di Phyllis Bennis e Kareem Faraj
E’ stato dopo mezzanotte che la piccola squadra olimpica di rifugiati è entrata nello stadio di Rio, l’ultima, prima che l’enorme contingente del Brasile, paese ospitante, arrivasse per la cerimonia d’apertura animata dal samba. Dieci straordinari atleti, provenienti da quattro paesi diversi ma che condividono la loro condizione di persone impossibilitate a tornare in patria, che marciano sotto la bandiera olimpica. E’ stata una scena straordinaria commuovente e potente molto al di là del tifo per le squadre nazionali.
Alcuni di loro, la giovane nuotatrice siriana Yusra Mardini, in particolare, erano diventate note a molti perché la loro storia è stata raccontata più volte alla vigilia dei giochi. E’ una storia davvero straordinaria. Yusra e sua sorella, entrambe nuotatrici nella nativa Siria, erano state costrette a fuggire a causa della brutalità della guerra. Come tante centinaia di migliaia di persone prima e dopo di loro, sono riuscite a trovare posto su un gommone stracarico per l’ultima parte del viaggio, dalla costa turca alla salvezza in Grecia.
Ma, come tanti altri prima di loro, si accorsero che il gommone sovraffollato imbarcava acqua e c’era rischio che affondasse del tutto. Yurva e sua sorella, insieme all’unica altra persona a bordo che sapeva nuotare, sono saltate in mare e hanno nuotato per tre ore e mezza a fianco dell’imbarcazione, alleggerendo il peso proprio abbastanza affinché il gommone e le nuotatrici esauste che lo accompagnavano riuscissero a salvarsi, approdando sulla rocciosa costa di Lesbo.
Gli altri – cinque mezzofondisti del Sud Sudan, un maratoneta dell’Etiopia, un’altra nuotatrice siriana, e due judoka (un uomo e una donna) della Repubblica Democratica del Congo – hanno storie personali e ispiratrici. Tutti loro hanno affrontato la perdita della casa, separazioni dalle famiglie e disperazione. Il loro valore di atleti sufficientemente forte da portarli a una levatura internazionale malgrado tutto quello che hanno perduto, e malgrado la povertà insostenibile in cui molti di loro sono cresciuti, li ha fatti arrivare fino a Rio.
E’ stato un esempio commuovente e potente di ciò che si suppone rappresentino le Olimpiadi ma che raramente raggiungono: la celebrazione dell’atletismo individuale che vada oltre i confini nazionali.
E, tuttavia, che cosa dice sul nostro mondo di guerre attuali, il fatto che i massicci flussi di rifugiati e i conflitti che li causano – si sono così normalizzati che i profughi di guerra costituiscono ora l’equivalente di una nazione?
Nazione di rifugiati
Non è un’esagerazione.
In tutto il mondo ci sono 65 milioni di persone forzatamente sfollate che cercano disperatamente la salvezza – il più alto numero fin dalla II Guerra mondiale. Equivale circa alla popolazione di Francia, Tailandia, o Regno Unito, e maggiore di Italia, Spagna o Sudafrica. Insieme danno quella che potrebbe essere chiamata la Nazione di Rifugiati, la ventitreesima più grande popolazione del mondo.
Le guerre del nostro mondo si sono così normalizzate che alla Nazione di Rifugiati verrà regolarmente garantita una rappresentazione istituzionale, forse anche oltre le Olimpiadi?
La maggior parte dei numeri, per non parlare delle reali vite che ci sono dietro, sono al di là della portata della nostra comprensione. Se consideriamo soltanto quei rifugiati arrivati in Europa solo lo scorso anno, il numero maggiore, 360.000, scappavano dalla guerra civile in Siria. I successivi gruppi più numerosi provenivano tutti da paesi dove le guerre guidate dagli Stati Uniti, le campagne di bombardamenti e le occupazioni si erano lasciate dietro violenza, instabilità e spoliazione. Quei tre paesi, l’Afghanistan con 175.000 rifugiati, l’Iraq con 125.000, e il minuscolo Kosovo con 60.000 rifugiati scappati l’anno scorso – insieme corrispondono al numero di persone che fuggono dalla Siria.
Quei rifugiati sono vittime dirette delle politiche estere di Washington e dei suoi alleati europei: interventi militari (sia in nome della “guerra al terrore” o dello “intervento umanitario”), sfruttamento economico, abbandono della diplomazia e altro. E loro fanno parte di una più lunga eredità di fallimento. Alcuni di quei 65 milioni, come i 6,5 milioni di palestinesi, sono stati rifugiati da tre o quattro generazioni. Altri, fanno parte dei milioni di rifugiati afgani in Pakistan, o di rifugiati iracheni in Iran, che sono arrivati anni fa in conseguenza delle guerre guidate dagli Stati Uniti, e che non possono ancora tornare a casa.
E il problema non è limitato all’Europa e al Medio Oriente. L’Africa sub-sahariana ospita il 26% dei rifugiati del mondo, ma ne sentiamo parlare poco perché pochi riescono a uscire dall’Africa e a approdare sulle sponde europee. Sono spostati dalle guerre spesso combattute con armi degli Stati Uniti o di altre nazioni occidentali, o da crisi umanitarie o provocate dal cambiamento del clima che sono ignorate dalle potenze fino a quando un grido di protesta chiede che venga fatto “qualcosa”; quel “qualcosa” spesso è un altro intervento militare o vendite di armi.
Quelle stesse potenze non riescono a prendersi la responsabilità di trovare un rifugio
Per gli sfollati e per le persone vulnerabili o di investire i loro sforzi nel tipo di serie soluzioni diplomatiche che i disastri richiedono. Le guerre proseguono e i rifugiati continuano ad arrivare.
Gli angoli morti dell’Occidente
Certamente i conflitti lunghi e violenti non sono nulla di nuovo, ma, come spiegava il grande studioso pachistano Eqbal Ahmad, parlando alla vigilia della prima guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq, nel 1991, i conflitti sono spesso innalzati a “guerre mondiali” – con tutta per la risoluzione che comporta – quando sono combattute tra potenti americani ed europei.
Il diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo hanno assistito alla distruzione genocida di grandi civiltà: i Maya, gli Inca , gli Aztechi e le nazioni indiane del Nord America; la conquista e l’assoggettamento del resto dell’umanità. Alla fine anche l’India è stata colonizzata, e così anche la Cina, tutta l’Africa e infine il Medio Oriente.
Ala fine le guerre di avidità e di espansione si sono ritorte contro chi le ha fatte. I poveri delle colonie dell’Occidente hanno sfidato i ricchi. Gli Europei combatterono una guerra tra di loro, la chiamarono Guerra Mondiale e le dettero un numero: Uno. Fu un conflitto devastante e durante il quale furono introdotte la guerra aerea e la guerra chimica… Poi l’Occidente combatté un’altra Guerra Mondiale e le diedero il numero successivo: Due.
Guardate il Congo da cui vengono due degli atleti che ora gareggiano per la squadra di rifugiati.
La Repubblica Democratica del Congo è stata in guerra per circa due decenni. La guerra si è trasformata in conflitto regionale, in cui gli eserciti nazionali e numerose milizie di base nei paesi circostanti, hanno tenuto d’occhio i loro interessi e dato inizio alle loro sezioni della guerra congolese. Nessuno lo sa di sicuro, ma le stime migliori sono che circa 6 milioni di persone sono state uccise nella guerra, e le uccisioni non si sono fermate.
Molti l’hanno chiamata Guerra Mondiale dell’Africa, ma non è stata mai riconosciuta come tale in Occidente. Invece è soltanto un altro conflitto tra africani neri, di non-europei, le cui guerre non si conterebbero mai come Guerra Mondiale qualcosa, perché in realtà nessun occidentale è tra le vittime.
Una nuova “Guerra” globale
Forse ora, nell’epoca della “Guerra Globale al Terrore”, è diverso. Forse ora si richiede soltanto che le vittime comprendano anche almeno degli europei e degli americani per qualificarsi di status “mondiale”.
Sebbene il Presidente Obama abbia rifiutato l’etichetta “Guerra Globale al Terrore” a favore della definizione più blanda di “operazioni urgenti oltremare”, il conflitto è sempre globale e rimane una guerra che si estende dalla Siria e dalla Libia all’Iraq e all’Afghanistan ed è anche una guerra coi droni che va dallo Yemen alle Filippine. E’ una brutale battaglia militare fatta con armi convenzionali – compresi i bombardieri B-52 – cioè i colossi con potenziale nucleare dell’epoca del Vietnam in grado di far cadere bombe di 70.000 libbre di gravità – che ora volano sulla Siria.
Nessuno dichiara neanche che le bombe che facciamo cadere sulla Siria siano “intelligenti”. E nessuno, tranne le famiglie in lutto, tenta neanche di contare quelli che queste uccidono.
Anche quando qualche componente della Squadra di Rifugiati vince la propria batteria alle Olimpiadi, le guerre che li hanno fatti scappare per mettersi in salvo e che hanno popolato la Nazione dei Rifugiati, continuano di buon passo. Flussi di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo o che si trascinano attraverso i deserti africani, si mescolano fino a diventare un solo flusso. Come le nostre guerre.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Foreign Policy in Focus
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
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