partire dal rifiuto rapido di qualsiasi “nazionalismo” senza altra precisazione, annichilisce qualsiasi possibilità di uscire dall’ordoliberismo. Purtroppo in Europa – e altrove – la sinistra contemporanea impegnata nelle lotte pratica spesso questo amalgama.
Difendere la sovranità nazionale non è sinonimo semplice di volere “un’altra mondializzazione, multipolare” (rispetto al modello di mondializzazione in opera), fondata sull’idea che l’ordine internazionale debba essere negoziato tra partner nazionali sovrani, uguali nei diritti, e non imposto unilateralmente dai potenti – la triade imperialista, Stati Uniti in testa – come succede nell’ordoliberismo. Ancora. Bisogna rispondere alla domanda: un mondo multipolare, per fare cosa? Perché questo può essere concepito come regolato dalla competizione tra i sistemi che accettano l’ordoliberismo; o, al contrario, come un quadro che apre dei margini di manovra ai popoli che vogliono uscire da questo sistema ordoliberale. Bisogna quindi precisare la natura dell’obiettivo perseguito nel quadro del sistema multipolare proposto. Come sempre nella storia un progetto nazionale può essere ibrido, attraversato dalla contraddizione tra le tendenze che si sviluppano, alcune favorevoli a una costruzione nazionale capitalista, altre che si pongono altri obiettivi, che lo superano grazie al loro contenuto sociale progressista. Il progetto sovrano della Cina ne fornisce un bell’esempio; i progetti semi sovrani dell’India e del Brasile, degli altri.
L’Unione Europea in panne
Sebbene l’implosione del progetto europeo (e in particolare del sottosistema dell’Euro) sia già avviata da diversi anni (vedi Samir Amin, L’implosione del capitalismo contemporaneo), il Brexit ne costituisce una manifestazione evidente.
Il progetto europeo era stato concepito dall’origine nel 1957 come lo strumento messo in opera dai monopoli capitalisti dei partner – Francia e Germania in particolare – con il sostegno degli Stati Uniti, per allontanare il rischio di virate socialiste, radicali o moderate. Il Trattato di Roma, che scriveva nel marmo il carattere sacro della proprietà privata, rendeva ormai illegale qualsiasi aspirazione al socialismo, come disse all’epoca Giscard d’Estaing. In seguito e progressivamente, questo carattere è stato rafforzato attraverso la costruzione europea, una costruzione in cemento armato dal Trattato di Maastricht e di Lisbona. L’argomento orchestrato dalla propaganda per fare accettare il progetto è stato che questo aboliva definitivamente le sovranità nazionali degli Stati dell’Unione, queste sovranità (nelle loro forme borghesi/imperialiste) che erano state all’origine dei massacri senza precedenti delle due grandi guerre del XX secolo. Per questo il progetto ha beneficiato di una eco favorevole tra le giovani generazioni, facendo balenare una sovranità europea democratica e pacifista, che prendeva il posto delle sovranità nazionali guerriere del passato. In realtà le sovranità degli Stati non sono mai state abolite, ma mobilitate per fare accettare l’ordoliberismo, diventato il quadro necessario per garantire ai monopoli ormai finanziarizzati il monopolio della gestione economica, sociale e politica delle società europee; e questo quale che siano le evoluzioni possibili delle opinioni. Il progetto europeo è fondato sul rifiuto assoluto della democrazia (intesa come l’esercizio della scelta tra dei progetti sociali alternativi) che va ben al di là del “deficit di democrazia” invocato verso le burocrazie di Bruxelles. Ne ha dato prove ripetute; e ha di fatto annullato la credibilità delle elezioni i cui risultati non sono legittimi che nella misura in cui sono conformi alle esigenze dell’ordoliberismo.
La Germania è stata in grado, nel quadro di questa costruzione europea, di affermare la propria egemonia. In questo modo la sovranità (borghese/capitalista) tedesca si è eretta sostituendosi a una sovranità europea inesistente. I partner europei sono invitati ad allinearsi sulle esigenze di questa sovranità superiore alle altre. L’Europa è diventata l’Europa tedesca, in particolare nella zona Euro dove Berlino gestisce la moneta a beneficio prevalente dei Konzern tedeschi. Uomini politici importanti, come il Ministro delle Finanze Schauble, ricattano permanentemente e minacciano i partner europei di una “uscita della Germania” (Gexit) nel caso si rimetta in questione l’egemonia di Berlino.
Ci si guarda bene dal tirare le conclusioni dei fatti evidenti: che il modello tedesco avvelena l’Europa, Germania compresa. L’ordoliberismo è all’origine della stagnazione tenace del continente, associata a delle politiche di austerità permanente. L’ordoliberismo è quindi un sistema irrazionale non appena ci si mette nella prospettiva della difesa degli interessi della maggioranza popolare in tutti i paesi dell’Unione, Germania compresa, come nella difesa di lungo termine delle condizioni di riproduzione ecologica della vita economica e sociale. D’altra parte l’ordoliberismo comporta l’aggravamento senza fine delle diseguaglianze tra i partner europei; è all’origine delle eccedenze commerciali tedesche e dei deficit simmetrici degli altri. Ma l’ordoliberismo costituisce un’opzione perfettamente razionale dal punto di vista dei monopoli finanziari ai quali garantisce la crescita continua delle loro rendite di monopolio. Questo sistema non è sostenibile. Non perché si confronti con resistenze crescenti da parte delle vittime (inefficaci fino ad oggi), ma per via delle proprie contraddizioni interne: la crescita della rendita dei monopoli impone la stagnazione e il deterioramento aggravato e senza fine dello stato dei partner fragili (la Grecia ed altri).
Il capitano che è al timone dirige la nave europea dritta verso degli scogli visibili. I passeggeri lo implorano di cambiare direzione; senza risultato. Il capitano, protetto da una guardia pretoriana (Bruxelles, la Bce), rimane invulnerabile. Non resta altro da fare che gettare le scialuppe di salvataggio in mare. Certo, è pericoloso, ma alla fine lo è meno che il naufragio sicuro in vista. L’immagine aiuterà a capire la natura delle due opzioni tra cui i critici del sistema europeo in opera esitano a scegliere. Alcuni sostengono che bisogna restare a bordo; fare evolvere la costruzione europea verso nuove direzioni, rispettose degli interessi delle maggioranze popolari. Essi continuano nonostante i fallimenti a ripetizione delle lotte che si iscrivevano in questa strategia. Gli altri invitano a lasciare la nave, come testimonia la scelta inglese. Lasciare l’Europa, ma per fare cosa? Le campagne di disinformazione orchestrate dai chierici mediatici al servizio dell’ordoliberismo contribuiscono a truccare le carte. L’amalgama tra tutte le forme possibili sull’uso della sovranità nazionale permane, presentati tutti come demogogici, “populisti”, irrealisti, sciovinisti, sorpassati dalla storia, nausabondi. Il pubblico è bastonato dai discorso sulla sicurezza e l’immigrazione, mentre la messa in evidenza delle responsabilità dell’ordoliberismo nella degradazione delle condizioni dei lavoratori è nascosta. Purtroppo dei segmenti interi della sinistra entrano in questo gioco manipolato.
Per parte mia, dico che non c’è niente da attendersi dal progetto europeo, che non può essere trasformato dall’interno; bisogna decostruire per poi eventualmente ricostruire su altre basi. Poiché si rifiutano di arrivare a questa conclusione, molti movimenti in conflitto con l’ordoliberismo restano esitanti riguardo gli obiettivi strategici delle loro lotte: uscire o restare in Europa (o nell’Euro)? In queste condizioni gli argomenti invocati dagli uni e dagli altri sono estremamente diversi, basati spesso su questioni insignificanti, a volte sui falsi problemi orchestrati dai media (la sicurezza, gli immigrati), che conducono a scelte nauseabonde, raramente sulle vere sfide. L’uscita dalla Nato, per esempio, è invocata raramente. Rimane il fatto che l’onda montante che si esprime nel rifiuto dell’Europa (come la Brexit) riflette la cancellazione delle illusioni sulla possibilità di una sua riforma.
Ciononostante la confusione preoccupa. La Gran Bretagna non intende certamente mettere in opera la propria sovranità per impegnarsi in una via che si allontani dall’ordoliberismo. Al contrario, Londra spera si aprirsi ancora di più soprattutto verso gli Stati Uniti (la Gran Bretagna non ha le reticenze di certi europei verso il trattato transatlantico di libero scambio TTIP), verso i paesi del Commonwealth e i paesi emergenti del Sud, che si sostituirebbero alla priorità europea. Nient’altro; e certamente non un migliore programma sociale. D’altra parte per i britannici l’egemonia tedesca è meno accettabile di quello che sembra per gli altri, in Francia e in Italia.
I fascisti europei proclamano la propria ostilità all’Europa e all’Euro. Ma si deve sapere che il loro concetto di sovranità è quello della borghesia capitalista; il loro progetto è quello della ricerca della competitività nazionale all’interno del sistema dell’ordoliberismo, associato a campagne nauseabonde contro gli immigrati. I fascisti non sono mai i difensori della democrazia, neanche quella elettorale (salvo per opportunismo), e ancora meno lo sono di una democrazia più avanzata.
A fronte della sfida, la classe dominante non ha esitazioni: meglio l’uscita fascista dalla crisi. Ne ha dato prova in Ucraina. Lo spauracchio del rifiuto dell’Europa da parte dei fascisti paralizza le lotte impegnate contro l’ordoliberismo. L’argomento invocato frequentemente è: come possiamo noi fare causa comune contro l’Europa con i fascisti? Queste confusioni fanno dimenticare che il successo dei fascisti è esattamente il prodotto della timidezza della sinistra radicale. Se questa avesse difeso con audacia un progetto di sovranità, con un contenuto esplicitamente popolare e democratico, associato alla denuncia del progetto di sovranità demagogica e falsa dei fascisti, avrebbe intercettato i voti che oggi vanno ai fascisti. La difesa dell’illusione di una riforma impossibile dell’Europa non permette di evitarne l’implosione. Il progetto europeo si sbriciolerà allora a beneficio di una riemersione di quello che somiglia molto all’Europa degli anni ‘30 e ‘40: un’Europa tedesca, la Gran Bretagna e la Russia al di fuori di essa, la Francia esitante tra Vichy (presente oggi) e De Gaulle (ancora invisibile); la Spagna e l’Italia che navigano nella scia di Londra o Berlino.. etc..
La sovranità nazionale al servizio dei popoli
La sovranità nazionale è lo strumento inevitabile per l’avanzamento sociale e per il progresso della democratizzazione, al Nord come al Sud del pianeta. Queste avanzate sono guidate da logiche che si situano al di là del capitalismo, in una prospettiva favorevole all’emersione di un mondo policentrico e al consolidamento dell’internazionalismo dei popoli.
Nei paesi del Sud il progetto sovrano nazionale deve “marciare su due gambe”:
1. Impegnarsi nella costruzione di un sistema industriale autocentrato e integrato nel quale le differenti branche della produzione diventino i fornitori e gli sbocchi gli uni degli altri. L’ordoliberismo non permette questa costruzione. Concepisce in effetti la “competitività” come quella di ciascuno stabilimento industriale considerato a sé stante. La messa in opera di questo principio mette quindi la priorità sull’esportazione e riduce le industrie dei paesi del Sud allo stato di sottofornitori dominati dai monopoli dei centri imperialisti, i quali si appropriano in questo modo di una larga parte del valore creato qui è trasformata in rendita imperialista di monopolio. D’altra parte, la costruzione di un sistema industriale esige la pianificazione di Stato e la gestione nazionale della moneta, del sistema fiscale, degli scambi esteri.
2. Impegnarsi in una via originale di rinnovamento dell’agricoltura contadina, fondata sul principio che la terra agricola costituisce un bene comune della nazione, gestita in maniera da garantirne l’accesso e ai mezzi per sfruttarla a tutte le famiglie contadine. Dei progetti devono essere pensati a partire da questa base per assicurare la crescita della produzione per famiglia/ettaro, e delle industrie prioritarie create per permetterlo. L’obiettivo di questa strategia è di assicurare alla nazione la sua sovranità alimentare e la gestione dei flussi migratori dalle campagne verso le città, di aggiustarne i ritmi a quelli della crescita dei lavori urbani.
L’articolazione delle avanzate su ciascuno dei due terreni costituisce l’asse principale delle politiche di Stato che garantiscano il consolidamento di larghe alleanze popolari “operaie e contadine”.
Queste creeranno allora un terreno favorevole ad avanzate di democrazia partecipativa.
Nei paesi del Nord la sovranità popolare deve rompere allo stesso modo con l’ordoliberismo, cosa che implica qui delle politiche audaci che vadano fino alla nazionalizzazione dei monopoli e la messa in pratica di mezzi per la socializzazione della loro gestione. Questo implica chiaramente il controllo nazionale della gestione della moneta, del credito, della fiscalità, degli scambi esteri.
Il sistema imperialista attuale mette in opera un ventaglio differenziato di mezzi attraverso i quali esercita il suo dominio sulle nazioni della periferia del sistema mondializzato e il loro sfruttamento. Nei paesi del Sud avanzati nell’industrializzazione, i segmenti del sistema mondializzato delocalizzato, controllati dal capitale dei monopoli finanziarizzati della triade imperialista (Stati Uniti, Europa Occidentale e Centrale, e Giappone), ridotti allo stato di subfornitori, offrono il mezzo principale attraverso il quale una massa crescente di valore generato nelle economie locali dipendenti è trasformato in rendita dei monopoli imperialisti. In numerosi paesi del Sud, i mezzi di sfruttamento prendono anche la forma del saccheggio brutale di risorse naturali (idrocarburi, minerali, terre agricole, risorse d’acqua e di sole) da un parte, e, dall’altra, di razzie finanziarie con cui i monopoli si appropriano del risparmio nazionale dei paesi in questione. Il vincolo di assicurare prioritariamente il debito esterno costituisce il mezzo attraverso il quale questa razzia opera. Il deficit strutturale delle finanze pubbliche di questi paesi offre l’occasione ai monopoli imperialisti di piazzare in maniera fruttuosa le proprie eccedenze finanziarie crescenti, prodotte dalla crisi del sistema imperialista mondializzato e finanziarizzato, obbligando i paesi del sud a indebitarsi a condizioni leonine. La razzia finanziaria esercita degli effetti distruttivi anche nei centri imperialisti. La crescita continua del volume del debito pubblico in rapporto al PIL è attivamente ricercata e sostenuta dal capitale finanziario nazionale e internazionale a cui permette l’allocazione fruttuosa delle sue eccedenze. Il servizio del debito pubblico contratto sui mercati finanziari privati dà l’occasione per un prelievo operato sui redditi dei lavoratori, che permette la crescita della rendita monopolistica. Alimenta così la crescita continua della disuguaglianza nella ripartizione dei redditi e della ricchezza. Il discorso ufficiale che vuole creare politiche destinate a ridurre il debito è totalmente menzognero: il loro obiettivo in realtà è l’aumento non la riduzione del debito.
L’attacco all’agricoltura contadina di Asia, Africa, America Latina
La mondializzazione neoliberale persegue un attacco massiccio contro l’agricoltura contadina in Asia, in Africa e in America Latina. Accettare questa componente principale della mondializzazione porta ad una enorme pauperizzazione / esclusione / miseria di centinaia di milioni di esseri umani sui tre continenti. Sarebbe di fatto mettere fine a qualsiasi tentativo delle nostre società di affermarsi nella società mondiale delle nazioni. L’agricoltura capitalista moderna, rappresentata al contempo dall’agricoltura familiare ricca e / o dalle società dell’agroindustria, cerca di attaccare in maniera massiccia la produzione contadina mondiale. L’agricoltura capitalista guidata dal principio della profittabilità del capitale focalizzato in Nord America, in Europa, nel cono sud dell’America Latina e in Australia, non impiega che alcune decine di milioni di agricoltori, mentre ha la produttività più elevata a livello mondiale; mentre i sistemi agricoli contadini occupano ancora circa la metà dell’umanità – cioè circa 3 miliardi di essere umani. Cosa succederebbe se “l’agricoltura e la produzione alimentare” fossero trattate come tutte le altre forme di produzione capitalista, sottomessa alle regole della concorrenza in un mercato aperto e deregolamentato? Questi principi favorirebbero l’accelerazione della produzione? In effetti, si possono immaginare una cinquantina di milioni di nuovi agricoltori moderni in più, che producono quello che i 3 miliardi di contadini attuali possono offrire sul mercato oltre alla propria (fragile) autosussistenza. Il successo di una tale alternativa necessiterebbe trasferimenti importanti di superfici arabili ai nuovi agricoltori (terre prese tra quelle occupate attualmente dalle società contadine), l’accesso ai mercati dei capitali (per comprare i mezzi) e l’accesso ai mercati di consumo. Questi agricoltori competerebbero facilmente con i miliardi di contadini attuali. E che succederebbe a questi ultimi? Dei miliardi di produttori non competitivi sarebbero eliminati in un breve lasso storico di tempo di qualche decennio. Il principale argomento di legittimazione dell’alternativa “concorrenziale” è che questo tipo di sviluppo ha avuto luogo in Europa nel XIX secolo e ha contribuito alla formazione delle società industriale e urbane ricche, poi post industriali capaci di cibare le nazioni e anche di esportare il surplus agroalimentare. Perché non ripetere questo modello nei paesi del terzo mondo contemporaneo? No, poiché questo argomento non tiene conto di due fattori principali che rendono oggi la riproduzione del modello quasi impossibile nei paesi del terzo mondo. Il primo è che il modello europeo si è sviluppato durante un secolo e mezzo con tecnologie industriali intensive di mano d’opera. Le tecnologie attuali lo sono molto meno. E di conseguenza, se i nuovi venuti del terzo mondo vogliono essere competitivi sui mercati mondiali con le loro esportazioni industriali devono adottare queste tecnologie. Il secondo è che durante la sua lunga transizione, l’Europa poteva fare emigrare massivamente il surplus di popolazione verso l’America.
Possiamo immaginare altre alternative fondate sull’accesso alla terra per tutti i contadini? In questo quadro è implicito che l’agricoltura contadina deve essere mantenuta e simultaneamente impegnata in un processo di cambiamento e di progresso tecnologico e sociale comune. E questo a un ritmo che permetta un trasferimento progressivo verso l’impiego non agricolo secondo lo sviluppo del sistema. Un tale obiettivo strategico implica delle politiche che proteggano la produzione alimentare contadina dalla concorrenza ineguale degli agricoltori modernizzati nazionali e dell’agrobusiness internazionale. Rimette in questione i modelli di sviluppo industriale e urbano – che dovranno essere meno fondati sulle esportazione e sui bassi salari (che implica a loro volta dei bassi prezzi per l’alimentazione) ed essere più attenti all’espansione di un mercato interno socialmente equilibrato. In più una tale strategia faciliterebbe l’integrazione nel suo insieme delle politiche che assicurerebbero la sovranità alimentare nazionale, condizione per un paese per essere membro effettivo della comunità internazionale, e rafforzando il suo margine necessario di autonomia e la sua capacità di negoziazione.
Complementi di lettura
Per brevità non ho toccato qui delle questioni importanti: l’emersione del capitalismo dei monopoli generalizzati, la nuova proletarizzazione generalizzata, la militarizzazione della mondializzazione e i conflitti per l’accesso alle risorse naturali, la mondializzazione finanziaria anello debole del sistema, la ricostruzione della solidarietà tra i paesi del Sud, la strategia delle lotte in corso, le esigenze dell’internazionalismo anti imperialista dei popoli. Rinvio il lettore al mio libro L’implosione del capitalismo contemporaneo e metto l’accento sulle costruzioni istituzionali che ho proposto destinate a consolidare il contenuto popolare della gestione dell’economia della transizione oltre il capitalismo. 

Traduzione dal francese di Lorenzo Battisti per Marx21.it
Fonte: Marx21.it 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.