di Sergio Farris
Come è noto, i mercati finanziari sono intrinsecamente instabili. In essi vi operano sia soggetti che compiono operazioni di investimento, sia soggetti dediti a operazioni speculative e operazioni di arbitragggio, il tutto fra informazioni e aspettative sempre in divenire. Le turbolenze sono sempre in agguato. L'ultimo evento turbolento di una certa rilevanza, è stato, in ordine di tempo, l'esito del referendum che ha sancito la volontà espressa dalla maggioranza del popolo britannico di avviare la procedura prevista dall'art. 50 del “Trattato di Lisbona” finalizzata all'abbandono dell'Unione Europea.
Il fenomeno di turbolenza nei mercati ha interessato un pò tutti i paesi dell'Unione Europea, ma è stato particolarmente sentito in Italia, dove al voto del 23 giugno in Gran Bretagna sono seguiti ripetuti crolli (fino al 30%) dei titoli azionari relativi ai principali istituti di credito.
Il fenomeno di turbolenza nei mercati ha interessato un pò tutti i paesi dell'Unione Europea, ma è stato particolarmente sentito in Italia, dove al voto del 23 giugno in Gran Bretagna sono seguiti ripetuti crolli (fino al 30%) dei titoli azionari relativi ai principali istituti di credito.
In verità è da parecchio tempo che le banche italiane, in particolare, sono nel mirino dei mercati: nell'ultimo anno hanno perso più di metà del loro valore di mercato. Gli investitori sono nervosi per l'esposizione degli istituti di credito in sofferenze e incagli. Pare che negli attivi delle banche nostrane vi siano 360 miliardi di euro di crediti inesigibili, cresciuti costantemente negli ultimi anni soprattutto a causa del progressivo calo dell'attività economica. La progressione delle sofferenze bancarie, che sono lievitate dai 100 miliardi di euro del 2011 agli oltre 360 miliardi attuali, ha infatti seguito di pari passo la crisi economica (cumulativamente, 10% di PIL perduto durante la lunga recessione). Si calcola che il 16,7% dei finanziamenti concessi non sia recuperabile (Sole 24 ore, Paese per Paese, ecco come la crisi delle banche colpisce l’Europa, 13/07/2016). Pochi giorni dopo il referendum tenutosi in Gran Bretagna è comparsa la notizia che la Commissione Europea ha autorizzato il Governo italiano a prestare garanzie statali per 150 miliardi alle banche della penisola che dovessero presentarne richiesta. Poi, sono circolate voci secondo le quale il Governo starebbe pensando, Commissione Europea permettendo, a un'immissione diretta di capitali nel sistema bancario italiano che assommerebbe a 40 miliardi (cosiddetto “bail-out”). Intanto, in attesa dei tests che saranno eseguiti a fine luglio dall'Autorità bancaria europea sullo stato di patrimonializzazione delle banche (un governo può infatti iniettare capitali in una banca se ciò è necessario per far fronte a una carenza di capitale verificato a seguito di stress test), riguardo a molte di esse è già evidente l'impellenza di rafforzare i livelli del capitale e smaltire i tanti miliardi di sofferenze lorde in portafoglio. Ad esempio, sembra che per rafforzare l'indice di patrimonializzazione del Monte dei Paschi di Siena sia necessario un aumento di capitale di 3 miliardi. Inoltre, allo stesso istituto è stato richiesto dalla Vigilanza della BCE uno smaltimento di 26 miliardi di sofferenze lorde, da effettuarsi entro il 2018. Si punta all'obiettivo di alleggerire le banche dal fardello delle sofferenze, così da farle apparire più attraenti agli occhi degli investitori e attenuare la diffidenza da parte dei mercati. Inoltre, il 18 luglio il quadro è stato complicato dalla decisione assunta da parte della Corte di giustizia Europea di considerare le attuali norme sul “bail in”, non proprio ben viste da parte italiana tanto da ipotizzare la richiesta di una loro sospensione per non doverle applicare ad eventuali interventi di risoluzione per le banche in difficoltà, perfettamente conformi al diritto comunitario.
Nell'attesa di vedere come evolverà la vicenda, che dipende naturalmente da un complicato negoziato con i massimi livelli della UE ed è inoltre intrecciata con l'irrisolta questione dell'unione bancaria europea, si può cercare di mettere a fuoco la questione del perchè la massa di crediti deteriorati delle banche può essere vista come una sorta di ulteriore stadio della crisi dell'euro.
Ultimamente, il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha detto che le esposizioni deteriorate nei bilanci delle banche italiane sono il lascito della lunga crisi economica (Sole 24 ore, Visco: Npl, problema, non emergenza, 09/07/2016).
E' vero. Soltanto che, bisognerebbe ricordare l'eccesso di ottimismo con il quale le classi dirigenti, nazionali ed europee, avevano fatto affidamento sulle politiche di austerità quale soluzione della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Perchè tali politiche, specialmente nel contesto dell'eurozona, non potevano che rivelarsi un mero rinvio del problema.
La falla, si è rivelata risiedere anzitutto nella struttura istituzionale della zona euro, che prevede l'indipendenza della Banca Centrale Europea e un'eccessiva disciplina fiscale. (Financing vs. Spending Unions: How To Remedy The Euro Zone’s Original Sin, 14 July 2016, Thomas Palley). Abbiamo purtroppo constatato come lo strapotere dei mercati abbia potuto dispiegarsi con tutta la sua violenza, fra il 2011 e il 2012, nell'area dell'euro. Il fatto che la moneta sia separata dagli stati sovrani e la politica monetaria sia stata demandata a un'autorità sovranazionale, pone un qualsiasi stato membro in una condizione di soggezione rispetto ai mercati finanziari. Abbiamo visto con quale difficoltà e dopo quale processo di mediazione la BCE di Mario Draghi abbia potuto inaugurare, nella seconda metà del 2012, un piano di acquisti di titoli pubblici per contenere gli assalti speculativi sull'euro. Inoltre, a ogni stato membro è impedito il ricorso al finanziamento da parte della Banca centrale per poter attuare all'occorrenza, tramite lo stimolo fiscale, politiche economiche di stabilizzazione (il che spiega il sostanziale fallimento del “Quantitave easing”, lanciato un anno e mezzo fa dalla BCE, nel perseguire l'obiettivo del rilancio economico dell'eurozona).
Dopo la Grande recessione del 2008-2009 è prevalso, per un breve periodo, un'orientamento rivolto alla realizzazione di un dato stimolo fiscale per sostenere la domanda (A general theory of austerity, Simon Wren Lewis, 2016). Ma nel 2010 vi è stata una decisa sterzata verso il consolidamento fiscale, precipitando l'eurozona in una seconda recessione. Il consolidamento fiscale ha interessato soprattutto i paesi debitori, ovvero i paesi periferici della zona euro, quelli i cui settori finanziari si erano rivelati, al conclamarsi della crisi, fortemente indebitati nei confronti degli omologhi settori finanziari dei paesi centrali. A tal punto, il sostegno finanziario attuato con risorse e garanzie pubbliche dispensate alle banche private dei paesi debitori (affinchè esse potessero ridurre la propria posizione debitoria verso le banche dei paesi centrali), ha condotto a un repentino innalzamento dei livelli del debito pubblico nei paesi periferici, rimasti esposti e poi presi di mira dalla speculazione con il risultato di patire un notevole aumento della spesa per interessi. Il sopravvento delle politiche di austerità, incentrate sulla riduzione forzata dei disavanzi pubblici nella convinzione che i paesi periferici avrebbero riguadagnato la fiducia dei mercati, ha in realtà avuto in questi paesi l'effetto di aumentare, anzichè decrementare, il livello del debito pubblico in rapporto al prodotto. Sgombrato (alla prova dei fatti) il campo da teorie quali l'austerità accrescitiva, sono rimasti i danni: l'austerità applicata a più paesi nello stesso tempo, è stata inefficace e controproducente. Inefficace perchè ha mancato l'intento dichiarato di ridurre i debiti pubblici; controproducente perchè ha determinato, come nel caso dell'Italia che più qui ci interessa, un vistoso calo del prodotto e, a seguire, fallimenti di imprese, investimenti non andati a buon fine e mancati rimborsi, agli istituti di credito, di prestiti erogati in precedenza.
Che un aggiustamento delle rispettive posizioni creditorie e debitorie fra i paesi dell'area euro fosse inevitabile, è palese e riconosciuto. Ciò che sarebbe stato necessario fare, è però, affrontare la crisi dell'eurozona con politiche le quali avrebbero dovuto prevedere espansioni di bilancio nei paesi in avanzo (Germania in testa) in luogo di un aggiustamento asimmetrico che ha visto somministrare l'austerità a detrimento dei paesi periferici. In altre parole, i costi del riequilibrio sarebbero dovuti essere distribuiti equamente fra creditori e debitori, i quali portano eguali responsabilità per la crisi. A causa della priorità attribuita alle politiche di austerità, i paesi periferici dell'eurozona si trovano con una zavorra in termini di debito e con una menomata capacità produttiva con le quali dovranno fare i conti, forse, per decenni. La questione del riequilibrio infracomunitario, alla base delle politiche recessive imposte agli stati debitori, non è dunque stata risolta. Vi è stato quindi un fallimento, da parte delle massime istituzioni europee e dei governi nazionali (primo fra tutti quello tedesco, ma con la corresponsabiità degli altri, fra cui il nostro), nel non riconoscere l'interesse dell'Unione nel suo insieme. E' prevalso l'interesse delle elites finanziarie dei paesi creditori, non contrastato da parte dei paesi debitori per via dell'interesse sostenuto dalle rispettive elites industriali (protese, queste ultime, a ricercare mediante l'austerità un abbattimento del costo del lavoro nei rispettivi paesi). Non è impossibile che prima o poi, se si vorrà salvare l'Unione monetaria, i paesi del centro Europa dovranno cedere davanti alla necessità di mutualizzare i costi dell'austerità posti a carico dei paesi periferici dell'Unione monetaria europea.
E' in questo quadro che si innesta la crisi delle banche italiane. E' piuttosto singolare ora, dopo avere ripetutamente portato il paese a esempio di virtù quando si dichiarava che l'Italia avrebbe a ogni costo rispettato le regole europee sul deficit pubblico (rispetto pagato con la recessione), che il nostro Governo intenda chiedere alle istituzioni della UE il permesso di fare ricorso ad aiuti di stato per prestare soccorso alle banche in difficoltà. Sarebbe più onesto e realistico, da parte del nostro Governo, rilasciare dichiarazioni di altro tenore, quali: noi e i nostri predecessori siamo stati miopi; eravamo talmente invasati dall'idea che bisognava, con l'austerità, rendere il paese competitivo e ridurre le prestazioni pubbliche (stato sociale), da non riconoscere che la situazione sarebbe presto sfuggita di mano, con un aggravamento della crisi economica. E che, infine, i bilanci delle banche avrebbero presto cominciato a riflettere i problemi dell'economia reale, la quale, come dimostrato, è stata dall'austerità stessa resa più fragile.
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