La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 settembre 2016

La lezione francese e i problemi aperti

di Marco Assennato
Altrove abbiamo descritto gli inizi del movimento francese contro la riforma del Code du Travail come una salutare esplosione[1]. In effetti il quadro sociale dell’esagono pareva languire, dopo il 2010, a seguito della pesante sconfitta subita dal fronte sindacale sulla riforma delle pensioni. Fino ad allora la Francia aveva mostrato un continuo, per quanto frastagliato e caotico, succedersi di insorgenze: nel 1996, poi nel 2005-2006. In effetti la rivolta delle banlieues ha rappresentato l’ultimo momento di protagonismo sociale – quanto duramente represso – di un paese da lì in avanti avviato a passi spediti verso la riforma costituzionale sancita dallo stato d’emergenza: repressione, controlli di polizia e depoliticizzazione della cittadinanza, sembravano apparecchiare il tavolo per il banchetto elettorale del Front National.
Una benedetta esplosione, dunque. Che si è allargata, in una cornice istituzionale sorda e cieca, a pezzi di proletariato metropolitano, lavoro cognitivo e precario e che da mesi comunque non accenna a perdere di intensità. Tuttavia, accanto ai caratteri positivi, possiamo adesso cominciare a segnalare alcuni limiti del movimento. Lo si fa, qui, non per giocare all’infelice Cassandra, quanto per segnare un certo numero di problemi che questo movimento lascia aperti e lascerà aperti anche alla fine dell’iter parlamentare della legge. Problemi, segnaliamo subito, dai quali si ritiene necessario ripartire in ogni caso per pensare e praticare la costruzione di un nuovo movimento su scala europea, alternativo all’ordine neoliberista. I nodi centrali sembrano essere tre: il quadro sindacale, con le sua straordinaria generosità e i suoi limiti strutturali; la vicenda di Place de la République, per le possibilità di allargamento della lotta che comporta e per le indecisioni che ha mostrato; l’assenza delle banlieues, tema difficile che agita i sonni di tutte le malmesse sinistre d’Europa[2].
Il quadro sindacale.
Come abbiamo scritto altrove, la lotta attorno al Code du Travail non nasce dentro al sindacato, piuttosto in una singolare coincidenza tra il suo corpo organizzato – diciamo per intenderci operaio e salariato – e un altro corpo: quello degli studenti, soprattutto liceali e poi universitari. Torneremo su questo nesso. Per ora basti sottolineare la straordinaria generosità e disposizione alla lotta interpretata, solo in un secondo momento, ma con convinzione, dai dirigenti della CGT, di Solidaires e di FO. La manifestazione del 14 giugno, la nona dall’inizio della lotta, è stata semplicemente enorme. La parola d’ordine è sempre la stessa: ritiro della riforma. I tentativi infami di Manuel Valls di dividere il fronte attraversobenefits settoriali e di categoria non hanno avuto alcuna efficacia. Come l’altro approccio che Valls interpreta: flash balls, manganelli, bombe assordanti, pistolettate sui manifestanti. Repressione e concessioni non spezzano il fronte. Anzi: lo rinsaldano, lo qualificano, lo dispongono a continuare la mobilitazione. L’unico dato che emerge, chiaro, è l’esaurimento del paradigma delle due sinistre in Europa. I partiti dell’Internazionale Socialista, PSF in testa, sono ormai esclusivamente funzionali al comando neoliberale. Il presidente del consiglio francese, come il suo ministro dell’economia e la ministra del lavoro, hanno mostrato a più riprese il loro sovrano disprezzo verso quei settori sociali che danno vita alla mobilitazione. Nei due campi non c’è più dubbio: si tratta di avversari.
Il conflitto, animato dalla CGT è articolato e ricco: servizi pubblici (trasporti e spazzini), ferrovieri, dockers, operai dei terminali petrolieri e delle centrali nucleari, e altri ancora si organizzano per occupazioni, blocchi stradali, picchetti, scioperi selvaggi, concentrati attorno a scadenze critiche per l’ordine pubblico (prima fra tutte il campionato europeo di calcio). La cosa peraltro non suscita alcuna pelosa indignazione dell’opinione pubblica. Al contrario: gode persino di un certo consenso. Qual è allora il problema? Su questa grande generosità pesano due limiti: in primo luogo l’impossibilità di tradurre il potenziale di lotta sindacale in una proposta politica, sostenuta da forze adeguate. In Francia, l’unica forza politica presente sul mercato, il Front de Gauche, è inetto ad accogliere la domanda di un movimento così ampio e complesso. Dobbiamo dire tuttavia che ciò dipende non solo da fattori soggettivi, ma dal fatto che oggi questapossibilità – così classica – non si dà più. L’infame involuzione della socialdemocrazia – in Francia, bisogna dirlo, meno velocemente che altrove – non ha solo distrutto l’organizzazione politica della classe operaia ma anche le istituzioni democratiche della mediazione.
Qui dunque il secondo limite: l’interesse generale che il sindacato francese in lotta porta sulle spalle si risolve nel tentativo di resistere alla sovranità neoliberale e riproporre uno schema contrattuale e keynesiano di gestione economico-politica per contrastare le forze che di quella legge hanno fatto un simbolo. Ma il luogo istituzionale di tale gestione contrattuale della crisi non si dà più. La triangolazione sindacato-padronato-stato, con il governo a garanzia degli accordi, non ha più alcuna forza. È una chimera della quale occorre sbarazzarsi al più presto.
Place de la République.
Osservare dall’interno Place de la République e le lotte degli studenti significa innanzitutto chiarire una differenza. Abbiamo sostenuto che Nuit Debout, nel primo ciclo del movimento, rappresentava un dispositivo di allargamento del conflitto. Tuttavia Place de la République non è mai stata l’Assemblea Generale del movimento. Non un punto di confluenza, dunque, piuttosto uno spazio di espansione, compatibile con altri spazi e altri tempi dell’iniziativa. Questa caratteristica ha avuto sin qui un pregio ed insieme un limite fondamentale: potente come strumento di comunicazione, soprattutto in rete, e come dispositivo di solidarietà nei punti alti della mobilitazione – sostenuto dal lavoro della Commission Grève Generale - la piazza tuttavia non ha innescato né un processo comparabile a quello delleacampadas spagnole, né ha svolto la funzione di infrastruttura per laconvergenza delle lotte. Place de la République sembra ancora fragilmente sospesa tra l’ossessione di uno spazio safe per la discussione – ricerca dell’unanimità, conflitto esprimibile solo in termini di opposizione radicale, diffidenza verso il confronto anche aspro sulle opzioni politiche – e la rumorosa emergenza di pratiche, certo comprensibili, ma fondamentalmente reattive rispetto alla repressione poliziesca.
D’altra parte però, esperimenti di convergenza delle lotte continuano a darsi in forma disseminata e diffusa. Ci pare che sia questo secondo lato della mobilitazione a rappresentare oggi il modo in cui concretamente si espande il movimento. In tal senso è fondamentale il lavoro che viene svolto dagli Intermittenti dello spettacolo, dai precari e dagli studenti. Dall’occupazione congiunta del MEDEF (la Confindustria francese), all’appello pubblicato su Libération e firmato da gran parte del mondo dello spettacolo, a sostegno di una flexicurity per tutto il precariato metropolitano sul modello dell’intermittenza[3], prende corpo una sperimentazione che allude a quella maggioranza cognitiva e immateriale del lavoro vivo che innerva i territori neoliberali.
Il problema dunque è posto: davvero si tratta di costruire pratiche in grado di definire il passaggio dallo “sciopero sociale” – qui già articolato tra blocchi della logistica, sostegno alle varie e singole vertenze operaie, attivismo degli intermittenti e degli studenti – allo “sciopero politico” come spazio di soggettivazione delle nuove forme della produzione e del lavoro vivo. Anche qui: avevamo segnalato per tempo questo punto di originalità del movimento francese contro la riforma del code du travail. Esso nasce nelle scuole e nelle università e si allarga solo in un secondo momento al salariato classico. Ciò ha comportato una immediata estraneità rispetto al semplice livello difensivo: il rifiuto di ridurre il mercato del lavoro a semplice spazio disciplinare si è accompagnato alla possibilità di vedervi un terreno di lotta per la rivendicazione di nuovo diritto. Dalla difesa del salariato alla flexicurity per tutte e tutti, un primo passo si è compiuto. Si tratta adesso di esplicitare questa tendenza. Cominciamo a dire: salario sociale e nuovo Welfare del comune.
Le banlieues
Perché le banlieues non sono presenti nella contestazione? Ancora una volta, la risposta è complessa, ma va cercata senza retorica. Alcuni elementi possono immediatamente essere registrati. Ad esempio una generale indifferenza verso lotte che riguardano la difesa di un lavoro (e i suoi diritti correlati), che semplicemente in banlieue non esiste – se non in termini relativi di privilegio.
Era già così nel 2005-2006? No. Allora due fronti precari, i giovani studenti e i ragazzi di periferia, potevano ancora riconoscersi l’un l’altro. Lo hanno fatto nel movimento anti-CPE. Si trattava, come ha detto Judith Revel[4] di «una precarietà doppia, della condizione lavorativa e della vita» che tuttavia permetteva ancora uno spazio di mutuo riconoscimento. In questo quadro occorre iniziare a dirci che negli spazi periferici delle metropoli europee – in quelle francesi forse con particolare acutezza – negli ultimi dieci anni sono saltate tutte le mediazioni sociali: «soppressione sistematica – continua Revel – degli aiuti alle associazioni, della presenza delle politiche pubbliche in materia di trasporti, sport, cultura educazione, sanità, tutte strutture ormai ridotte all’osso e fatiscenti». In banlieue non si entra più, da anni, perché non si può più entrare.
Insomma noi non misuriamo l’evoluzione deleteria delle nostre tante periferie, ormai precipitate in una opposizione del quartiere povero e chiuso opposto alla ville dell’opulenza e del privilegio: uno spazio che si immagina esterno e un interno odioso. «Come in carcere» ha spiegato ancora Judith Revel, si assiste a una proliferazione di «comportamenti autolesivi», alla diffusione di pratiche criminali, e alla «radicalizzazione religiosa» come elemento di rilettura di sé. In tal senso in banlieue vige una struttura di dominazione implicita che resiste al movimento: anzi «la protesta politica e la possibilità della rivolta rappresentano ‘la’ cosa da evitare per non mettere a rischio la propria presa sul territorio».
L’antropologo francese Alain Berthoz ha espresso su questo un punto di vista che ci pare condivisibile: non si tratta tanto di una radicalizzazione dell’Islam quanto di una islamizzazione del rigetto provocato dalla chiusura di ogni spazio di mobilità sociale. «Solo che oggi – dice Revel – la religione in banlieue non ha più la funzione che, per esempio negli Stati Uniti, ha potuto avere negli anni 1960 o 1970 – quel riferimento soggettivante che sulla scia della decolonizzazione e dei movimenti “muslim”, raggiungeva e organizzava ampi settori di proletariato metropolitano sul terreno della rivolta e della volontà di emancipazione. La stagione di Muhammad Ali e di Malcolm X è finita da tempo. La religione è oggi innanzitutto obbedienza: il contrario della soggettivazione, individuale o collettiva che sia. Obbedienza, gerarchia, militarizzazione, cancellazione delle singolarità, sogno di califfato – una versione grezza, gerarchizzata all’inverosimile, dello “Stato” -, e che agisce come il suo riflesso mostruoso e sformato». Non un’alternativa allo Stato, dunque, piuttosto un suo doppio inasprito.
Problemi aperti.
Che cosa potrà succedere ora? La socialdemocrazia al governo non può cedere sul ritiro della legge: perderebbe l’ultimo brandello di credibilità che le concedono i poteri europei e nazionali. La destra sta già portando avanti (in Senato, dove è maggioranza) un contrattacco per aggravare il testo della legge, ritenendolo insoddisfacente rispetto ai nuovi dispositivi di comando sul mercato del lavoro. Poteva andare diversamente? Attendiamo per dare giudizi. Quel che è certo è che questo movimento squaderna termini centrali nella discussione politica fra tutti quelli che in Europa tentano una risposta alla governance neoliberale.
Dal punto di vista operaio si tratta di provare ad allargare orizzontalmente la propria iniziativa collegandosi alle lotte di altri strati del lavoro per come esso si dà, concretamente, oggi, in Europa: precario, flessibile, cognitivo. La difesa non basta più, ed in ogni caso è solo dentro alla nuova composizione del lavoro – tanto tecnica quanto politica – che la tutela dell’interesse operaio può essere declinata. Il primo problema resta dunque quello della convergenza delle lotte: da cercarsi direttamente sul terreno metropolitano, nei servizi, nella logistica, sul territorio. Altrove, esperimenti siffatti sono stati tentati e con successo. Si pensi alla Spagna dove il dispositivo delle mareas ha saputo tenere assieme esperienze di conflitto con lo sviluppo di un nuovo mutualismo che rendeva immediatamente disponibili servizi comuni negati tanto dallo Stato che dal mercato. Che sia questo lo stesso terreno su cui è possibile ripensare un intervento inbanlieue?

[1] Cf. Marco Assennato, Francia: quattro ipotesi, EuroNomade, 8 aprile 2016.

[2] Buona parte delle considerazioni di questo testo sono frutto di un serrato confronto con Toni Negri e Judith Revel, in particolare sul quadro sindacale e sulle banlieues.

[3] Vedi EuroNomade, Intermittenti: la pericolosa generosità dello Stato, 9 giugno 2016

[4] Conversazione con l’autrice.

Fonte: inchiestaonline.it 

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