La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 17 settembre 2016

Black like Mao. Cina rossa e rivoluzione nera

di Robin D. G. Kelly e Betsy Esch
Sembrerebbe che il Presidente Mao, quantomeno dal punto di vista simbolico, sia oggetto di una rinnovata popolarità tra i giovani. Le sue immagini e idee ritornano costantemente in una miriade di contesti culturali e politici. The Coup, un celebre gruppo hip-hop della San Francisco Bay Area, ha posto Mao Zedong nel panteon degli eroi radicali neri, inscrivendo in tal modo le lotte per la libertà dei neri in un contesto internazionale. In un pezzo intitolato semplicemente “Dig It” (1993), The Coup si riferisce ai propri membri definendoli “i dannati della terra”, invita gli ascoltatori a leggere il Manifesto del partito comunista, ed evoca figure come Mao Zedong, Ho Chi Min, Kwame Nkrumah, H. Rap Brown, il movimento keniano dei Mau Mau e Geronimo Ji Jaga Pratt.
In manira tipicamente maoista, il gruppo fa propria, parafrasandola, una delle più note citazioni di Mao “siamo coscienti che il potere sta sulla punta della pistola”(2). Anche considerando che i componenti di The Coup non erano neanche nati all’apogeo del maoismo nero, “Dig It” coglie lo spirito di Mao in relazione al mondo coloniale in generale – un mondo che comprendeva gli afroamericani. Nella Harlem di fine anni Sessanta inizio anni Settanta, si sarebbe detto che tutti possedevano una copia delle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung (3), meglio noto come Libretto rosso. Di tanto in tanto, era possibile vedere i sostenitori del Black Panter Party venderlo agli angoli delle strade al fine di raccogliere fondi per il partito. Non di rado i giovani radicali neri si aggiravano per le strade vestiti come contadini cinesi, fatta eccezione, ovviamente, per il taglio afro e gli occhiali da sole.
Come l’Africa, la Cina era in movimento, ed era impressione condivisa che supportasse le lotte dei neri. In realtà era qualcosa di più che un’impressione: parte della comunità nera faceva realmente appello alla rivoluzione richiamandosi a Mao, così come a Marx e Lenin. Numerosi neri radicali, all’epoca, guardavano alla Cina, nonché a Cuba, al Ghana e persino a Parigi, come la terra nella quale una vera libertà era possibile. Certo, la Cina non era perfetta, ma pur sempre meglio che vivere nel ventre della bestia. Quando la dirigente delle Pantere nere, Elaine Brown, visitò Pecchino, nell’autunno del 1970, rimase favorevolmente sorpresa dalle realizzazioni della Rivoluzione cinese nel migliorare le condizioni di vita del popolo. “Anziani e giovani potrebbero dare testimonianze emozionanti, come battisti convertiti, delle glorie del socialismo” (4).
Un anno dopo, vi ritornò, accompagnata da uno dei fondatori delle Pantere, Huey Newton, che descrisse così la propria esperienza in Cina, “una sensazione di libertà – come se la mia anima fosse stata alleggerita da un grande peso e io fossi in grado di essere me stesso, senza dovermi difendere per ciò, senza necessità o pretesa di dovermi spiegare. Mi sono sentito per la prima volta assolutamente libero – completamente libero tra i miei simili” (5). 
Più di un decennio prima che la Brown e Newton mettessero piede sul suolo cinese, W.E.B. Du Bois considerava la Cina come l’altro gigante addormentato, pronto a guidare le razze di colore nella lotta mondiale contro l’imperialismo. Egli vi si era recato per la prima volta nel 1936 – prima della guerra e della rivoluzione – nel corso di un lungo soggiorno in Unione Sovietica. Ritornandovi nel 1959, quando era illegale viaggiare in Cina, Du Bois scopriva un paese del tutto nuovo. Colpito dalla trasformazione intrapresa dai cinesi, in particolare da quella che percepiva come emancipazione della donna, ripartì convinto che la Cina avrebbe guidato le nazioni sottosviluppate verso il socialismo. “Dopo lunghi secoli, la Cina”, come ebbe a riferire a un uditorio di comunisti cinesi in occasione del suo novantunesimo compleanno, “si è sollevata sulle proprie gambe ed è balzata in avanti. Africa sollevati, sta dritta in piedi, parla e pensa! Agisci! Volta le spalle all’Occidente, alla schiavitù e umiliazione degli ultimi cinquecento anni e guarda al sole che sorge” (6).
La storia di come i radicali neri sono giunti a vedere nella Cina il faro della rivoluzione, e il pensiero di Mao quale sua linea guida, è complicata e affascinante, coinvolge letteralmente dozzine di organizzazioni e abbraccia gran parte del mondo – dai ghetti del nord america alle campagne africane. Di conseguenza il resoconto che segue non pretende di essere esaustivo (7). Nondimeno, abbiamo tentato in questo articolo di esplorare l’impatto del pensiero maoista, e della Repubblica popolare cinese più in generale, sul movimento radicale nero dagli anni Cinquanta sino ad almeno la metà degli anni Settanta. Indagheremo anche come il nazionalismo nero ha dato forma a dibattiti all’interno delle organizzazioni maoiste o “antirevisioniste” negli Stati Uniti. È nostra convinzione che la Cina abbia fornito ai radicali neri un esempio marxista “di colore”, o terzomondista, il quale ha permesso loro di sfidare una visione bianca e occidentale della lotta di classe – un modello che essi hanno modellato e rimodellato al fine di adattarlo alle loro realtà culturali e politiche. Sebbene il ruolo della Cina sia stato contraddittorio e problematico sotto diversi aspetti, il fatto che i contadini cinesi, contrariamente al proletariato europeo, abbiano fatto una rivoluzione socialista, e acquisito una posizione nella politica mondiale distinta dal campo sovietico e da quello statunitense, ha dotato i radicali neri di un profondo senso dell’importanza della rivoluzione e del potere. Infine, Mao non solo ha dimostrato ai neri del mondo intero che non dovevano attendere il maturare di “condizioni oggettive” per fare la rivoluzione, ma coll’importanza conferita alla lotta culturale ha profondamente orientato il dibattito circa la politica e l’arte nera.
La lunga marcia
Chiunque abbia familiarità col maoismo sa che non si è mai trattato di un ideologia compiuta mirante a rimpiazzare il marxismo-leninismo. Al contrario, essa ha invece segnato una svolta contro il “revisionismo” del modello sovietico post-staliniano. Il contributo di Mao al pensiero marxista è un risultato diretto della Rivoluzione cinese del 1949. L’insistenza di Mao riguardo all’indipendenza della capacità rivoluzionaria dei contadini rispetto al proletariato urbano attraeva particolarmente i radicali neri, scettici all’idea di dover aspettare il realizzarsi di condizioni oggettive per lanciare la loro rivoluzione. Centrale nel maoismo è l’idea che il marxismo possa (e debba) essere ridefinito in funzione delle esigenze temporali e geografiche, e che il lavoro pratico, le idee e la leadership derivino dal movimento delle masse e non da teorie prodotte nell’astratto o nell’ambito di altre lotte (8). In concreto, ciò significava che i veri rivoluzionari dovevano essere in possesso della volontà rivoluzionaria di vincere. La nozione di volontà rivoluzionaria non può essere sottovalutata, specialmente per gli appartenenti a movimenti isolati e sotto attacco su ogni lato. Armati della teoria appropriata, dell’adeguato comportamento etico e della volontà, i rivoluzionari, nelle parole di mao, possono “smuovere le montagne” (9). Probabilmente questo è il motivo per cui il dirigente comunista cinese Lin Biao ha potuto scrivere nella prefazione alle Citazioni, “Quando le larghe masse si saranno impadronite del pensiero di Mao Tze-Tung, esso diventerà una inesauribile sorgente di forza, una bomba atomica spirituale di potenza senza pari” (10)
Mao e Lin Biao riconoscevano che la fonte di una simile “bomba atomica” poteva essere individuata nelle lotte dei nazionalisti del terzo mondo. In un’epoca nella quale la Guerra fredda contribuiva all’emergere del movimento dei paesi non allineati, con l’incontro dei leader del mondo “di colore” a Bandung, in Indonesia nel 1955, nel tentativo di tracciare una via indipendente allo sviluppo, i cinesi speravano di indirizzare le ex-colonie nella strada verso il socialismo. I cinesi (basandosi sulla teoria di Lin Biao della “nuova rivoluzione democratica”) non solo conferivano alle lotte nazionaliste un valore rivoluzionario, ma tendevano la mano specificamente all’Africa e alle persone di origini africane. Due anni dopo la storica conferenza di Bandung, la Cina formava l’Organizzazione per la solidarietà dei popoli afroasiatici. Mao non solo invitò W.E.B. Du Bois a passare il proprio novantesimo compleanno in Cina dopo che questi era stato dichiarato nemico pubblico dagli Stati Uniti, ma tre settimane prima della grande marcia su Washington, nel 1963, egli rilasciò anche una dichiarazione nella quale criticava il razzismo americano e indicava il movimento di emancipazione degli afroamericani quale parte della lotta mondiale contro l’imperialismo. “Il crudele sistema del colonialismo e dell’imperialismo”, affermava Mao, “è sorto e ha prosperato dalla riduzione in schiavitù e dalla tratta dei neri, e scomparirà con la completa emancipazione del popolo nero” (11). Un decennio più tardi, il romanziere John Oliver Killens rimase sorpreso dal fatto che molti dei suoi libri, così come quelli di altri scrittori neri, era stato tradotto in cinese ed era ampiamente letto fra gli studenti. Dovunque andasse pareva che Killens incontrasse intellettuali e lavoratori “estremamente interessati al movimento dei neri e a come esso si riflettesse sull’arte e la letteratura degli stessi” (12).
Il loro status di persone di colore costituiva un potente strumento politico nel mobilitare il sostegno per gli africani e le persone di origini africane. Nel 1963, per esempio, i delegati cinesi a Moshi, Tanzania, affermarono che i russi non avevano niente a che fare con l’Africa poiché erano bianchi. I cinesi, d’altra parte, venivano percepiti non solo come parte del mondo di colore, bensì anche come esenti da complicità nella tratta degli schiavi. Naturalmente, molte di queste affermazioni avevano la funzione di favorire la costruzione di alleanze. In realtà, a Guangzhou nel XII secolo vi erano schiavi africani, e alcuni studenti africani nella Cina comunista lamentarono di essere vittime di razzismo. (In effetti, dopo la morte di Mao, i conflitti razziali nei campus universitari divennero più frequenti, in particolare a Shanghai nel 1979, a Nanjing nel 1980 e Tianjin nel 1986) (12). Inoltre, la politica estera cinese verso il mondo nero era guidata più da considerazioni di natura strategica che da un reale impegno a favore dei movimenti rivoluzionari del terzo mondo, in particolare dopo la rottura sino-sovietica. La posizione antisovietica della Cina implicò decisioni in politica estera che ne minarono la reputazione presso alcuni movimenti di liberazione africani. Nell’Africa australe, ad esempio, i cinesi supportavano movimenti che godevano anche dell’appoggio del regime dell’apartheid sudafricano (14).
Ciò nonostante, le idee di Mao ancora trovavano ascolto tra i radicali neri. Sebbene i progetti maoisti negli Stati Uniti non abbiano mai raggiunto il tipo di seguito ottenuto di partiti comunisti filo-sovietici negli anni Trenta, hanno comunque messo radici nel paese. E come i cento fiori, essi sono sbocciati in un confuso mosaico di voci radicali, tutte apparentemente in guerra tra l’un l’altra. Non sorprende che al centro dei loro dibattiti circa la natura della lotta di classe negli Stati uniti vi fosse la “questione nera”: quale ruolo avrebbe giocato la popolazione nera nella rivoluzione mondiale?
La rivoluzione nera mondiale
"Popoli di tutto il mondo, unitevi per sconfiggere gli aggressori americani e tutti i loro lacchè! Popoli di tutto il mondo, fate affidamento sul vostro coraggio, osate combattere, sfidate le difficoltà, avanzate ondata dopo ondata e il mondo sarà vostro. I mostri saranno tutti annientati."
Mao Tze-Tung, “Dichiarazione in appoggio al popolo del Congo contro l’aggressione degli Stati Uniti (1964) (15)
"Una rivoluzione è sul punto di travolgere l’intera Africa, l’Asia, l’America del sud, quella centrale e quella nera."
Revolutionary Action Movement, The World Black Revolution (16)
Il maoismo negli Stati Uniti non venne importato dalla Cina. Se non altro per quei maoisti formatisi nella vecchia sinistra, le sue fonti possono essere rintracciate nelle rivelazioni di Chruščëv al XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica nel 1956, il quale suscitò un movimento anti-revisionista nella sinistra stalinista. A seguito dei dibattiti interni al Partito comunista degli Stati Uniti d’America (CPUSA) emersero numerose organizzazioni impegnate a riportare i comunisti nel campo stalinista; organizzazioni come il Provisional Organizing Committee (POC, 1958), Hammer and Steel (1960) e il Progressive Labor Party (PLP, 1965) (17).
Il PLP, un’emanazione del Progressive Labor Movement fondato tre anni prima, era inizialmente guidato da ex-comunisti convinti che i cinesi avevano adottato la posizione corretta. Insistendo sulla tesi che i lavoratori neri erano “la forza rivoluzionaria chiave” nella rivoluzione proletaria, il PLP attrasse alcuni prominenti attivisti neri come John Harris a Los Angeles e Bill Epton ad Harlem. Epton era divenuto una sorta di cause célèbre dopo esser stato arrestato per “anarchia criminale” durante i riots del 1964 (18). Due anni dopo, il PLP aiutava a organizzare uno sciopero studentesco al fine di istituire un programma di black studies alla SanFrancisco State University, e la sua Commission Black Liberation pubblicava un pamphlet intitolato Black Liberation Now!, il quale cercava di porre tutte queste ribellioni urbane in un contesto globale. Tuttavia, a partire dal 1968, il PLP abbandonava il proprio supporto al nazionalismo “rivoluzionario” concludendo che ogni forma di nazionalismo era reazionaria. Come risultato del suo convinto anti-nazionalismo il PLP si oppose a ogni tipo di affirmative action e a comitati latini e neri all’interno dei sindacati – posizioni che ne indebolirono il rapporto con gli attivisti della comunità nera. Di fatto, le relazioni del PLP con la nuova sinistra vennero compromesse in parte a causa dei suoi attacchi al Black Panther Party e al movimento studentesco nero. I membri del PLP vennero cacciati dal gruppo Students for a Democratic Society (SDS) nel 1969 con l’appoggio di diversi gruppi radicali nazionalisti, comprese le Pantere nere, i Young Lords e i Brown Berets (19).
Ciononostante, i partiti marxisti-leninisti-maoisti prevalentemente bianchi non furono il veicolo primario per la sinistra nera di ispirazione maoista. Non pochi radicali neri degli anni Cinquanta e Sessanta scoprirono la Cina tramite le lotte anticoloniali in Africa e la Rivoluzione cubana. L’indipendenza del Ghana nel 1957 costituì un avvenimento da celebrare, e l’assassinio di Ptrice Lumumba in Congo, col coinvolgimento della CIA, ispirò proteste da parte di tutti i circoli dell’attivismo nero. La Rivoluzione cubana e il celebre soggiorno di Castro all’Hotel Theresa di Harlem, durante la sua visita all’ONU, pose la gente di colore di fronte all’esempio di un socialista dichiarato che tendeva con solidarietà la mano alle persone di colore in tutto il mondo. Effettivamente, decine di radicali neri non solo difesero pubblicamente la Rivoluzione Cubana ma visitarono anche Cuba organizzati in gruppi come Fair Play for Cuba Committee (20). Tra di loro vi era Harold Cruse, un ex-comunista ancora legato al marxismo. Questi era convinto che le rivoluzioni cubana, cinese e africana potessero rivitalizzare il pensiero radicale, poiché avevano dimostrato il potenziale rivoluzionario del nazionalismo. In un provocatorio saggio pubblicato sul New Leader nel 1962, Cruse scriveva che la nuova generazione guardava al vecchio mondo coloniale per i suoi leader e idee, e che tra i suoi eroi vi era Mao: "All’epoca avevano già un panteon di eroi moderni – Lumumba, Kwame Nkrumah, Sekou Toure in Africa; Fidel Castro in America Latina; Malcolm X, il leader musulmano, a new York; Robert Williams nel sud; e mao Tze-Tung in Cina. Tali uomini apparivano come eroici agli afroamericani non a causa della loro filosofia politica, ma perché erano ex-colonizzati che avevano ottenuto l’indipendenza, o perché, come Malcolm X, avevano osato guardare in faccia la comunità bianca e dire: “noi non pensiamo che la vostra civiltà meriti gli sforzi dei neri per integrarvisi”. Questo per molti afroamericani era un atto di sfida autenticamente rivoluzionario (21)."
In un altro saggio, comparso su Studies on the Left nel 1962, Cruse era ancor più esplicito circa il carattere globale del nazionalismo rivoluzionario. Egli sosteneva che la gente nera negli Stati Uniti viveva sotto una forma di colonialismo domestico, dunque le loro lotte andavano dovevano essere considerate parte di un movimento anticoloniale di portata mondiale. Così scriveva, “il fallimento dei marxisti americani nel comprendere il legame tra i neri e i popoli colonizzati del mondo li ha condotti a fallire nello sviluppare teorie valide per i neri degli Stati Uniti”. A suo modo di vedere, le ex-colonie rappresentavano l’avanguardia della rivoluzione, e nella prima linea di questa nuova rivoluzione socialista vi erano Cuba e la Cina (22).
Le rivoluzioni a Cuba, in Africa e Cina ebbero un effetto analogo su Amiri Baraka, il quale un decennio e mezzo dopo avrebbe fondato la Revolutionary Communist League (RCL) di ispirazione maoista. Segnato dalla sua visita a Cuba e dall’assassinio di Lumumba, Baraka iniziò a pubblicare saggi per un nuovo magazine intitolato African Revolution, curato dal leader nazionalista algerino Ben Bella. Come spiega Baraka, "India e Cina hanno conquistato la propria indipendenza formale prima degli anni Cinquanta, e col concludersi di quest’ultimi, vi sono numerose nazioni africane indipendenti (sebbene con gradi diversi di neocolonialismo). Il ghanese Kwame Nkrumah aveva issato la stella nera sulla presidenza ad Accra, inoltre i suoi discorsi e la notorietà dei suoi atti costituivano un luminoso incoraggiamento per i popoli di colore in tutto il mondo. Quando i cinesi hanno fatto esplodere la loro prima bomba atomica ho scritto un poema ne quale affermavo, in effetti, che il tempo per i popoli di colore era ricominciato (23)."
Ma è probabilmente nella carriera di Vicki Garvin che la matrice Ghana-Cina si è incarnata al meglio; militante instancabile, la Garvin aveva frequentato i circoli della sinistra nera ad Harlem nel dopoguerra. Cresciuta in una famiglia operaia nera a New York, aveva trascorso le proprie estati lavorando nell’industria tessile per contribuire al reddito della famiglia. Sin dai suoi anni di liceo divenne attiva nei movimenti i contestazione neri, sostenendo gli sforzi di Adam Clayton Powell Jr. per ottenere lavori migliori condizioni salariali per gli afroamericani ad Harlem, nonché creare club di storia nera dedicati alla costruzione di risorse documentarie. Dopo aver conseguito la laurea in scienze politiche all’unter College di Northampton e un master in economia allo Smith College, spese gli anni di guerra lavorando preso il National War Labour Board, continuando a svolgere un ruolo organizzativo per il United Office and Professionnal Workers of America (UOPWA)-CIO, e ricoprendo la funzione di direttore nazionale della ricerca e co-presidentessa del Pair Employment Practices Committee. Durante le purghe del dopoguerra contro la sinistra nel CIO [Congress of Industrial Organization, n.d.t.], la Garvin fu tra le voci più forti di protesta, oltreché un critico severo del fallimento da parte del CIO nell’organizzarsi al sud. In qualità di segretaria esecutiva della sezione newyorchese del National Negro Labor Council e vicepresidentessa dell’organizzazione a livello nazionale, stabilì legami stretti con Malcolm X aiutandolo nell’organizzazione di parte del suo viaggio in Africa (24).
La Garvin si unì all’esodo intellettuale nero verso il Ghana di Nkrumah, dove inizialmente risiedette insieme alla poetessa Maya Angelou per poi trasferirsi in un alloggio vicino a quello di Du Bois. Passo due anni ad Accra, circondata da numerosi intellettuali e artisti neri di primo piano, tra i quali Julian Mayfield, l’artista Tom feelings e il fumetista Ollie Harrington. Come radicale che aveva insegnato inglese colloquiale negli ambenti diplomatici cubani, algerini e cinesi in Ghana, le sarebbe stato assai difficile non sviluppare un profondo punto di vista internazionalista. Le conversazioni con Du Bois negli ultimi giorni della sua permanenza in Ghana non fecero che rafforzare il suo internazionalismo e accendere il suo interesse nei confronti della rivoluzione Cinese. In effetti, grazie a Du Bois, la Garvin ottenne un lavoro come “correttore” per le traduzioni inglesi della Pekin Review, nonché un posto di insegnante allo Shanghai Foreign Language Institute. In Cina trascorse gli anni dal 1964 al 1970, costruendo ponti tra le lotte per la libertà dei neri, i movimenti d’indipendenza africani e la Rivoluzione cinese (25).
Per Huey Newton, futuro fondatore del Black Panther Party, la rivoluzione africana pareva anche meno decisiva degli eventi svoltisi a cuba e in Cina. Come studente del Merritt College nei primi anni Sessanta egli lesse un po’ di esistenzialismo, iniziando a frequentare incontri organizzati dal Progressive Labour party e a sostenere la rivoluzione Cubana. Non sorprende che Newton iniziasse a leggere voracemente la letteratura marxista. In particolare Mao lasciò in lui un’impressione duratura: “La mia conversione fu completa quando lessi i quattro volumi di Mao Tze-Tung per saperne di più a poposito della Rivoluzione cinese” (26). In tal modo, ben prima della fondazione del Black Panther party, Newton aveva subito l’influenza del pensiero di Mao Zedong, così come degli scritti di Che Guevara e Frantz Fanon. “Mao, Fanon e Guevara hanno tutti affermato chiaramente che i popoli sono stati spogliati dei loro diritti inalienabili e della dignità, non attraverso una filosofia o semplici parole, ma sotto la minaccia delle armi. Essi sono stati vittime di una rapina orchestrata da gangster, nonché di uno stupro; per loro l’unico mezzo per guadagnare la libertà è consistito nel rispondere alla forza con la forza” (27). La volontà dei cinesi e dei cubani di “rispondere alla forza con la forza” era anche motivo del fascino esercitato da queste rivoluzioni presso i radicali neri nell’epoca della resistenza passiva e nonviolenta. Naturalmente, questo periodo ebbe la sua parte di lotte armate nel sud, con gruppi come Deacons for Defense and Justice e il Movimento di Cambridge di Gloria Richardson a difesa, quando necessaria, dei manifestanti nonviolenti. Tuttavia, la figura che meglio incarnò la tradizione nera dell’autodifesa armata fu Robert Williams, eroe della nuova ondata di internazionalisti neri, la cui importanza rivaleggia almeno con quella di Malcolm X (28). Ex marine, dotato di un avanzato addestramento militare, Williams ottenne notorietà nel 1957 per aver formato dei gruppi di autodifesa armati a Monroe nel North Carolina, al fine di combattere il Ku Klux Klan. Due anni dopo, la sua dichiarazione secondo la quale i neri dovevano “rispondere alla violenza con la violenza”, in quanto unico mezzo per fermare l’ingiustizia in un sud incivile, portò alla sua sospensione dalla carica di presidente della sezione di Monroe della NAACP [National Association for the Advancement of Colored People, n.d.t.].
Il Revolutionary Action Movement
La rottura di Williams con la NAACP e il suo schierarsi apertamente a favore dell’autodifesa armata lo spinsero ancor più a sinistra, nell’orbita del Socialist Workers Party, del Workers World Party e di alcuni membri del vecchio CPUSA. Nel 1961, a seguito di accuse di sequestro montate ad arte e di un mandato d’arresto federale, Williams e la sua famiglia si videro costretti a lasciare il paese per cercare asilo politico a Cuba. Durante i quattro anni successivi, Cuba divenne per Williams la base da cui promuovere la rivoluzione mondiale nera ed elaborare un’ideologia internazionalista che abbracciasse il nazionalismo nero e la solidarietà verso il terzo mondo.
La fuga di Williams a Cuba ispirò in parte la fondazione del Revolutionaty Action Movement (RAM). In Ohio, intorno al 1961, i membri neri di Students for a Democratic Society (SDS), così come attivisti del Student Non violent Coordinating Committee (SNCC) e del Congress of Racial Equality (CORE), si riunirono in un piccolo gruppo al fine di discutere il significato del lavoro di Williams, a Monroe e nel successivo esilio. Guidato da Donald Freeman, uno studente nero della Case Western Reserve a Cleveland, il nucleo del gruppo era costituito da una nuova organizzazione di studenti del Central State College di Wilberforce autonominatasi Challenge. I componenti di Challenge furono segnati in particolare dal saggio di Cruse, “Revolutionary Nationalism and the Afro-American” (29), il quale ebbe un’ampia diffusione tra i giovani militanti neri. Ispirato dall’interpretazione proposta da Cruse dell’importanza globale delle lotte per la libertà dei neri, Freeman sperava di trasformare Challenge in un movimento rivoluzionario nazionalista analogo alla Nation of Islam, ricorrendo però alle tattiche di azione diretta del SNCC. A seguito di un lungo dibattito, i membri di Challenge decisero di sciogliere l’organizzazione nella primavera del 1962 e dare vita al Revolutionary Action Movement (RAM, originariamente denominato “Reform” Action Movement, in modo da non spaventare l’amministrazione universitaria), con ai suoi vertici Freeman, Max stanford e Wanda Marshall. Pochi mesi dopo, la base del movimento venne spostata a Philadelphia, dando inizio alla pubblicazione del bimensile Black America e un bollettino d’informazione intitolato RAM Speaks; il progetto era quello di costruire un movimento di scala nazionale orientato al nazionalismo rivoluzionario, all’organizzazione dei giovani e all’autodifesa armata; alcuni attivisti di Philadelphia vennero reclutati, inclusa Ethel Johnson (che aveva lavorato con Williams a Monroe), Stan Daniels e Playthell Benjamin (30).
Il RAM rappresentò il primo serio e duraturo tentativo del dopoguerra di coniugare il marxismo, il nazionalismo nero e l’internazionalismo terzomondista in un coerente programma rivoluzionario. Nelle parole di Max Stanford, il RAM “tentava di applicare il pensiero marxista-leninista e di Mao Tze-Tung” alle condizioni della gente nera e “sosteneva la teoria secondo la quale il movimento di emancipazione dei neri negli Stati Uniti era parte dell’avanguardia della rivoluzione socialista mondiale” (31). Inoltre, oltre a guardare all’esempio di Robert Williams, i giovani militanti del RAM cercarono una guida politica presso alcuni vecchi ex-comunisti neri espulsi per “ultrasnistrismo” o per “nazionalismo borghese”, o che avevano abbandonato il partito a causa del suo “revisionismo”. In questo gruppo di vecchi militanti vi erano Hrold Cruse, Harry Haywood, Abner Berry e “Queen Mother” Audley Moore. Quest’ultima sarebbe diventata un’importante mentore per il RAM nell’East Coast, fornendo ai suoi membri una formazione incentrata sul pensiero nazionalista nero e sul marxismo. L’abitazione di Queen Mother, da le affettuosamente chiamata Mont Addis-Abeba, servì praticamente da scuola per una nuova generazione di giovani radicali neri. La Moore aveva fondato l’African-American Party of National Liberation nel 1963, il quale formò un governo provvisorio eleggendo Robert Williams come primo ministro in esilio (32). I membri del RAM si rivolsero anche verso i leggendari ex-trotzkisti di Detoit James e Grace Lee Boggs, che avevano militato al fianco di C.L.R. James, e i cui scritti marxisti e pan-africanisti influenzarono profondamente i militanti del RAM al pari di altri attivisti della nuova sinistra (33).
Crescendo il RAM sviluppo un seguito in altre parti del paese, per quanto continuasse a essere semi-clandestino e poco strutturato. Proprio come l’African Blood Brotherhood degli anni Venti o il gruppo di intellettuali radicali che pubblicavano Studies on the Left, il RAM diede un contributo alle lotte che rimase in larga parte al livello della teoria. Nel sud il RAM riuscì a costruirsi un piccolo ma significativo seguito alla Fisk University, terreno di formazione per numerosi attivisti di primo piano del SNCC. Nel maggio del 1964, per esempio, i membri del RAM tennero la prima Conferenza studentesca afroamericana sul nazionalismo nero nel campus della Fisk (34). Nel nord della California, il RAM crebbe innanzitutto come emanazione della Afro-American Association. Fondata da Donald Warden nel 1962, la Afro-American Association era costituita da studenti della University of California a Berkeley e del Merrit College – molti dei quali, come Leslie e Jim Lacy, Cedric Robinson, Ernest Allen e Huey Newton, avrebbero giocato un ruolo importante come attivisti/intellettuali radicali. A Los Angeles, il suo presidente era il giovane Ron Everett, il quale avrebbe in seguito cambiato nome in Ron Karenga e fondato la US Organization. La Afro-American SocietyAssociation ben presto sviluppo una reputazione come gruppo di intellettuali militanti pronti a dibattere con chiunque. Sfidando i docenti, discuttendo con gruppi come la Young Socialist Alliance e tenendo letture pubbliche di storia e cultura nere, questi giovani uomini lasciarono un’impressione profonda fra gli studenti e la comunità nera in generale. Nella East Bay, dove la tradizione dei comizi improvvisati era morta negli anni Trenta, eccezion fatta per le campagne individuali portate avanti dal Civil Rights Congress guidato dai comunisti nei primi anni cinquanta, l’Afro-American Association era una prova vivente che una cultura intellettuale militante, dinamica e visibile, poteva ancora esistere.
Nel frattempo, Progressive Labor (PL) aveva iniziato a finanziare viaggi a Cuba e a reclutare diversi studenti radicali neri nell’East Bay. Tra loro Ernest Allen, studente del Merritt college trasferitosi a Berkeley che era stato costretto a lasciare l’Afro-America Asociation. Cresciuto negli ambienti della classe operaia di Oakland, Allen faceva parte di una generazione di radicali neri la cui insoddisfazione, rispetto alla strategia della resistenza passiva nonviolenta del movimento per i diritti civili, li avvicinava a Malcolm X e ai movimenti di liberazione del terzo mondo. Non stupisce che Allen abbia scoperto il RAM tramite il suo viaggio a Cuba nel 1964. Tra i suoi compagni di viaggio vi era un contingente di militanti neri di Detroit: Luke Tripp, Charles (“Mao”) Johnson e General Baker. Tutti erano membri del gruppo studentesco Uhuru, e avrebbero avuto un ruolo chiave nella formazione del Dodge Revolutionary Union Movement (DRUM) e della League of Revolutionary Black Workers. Incredibilmente, Max Stanford si trovava già sull’isola per incontrare Robert Williams. Sulla via del ritorno negli Stati Uniti, Allen e il gruppo di Detroit si incaricarono di partecipare alla costruzione del RAM. Allen si fermò a Cleveland per incontrare i membri del RAM nel corso del suo viaggio in bus attraverso il paese per ritornare a Oakland. Armato di copie della rivista Crusadr di Williams e di documenti prodotti dal RAM, Allen fece ritorno a Oakland intenzionato a stabilire una presenza del movimento nell’East Bay.
Mai composto da più di un pugno di persone – tra le quali Isaac Moore, Kenn Freeman, Bobby Seale (uno dei futuri fondatori del Black Panther Party) e Doug Allen (il fratello di Earnie – il gruppo stabilì una base al Merritt College tramite il Soul Students Advisory Council. La presenza intellettuale e culturale del gruppo, tuttavia, non mancò di farsi sentire diffusamente. Allen, Freeman e altri, fondarono una rivista intitolata Soulbook: The Revolutionary Journal of the Black World, nella quale veniva pubblicata prosa e poesia il cui orientamento poteva essere ben descritto come nazionalista nero di sinistra. Freeman, in particolare, era assi rispettato tra gli attivisti del RAM e ampiamente letto. Egli spingeva costantemente i membri del gruppo a pensare le lotte dei neri in un contesto globale. Gli editori di Soulbook, inoltre, svilupparono legami con esponenti radicali neri della vecchia sinistra, in particolare con l’ex-comunista Harry Haywood, del quale pubblicarono i lavori in uno dei primi numeri (35).
Per quanto il RAM come movimento non abbia mai ricevuto la notorietà e la pubblicità accordata a gruppi come il Black Panther Party, la sua influenza sorpassò di gran lunga il numero dei suoi componenti – un po’ come l’African Blood Brotherhood (ABB) quattro decenni prima. In effetti, proprio come l’ABB, il RAM rimase in gran parte un’organizzazione semi-clandestina dedita prevalentemente alla propaganda piuttosto che a organizzarsi affettivamente. Leader come Max Stenford si identificavano con i contadini cinesi ribelli che avevano condotto il Partito comunista alla vittoria. Essi riprendevano la celebre espressione di Mao: “quando il nemico avanza, noi ripieghiamo; quando si accampa, compiamo azioni di disturbo; quando è stanco, attacchiamo; il nemico si ritira, noi lo inseguiamo” (36). Prendevano Mao alla lettera, invocando l’insurrezione armata, traendo ispirazione e idee dalla teoria della guerriglia urbana negli Stati Uniti di Williams. I leder del RAM erano intimamente convinti che una simile guerra non solo fosse possibile, ma che potesse essere vinta in novanta giorni. La combinazione del caos di massa e della disciplina rivoluzionaria costituiva la chiave della vittoria. Il numero dell’autunno 1964 di Black America prediceva l’Aramgeddon: "Gli uomini e le donne nere nelle forze armate diserteranno e si uniranno alle forze di liberazione nere. I bianchi che sosterranno di voler aiutare la rivoluzione saranno mandati nelle comunità bianche a dividerle, combattere i fascisti e frustrare gli sforzi delle forze controrivoluzionarie. Il caos sarà ovunque e con l’interruzione delle comunicazioni di massa le sommosse esploderanno in gran numero in tutti i settori del governo degli oppressori. La borsa crollerà; Wall Street smetterà di funzionare; Washington verrà travolta dai tumulti. I funzionari fuggiranno dappertutto – fuggiranno per salvare le proprie vite. I George Lincoln Rockefeller, Kennedy, Vanderbilt, Hunt, Johnson, Wallace, Barnett, ecc., saranno i primi a scappare. La rivoluzione “colpirà di notte e non risparmierà nessuno”… la rivoluzione nera ricorrerà al sabotaggio nelle città, mettendo fuori uso prima la corrente elettrica, poi i trasporti, estendendo la guerriglia alle campagne del sud. Con le città impotenti, gli oppressori saranno indifesi (37)."
La rivoluzione era chiaramente vista come un lavoro da uomini, considerato che le donne comparivano a malapena nell’equazione. Effettivamente, uno dei fatti più eclatanti della storia della sinistra anti-revisionista è a qual punto essa fosse dominata dagli uomini. Sebbene Wanda Marshall sia stata una delle fondatrici del RAM, non occupava alcun ruolo direttivo, a livello nazionale, nel 1964. Al di là della promozione di “leghe femminili”, il cui obiettivo doveva essere quello di organizzare le donne nere che lavoravano nelle case dei bianchi, il RAM rimase relativamente silente circa l’emancipazione delle donne.
L’orientamento maschilista del RAM ha molto a che vedere col fatto che i suoi leader si vedevano come guerriglieri urbani, membri di una versione nera dell’Armata rossa di Mao. Certo, non tutti adottavano un simile punto di vista, ma coloro che lo condividevano si affidavano pienamente a una serie di prescrizioni etiche elaborate da Mao per i quadri del suo partito e per i membri del’armata popolare. Lo si può vedere chiaramente nel “Codice dei quadri” del RAM, una serie di regole di condotta fortemente didattiche secondo le quali i membri erano tenuti a vivere. Alcuni esempi: "Un nazionalista rivoluzionario mantiene il massimo rispetto per ogni autorità all’interno del partito.
Un nazionalista rivoluzionario non si fa corrompere dal denaro, dagli onori e da qualsiasi altra forma di beneficio personale.
Un nazionalista rivoluzionario subordinerà senza esitazione il suo interesse personale a quello dell’avanguardia.
Un nazionalista rivoluzionario manterrà il più alto livello di moralità e non prenderà mai uno spillo o un pezzo di filo dalle masse – i fratelli e le sorelle terranno il più alto rispetto l’uno per l’altro e non abuseranno o approfitteranno mai l’uno del’altro per guadagno personale – e non traviseranno mai la dottrina del nazionalismo rivoluzionario per nessuna ragione (38)."
Le analogie con le Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung sono evidenti. L’ultimo esempio citato, proviene direttamente da una delle “tre grandi regole di disciplina” di Mao, il quale esorta i quadri a “non prendere alle masse neanche un ago o un pezzo di filo”. L’altruismo e la devozione nei confronti delle masse è un altro tema dominante delle Citazioni. Ancora una volta, le somiglianze sono degne di nota: “Mai, in nessun momento e in nessuna circostanza”, afferma Mao, “un comunista deve mettere al primo posto i suoi interessi personali; deve invece subordinarli agli interessi della nazione e delle masse. Perciò l’egoismo, la pigrizia nel lavoro, la corruzione, la smania di mettersi in vista e via dicendo sono quanto di più spregevole esista; mentre l’altruismo, l’ardore nel lavoro, la completa dedizione al dovere pubblico e l’assiduo, duro lavoro impongono rispetto” (39).
L’enfasi posta dal maoismo sull’etica rivoluzionaria e sulla trasformazione morale, quantomeno in teoria, trovava eco nella tradizione religiosa nera (e nel protestantesimo americano più in generale) e, come la Nation of Islam, i maoisti neri predicavano l’autocontrollo, l’ordine e la disciplina. Non è da escludere che nel mezzo di una controcultura comprendente un elemento edonistico e l’uso di droghe, una nuova ondata di studenti radicali di estrazione operaia trovasse l’etica maoista attrattiva. Al suo rientro dalla Cina, Robert Williams – per certi aspetti il padre fondatore del RAM – insisteva perché ogni giovane attivista nero “intraprendesse una trasformazione personale e morale. Vi è la necessità di uno stringente e rivoluzionario codice di etica morale. I rivoluzionari sono strumenti di rettitudine” (40). Per i rivoluzionari neri, la dimensione morale ed etica del pensiero di Mao era incentrata sulla nozione di trasformazione personale. Si trattava di una lezione familiare, incarnata nelle vite di Malcolm X e (in seguito) George Jackson: l’idea che un individuo possedesse la volontà rivoluzionaria di trasformare se stesso. (Questo genere di narrazione era quasi esclusivamente maschile malgrado il crescente numero di memorie scritte da donne nere radicali). Che i membri del RAM vivessero o meno secondo il “Codice dei quadri”, l’etica maoista serviva, in fin dei conti, a rafforzare lo status di Malcolm X quale modello rivoluzionario.
Il programma in dodici punti del RAM faceva appello allo sviluppo di scuole di libertà, organizzazioni di studenti neri, club di tiro, cooperative agricole nere – non solo al fine dello sviluppo economico, bensì per preservare “le forze della comunità e della guerriglia” – e un’armata guerrigliera di liberazione composta di giovani e disoccupati. Il RAM poneva un’enfasi particolare sull’internazionalismo, invocando il supporto a favore dei movimenti di liberazione in Africa, Asia e America Latina, nonché l’adozione del “socialismo panafricano”. In linea col l’influente saggio di Cruse, “Revolutionary Nationalism and the Afro-American”, i membri del RAM vedevano se stessi come colonizzati che conducevano “una guerra coloniale in casa”. Come scrisse Stanford in un documento interno, intitolato “Projects and Problems of the Revolutionary Movement” (1964), “la posizione del RAM e che l’afroamericano non è un cittadino degli Stati Uniti, privato dei suoi diritti, quanto un soggetto coloniale asservito. Una posizione secondo la quale la gente nera negli Stati Uniti costituisce una nazione prigioniera e repressa, la cui lotta non è per l’integrazione nella comunità bianca, bensì per la liberazione nazionale” (41).
In quanto soggetti coloniali con diritto all’autodeterminazione, il RAM considerava gli afroamericani come membri di fatto delle nazioni non-allineate. I militanti del RAM si spingevano a identificavano se stessi come parte del “mondo di Bandung”, arrivando a organizzare una conferenza a Nashville, nel novembre del 1964, intitolata ” The Black Revolution’s Relationship to the Bandung World”. In un articolo del 1965 pubblicato sul giornale del RAM Black America, i militanti iniziarono a sviluppare la teoria dell'”umanesimo di Bandung” o dell'”internazionalismo rivoluzionario nero”, secondo la quale la battaglia fra il mondo occidentale e il terzo mondo – più che la lotta tra lavoro e capitale – rappresentava la contraddizione fondamentale dell’epoca. Essi collegavano la lotta per l’emancipazione degli afroamericani con ciò che stava accadendo in Cina, a Zanzibar, a Cuba, in Vietnam, Indonesia e Algeria, caratterizzando il proprio lavoro come parte della strategia internazionale di Mao, consistente nell’accerchiare i paesi capitalisti occidentali e sfidare l’imperialismo. Dopo il 1966, la locuzione “umanesimo di Bandung” venne interamente rimpiazzata da “internazionalismo nero”.
Cosa si dovesse intendere con “internazionalismo nero” lo si spiegava in un audace pamphlet di trentasei pagine pubblicato dal RAM nel 1966, intitolato The World Black Revolution. Vagamente modellato sul Manifesto del partito comunista, il pamphlet simpatizzava fortemente con la Cina contro l’occidente capitalista e l’impero sovietico. “L’emergere della Cina rivoluzionaria inizia a polarizzare le contraddizioni di casta e di classe nel mondo, sia nel campo borghese imperialista che in quello borghese comunista-socialista europeo” (42). In altre parole, la Cina veniva considerata il cuneo in grado di allargare le contraddizioni tra i popoli colonizzati e l’occidente. Respingendo l’idea che la rivoluzione sarebbe scoppiata nei paesi sviluppati dell’occidente, secondo il RAM l’unica vera soluzione rivoluzionaria consisteva nella “dittatura del sottoproletariato nero su scala mondiale attraverso la rivoluzione nera globale”. Ovviamente, gli autori non lavoravano con definizioni attuali; il RAM usava il termine “sottoproletariato” includendovi tutte le popolazioni di colore dell’Asia, dell’America Latina, dell’Africa e ovunque si trovassero; “sottoproletariato nero” era semplicemente sinonimo di mondo coloniale. la cina sosteneva una durissima lotta per difendere la propria libertà. Era giunto il momento per il resto del mondo “nero” di seguirne l’esempio: "Il sottoproletariato nero ha un solo modo per liberarsi dal colonialismo, dall’imperialismo, dal capitalismo e dal neocolonialismo; ossia, distruggere la civilizzazione (borghese) occidentale (le città del mondo) tramite una rivoluzione nera globale, stabilendo una dittatura rivoluzionaria nera su scala mondiale, mettendo fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo perché un nuovo e rivoluzionario mondo possa vedere la luce (43)."
Al fine di coordinare una simile rivoluzione, il RAM auspicava la creazione di un’Internazionale nera, nonché di un'”Armata di liberazione popolare su scala mondiale”.
Nonostante il suo veemente nazionalismo, The World Black Revolution giungeva alla conclusione secondo la quale il nazionalismo nero era “realmente internazionalista”. Solo attraverso la demolizione del nazionalismo bianco/potere bianco si poteva ottenere la liberazione per tutti. Non soltanto i confini nazionali scompariranno con “la dittatura del sottoproletariato nero”, ma persino “la necessità del nazionalismo, nella sua forma più aggressiva, verrà eliminato” (44). Si trattava di un’affermazione notevole considerate le radici sociali e ideologiche del RAM. Tuttavia, lungi dal rappresentare una posizione unitaria, tale dichiarazione rifletteva le varie e persistenti tensioni dalle quali era segnata la storia del RAM. Da un lato vi erano i nazionalisti, convinti che i rivoluzionari innanzitutto avrebbero dovuto lottare per la nazione nera e costruire il socialismo separatamente dal resto degli Stati Uniti. Dall’altro lato, socialisti come James e Grace Boggs, i quali volevano sapere chi avrebbe governato la nazione “bianca”, e quali conseguenze una simile presenza avrebbe comportato per la libertà nera. Questi ultimi rigettavano anche gli sforzi miranti a riproporre la tesi della “nazione nera” – la vecchia linea comunista in base alla quale le persone negli stati a maggioranza nera del sud (la cosiddetta “black belt”) avevano il diritto alla secessione dall’unione. I Boggs e i loro sostenitori, ribattevano che la reale fonte del potere risiedeva nelle città, non nella rurale black belt. Nel gennaio del 1965, James Boggs si dimetteva dal suo incarico di capo ideologico.
Dopo aver trascorso anni come organizzazione semi-clandestina, il RAM venne identificato, in una serie di “rivelazioni” pubblicate dalle riviste Life (45) e Esquire (46), come uno dei principali gruppi estremisti impegnati nel “cospirare contro i bianchi”. Il gruppo “spalleggiato da Pechino” veniva considerato nono solo armato e pericoloso, ma anche “particolarmente ferrato riguardo la letteratura rivoluzionaria – da Marat a Lenin, sino a Mao, Che Guevara e Franz Fanon”. (La sezione di Harlem del Progressive Labor Party rispose agli articoli con un pamphlet intitolato The Plot Against Black America, nel quale si sosteneva che la Cina non finanziava la rivoluzione, bensì dava un esempio rivoluzionario tramite il suo fermo antimperialismo. Le reali cause della rivolta nera, affermava il pamphlet, andavano rintracciate nelle condizioni di vita del ghetto) (47). Non stupisce che a simili articoli, largamente pubblicizzati, seguissero una serie di irruzioni della polizia nelle abitazioni dei membri del RAM a Philadelphia e New York. Nel giugno del 1967, i membri del RAM vennero arrestati e accusati di cospirazione finalizzata a istigare sommosse, l’avvelenamento di ufficiali di polizia con cianuro di potassio, nonché l’omicidio di Roy Wilkins e Whitney Young. Un anno dopo, nel clima di repressione creato dal Counter Intelligence Program dell’FBI (COINTELPRO), il RAM si trasformava nel Black Liberation Party, conosciuto anche come African American Party of National Liberation. Nel 1969, il RAM era pressoché sciolto, sebbene i suoi membri avessero optato per “fondersi nella comunità e infiltrarsi nelle organizzazioni nere esistenti”, continuando a promuovere i dodici punti del proprio programma e sviluppando gruppi di studio sulla “scienza dell’internazionalismo nero, e il pensiero del presidente Rob [Robert] Williams (48).
L’operazione COINTELPRO spiega solo in parte la dissoluzione del RAM. Alcuni dei suoi membri passarono ad altre organizzazioni, come la Republic of New Africa e il Black Panther Party. Ma il declino nel numero di aderenti e infine la scomparsa si possono in parte attribuire a errori strategici. In effetti, l’interpretazione da parte dei suoi membri della situazione dei ghetti e le loro strategie di mobilitazione suggeriscono non si trattasse, in fin dei conti, di maoisti conseguenti. L’insistenza di Mao circa la natura prolungata della rivoluzione non veniva presa sul serio; al punto che il RAM, come già notato, arrivò a suggerire che la guerra per la liberazione sarebbe probabilmente durata solo novanta giorni. E poiché i leader del RAM si concentravano sullo scontro frontale con lo stato e sull’attacco contro i leader neri da loro considerati riformisti, essi fallirono nel costruire una base ampia nelle comunità nere urbane. Inoltre, malgrado il loro fervente internazionalismo, non riuscirono a coinvolgere le altre “nazionalità” oppresse negli Stati Uniti. Ciò nondimeno, il RAM e Williams riuscirono a elevare il nazionalismo nero rivoluzionario a una posizione di primaria importanza teorica per la sinistra anti-revisionista in generale. Essi fornirono un esempio organizzativo e pratico di ciò che Harold Cruse, Franz Fanon e Malcolm X cercavano di promuovere nei loro scritti e discorsi. Ancor più importante, trovarono una giustificazione teorica per il nazionalismo nero rivoluzionario nel pensiero di Mao Zedong, specie dopo l’inizio della Rivoluzione culturale in Cina.
Il ritorno della Black Belt 
Al di là del giudizio che si può avere riguardo alla Rivoluzione culturale, essa proiettò nel mondo – in particolare per coloro che nutrivano simpatia per la Cina e per i movimenti rivoluzionari in generale – una visione della società in cui le divisioni tra i potenti e i deboli sfumavano, lo status sociale e il privilegio non distinguevano necessariamente governanti e governati. I marxisti Paul Sweezy e Leo Huberman, curatori della rivista socialista indipendente Monthly Review, riconoscevano le enormi implicazioni che una tale rivoluzione aveva per le aree urbane povere degli Stati Uniti: “si immagini soltanto cosa accadrebbe negli Stati Uniti se un presidente invitasse i poveri di questo paese, in particolare i neri dei ghetti urbani, a portare avanti autonomamente la lotta alla povertà, garantendo loro la protezione del’esercito contro le rappresaglie!” (49). Naturalmente, i neri negli Stati Uniti non erano considerati dallo stato come “il popolo”. I loro problemi non erano altro che un peso per la società, e la loro ingratitudine simboleggiata da sommosse e proliferare di organizzazioni rivoluzionarie non suscitava molta simpatia per i neri poveri.
Agli occhi di molti militanti della nuova sinistra, gli afroamericani rappresentavano non solo “il popolo” ma anche il settore più rivoluzionario della classe lavoratrice. L’enfasi posta dalla Rivoluzione culturale sull’eliminazione delle gerarchie, e sulla presa del potere da parte degli oppressi, rafforzava l’idea che la liberazione dei neri fosse il cuore della nuova rivoluzione americana. Lo stesso Mao Zedong accreditò una simile concezione nella sua diffusissima dichiarazione dell’aprile 1968 “In sostegno della lotta degli afroamericani contro la repressione violenta”. Una dichiarazione rilasciata durante una dimostrazione di massa tenutasi in Cina in occasione dell’assassinio di Martin Luther King Jr., nella quale Robert Williams e Vicki Garvin figuravano tra i principali oratori. A detta della Garvin, “milioni di manifestanti cinesi” marciarono sotto una pioggia battente denunciando il razzismo americano (50). Parlando della rivolta causata dall’assassinio di King, Mao caratterizzava queste insurrezioni urbane come “un nuovo richiamo rivolto a tutti i popoli sfruttati e oppressi degli Stati Uniti a lottare contro il barbaro dominio della classe capitalista monopolista” (51). Ancor più della sua dichiarazione del 1963, le parole di Mao conferivano alle rivolte urbane un’importanza storica nel contesto delle sollevazioni rivoluzionarie.
Il Black Panther Party
È nel contesto delle ribellioni urbane che alcune correnti del radicalismo nero, incluso il RAM, convergerono dando vita al Black Panther Party for Self Defense a Oakland, California. Forse, le Pantere, furono l’organizzazione nera che più visibilmente promosse il pensiero di Mao Zedong; a detta di alcuni, tuttavia, erano probabilmente meno seri nella lettura degli scritti marxisti, leninisti o maoisti e nello viluppo di un’ideologia rivoluzionaria. Fondato da Huey Newton e Bobby Seale, un ex membro del RAM, il partito andò ben oltre i confini del Merritt College reclutando tra il “lumpenproletariat”. Buona parte della base era impegnata più che altro nella propaganda, e la loro bibbia era “il piccolo libretto rosso”.
Il fatto che le Pantere fossero, perlomeno nella rettorica e nei programmi, marxiste, era una delle cause della disputa con la US Organization di Ron Keranga e altri gruppi da loro liquidati in modo derisorio quali nazionalisti culturali. Ovviamente, le pantere non solo avevano la propria agenda nazionalista culturale, ma anche i cosiddetti nazionalisti culturali non erano un insieme monolitico e uniformemente pro-capitalista. Inoltre, le divisioni tra questi gruppi venivano esacerbate dal COINTELPRO. Tuttavia, vi era una differenza fondamentale tra l’ideologia, sempre in evoluzione, del socialismo e della lotta di classe propugnata dalle Pantere e quella dei gruppi nazionalisti neri, compresi quelli schierati a sinistra. Come ebbe a spiegare Bobby Seale in un intervista del marzo 1969, "Stiamo parlando di socialismo. I nazionalisti culturali affermano che il socialismo non farà niente per noi. È una contraddizione tra il vecchio e il nuovo. I neri non hanno tempo di darsi al razzismo nero e le masse nere non odiano i bianchi solo in ragione del colore della loro pelle… Noi non abbiamo intenzione di comportarci da idioti e sostenere che non vi è alcuna possibilità di allineamento con alcuni sinceri rivoluzionari bianchi, o con altre settori poveri e oppressi di questo paese ben disposti a vedere nel sistema capitalistico ciò di cui ci si deve sbarazzare (52)."
Come le Pantere siano arrivate a tale posizione e le divisioni da essa suscitate nel partito è una lunga e complicata storia che non possiamo affrontare qui. Ai fini di questo articolo, faremo invece alcune brevi osservazioni riguardo all’adozione del pensiero di Mao Zedong da parte del partito, nonché sulla sua posizione circa l’autodeterminazione dei neri. Per Huey Newton, il cui contributo all’ideologia del partito è stato pari solo a quello di Eldridge Cleaver e Gorge Jackson, le fonti del marxismo del Black Panther erano le rivoluzioni Cinese e Cubana, proprio perché la loro analisi si sviluppava a partire dalle rispettive storie e non dalle pagine del Capitale. L’esempio cinese e cubano, secondo Newton, forniva alle Pantere gli strumenti per sviluppare il loro programma, e abbandonare ciò che nella teoria di Marx e Lenin aveva poca o nulla applicazione alla realtà dei neri (53). Di fatto, Malcolm X esercitò un’influenza ideologica decisiva sulle Pantere. 
Eldridge Cleaver era un po’ più esplicito sul ruolo del maoismo, e del pensiero del leader comunista nordcoreano Kim Il Sung, nel rimodellare il marxismo-leninismo a beneficio delle lotte di liberazione nazionale del terzo mondo. In un pamphlet del 1968 intitolato On the Ideology of the Black Panther Party (Parte 1), Cleaver metteva in chiaro che le Pantere erano un partito marxista-leninista, aggiungendo però, come né Marx, né Engels, né Lenin o nessuno dei loro seguaci contemporanei offrisse un punto di vista adeguato alla comprensione e alla lotta al razzismo. Il compito consisteva dunque nell’adottare e modificare ciò che era utile respingendo ciò che era inservibile. “Con la fondazione della Repubblica popolare democratica di Corea nel 1948 e della Repubblica popolare cinese nel 1949” scriveva Cleaver, "qualcosa di nuovo è stata introdotta nel marxismo-leninismo, il quale ha cessato di essere un fenomeno esclusivamente limitato all’Europa. I compagni Kim Il Sung e Mao Tze-Tung hanno applicato i principi classici del marxismo-leninismo alle condizioni specifiche dei loro paesi, trasformando in tal modo questa ideologia in qualcosa di utile per il loro popolo. Ma essi hanno rigettato quella parte dell’analisi che non era di alcun beneficio e che aveva a che fare solo col benessere del’Europa (54)."
Agli occhi di Cleaver, la critica più netta alla cecità del marxismo occidentale riguardo alla questione razziale proveniva da Franz Fanon.
Percependosi come parte di un movimento di liberazione nazionale globale, le Pantere comparavano la comunità nera a una colonia col suo fondamentale diritto all’autodeterminazione. Tuttavia, a differenza di altri gruppi maoisti neri o interrazziali, non proposero mai la secessione o la creazione di uno stato separato. Anzi, descrivere i neri come colonizzati era un modo per sottolineare la natura materiale del razzismo; si trattava più di una metafora che di un concetto analitico. Autodeterminazione significava controllo della comunità sull’ambiente urbano non necessariamente fondazione di una nazione nera (55). In un intervento alla convenzione fondatrice del Peace and Freedom Party del marzo 1968, Cleaver cercava di chiarire il rapporto tra l’unità interrazziale nella rivoluzione americana e la “liberazione nazionale nella colonia nera”. Egli si pronunciava a favore di un approccio duale nel quale, da una parte, radicali neri e bianchi lavorassero insieme al fine di creare una coalizione di organizzazioni rivoluzionarie, oltreché sviluppare quella macchina politica e militare in grado di rovesciare il capitalismo e l’imperialismo. Dall’altra, faceva appello a un referendum, sotto egida ONU, che permettesse ai neri di determinare se desideravano l’integrazione o la separazione. Un simile referendum, sosteneva Cleaver, avrebbe fatto chiarezza tra i neri sull’autodeterminazione, esattamente come la prima ondata di movimenti di indipendenza africani, la quale si trovò a dover optare tra mantenere uno status di domini, sebbene modificato, e la completa indipendenza (56).
Cleaver apparteneva a un’ala del partito più interessata alla guerriglia che alla costruzione di una nuova società o ala difficile lavoro di organizzazione della base. L’interesse per Mao, Kim Il Sung, Guevara e, del resto, anche Fanon era legato ai loro scritti sulla violenza rivoluzionaria e la guerra di popolo. Molti autoproclamatisi teorici delle Pantere erano talmente concentrati nello sviluppare tattiche per affrontare l’imminente rivoluzione da ignorare una buona parte degli scritti di Mao. Riconoscendo il problema, Newton tentò di spostare il partito dall’enfasi sulla guerriglia e la violenza a una discussione più profonda e ricca su quale avrebbe dovuto essere la sua visione del futuro. Poco dopo il suo rilascio dalla prigione, nell’agosto del 1970, propose la creazione di un “istituto ideologico”, i cui partecipanti avrebbero dovuto impegnarsi nella lettura e insegnamento di quelli che egli considerava come “classici” – Marx, Mao e Lenin, così come Aristotele, Platone, Rousseau, Kant, Kierkegaard e Nietzsche. Sfortunatamente l’istituto ideologico non produsse granché; ben pochi membri del partito percepirono l’utilità della teoria astratta o la rilevanza di tali scritti per la rivoluzione. Il fatto che le Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung venissero lette come una sorta di manuale di guerriglia non fu di maggiore aiuto. Anche Fanon veniva letto in maniera selettiva, in particolare, il suo capitolo “Sulla violenza”, figurava tra i prediletti dai militanti. George Jackson contribuì all’enfasi teorica posta dalle Pantere sulla guerra, visto che molti dei suoi scritti, da Soledad Brother (57) a Blood in My Eye (58), si appoggiavano principalmente a Mao per discutere la resistenza armata al fascismo. Gli sforzi finalizzati a una lettura di Marx, Lenin o Mao, che andasse oltre le questioni legate alla ribellione armata non trovarono sempre un pubblico ricettivo tra le Pantere. Sid Lemelle, all’epoca attivista radicale alla California State University di Los Angeles, ricorda di essere stato in contatto con alcune Pantere che si erano unite a un gruppo di studio promosso dalla California Communist League. Le letture, nelle quali era inclusi i Quattro saggi sulla filosofia di Mao e lunghi estratti dalle opere di Lenin, si rivelarono eccessive e finivano in dibatti tempestosi (59).
La parte forse meno letta delle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung, almeno da parte degli uomini, era il capitolo sulle donne. In un periodo nel quale le metafore per la liberazione nera erano sempre più mascolinizzate, e i maschi neri del movimento non solo ignoravano le lotte per l’emancipazione delle donne ma spesso perpetuavano l’oppressione di genere, anche il più marxista dei movimenti nazionalisti neri sminuiva la “questione femminile”. Il Black Panther Party non faceva certo eccezione. Di fatto, fu durante lo stesso storico incontro di SDS nel 1969, nel corso del quale le Pantere invocarono Marx, Lenin e Mao per espellere il PLP a causa delle sue posizioni sulla questione nazionale, che il ministro dell’informazione delle Pantere, Rufus Walls, pronunciò il suo famigerato discorso circa la necessitò di coinvolgere le donne nel movimento poiché esse possedevano il “pussy power”. Chiaramente un ripresa vernacolare del passo di Mao in cui si affermava “Le donne cinesi costituiscono un enorme riserva di forza lavoro. Questa riserva dev’essere valorizzata nella lotta per l’edificazione di un grande paese socialista” (60). La dichiarazione di Walls si rivelò un difesa profondamente antifemminista della partecipazione delle donne.
Malgrado la storia della Cina riguardo la questione femminile sia alquanto triste, il detto di Mao secondo il quale “le donne portano su di loro la metà del cielo”, così come i suoi scritti sull’eguaglianza e partecipazione delle donne al processo rivoluzionario, diedero all’emancipazione delle donne una certa legittimità rivoluzionaria in seno alla sinistra. Naturalmente, il maoismo non diede vita al movimento: le lotte delle donne nella nuova sinistra giocarono il ruolo più importante nell’orientare i movimenti di sinistra verso un’agenda femminista, o quantomeno nel mettere il femminismo all’ordine del giorno. Ma per le donne nere del Black Panther, sospettose rispetto al “femminismo bianco”, le parole di Mao sull’uguaglianza delle donne aprivano uno spazio nel partito dove poter sviluppare un inizio di agenda femminista. Come annunciato dal nuovo ministro dell’informazione delle Pantere, Elaine Brown, in una conferenza stampa al ritorno dalla Cina nel 1971, “il Black Panther Party riconosce la leadership progressista dei nostri compagni cinesi in ogni settore della rivoluzione. In particolare, adottiamo il corretto riconoscimento, da parte della Cina,dello status proprio delle donne come eguale a quello degli uomini” (61).Anche al di là della rettorica, donne nere del Black Panther, come Lynn French, Kathleen Cleaver, Erica Huggins, Akus Njere e Assata Shakur (Joanne Chesimard), portarono avanti la tradizione di ritagliare spazi di libertà nelle organizzazioni esistenti a dominante maschile, al fine di sfidare le molteplici forme di sfruttamento alle quali le donne nere della classe lavoratrice erano sottoposte quotidianamente. Attraverso i programmi delle Pantere per le colazioni gratuite e l’educazione, per esempio, le donne nere idearono strategie attraverso le quali, in varia misura, sfidare il capitalismo, il razzismo e il patriarcato. Alcune afroamericane radicali assursero a posizioni di primo piano e a volte, grazie a loro esempio, contribuirono allo sviluppo di una consapevole e militante prospettiva di classe nera e femminista.
Per certi aspetti, il rafforzarsi di una prospettiva femminista nera di sinistra, consolidata da alcuni slogan maoisti sulla questione femminile, contribuì a modellare le future formazioni maoiste nere. Un esempio ovvio e quello del Black Vanguard Party, un altro gruppo maoista della Bay Area attivo nella metà degli anni Settanta; la sua rivista Juche! difendeva una coerente prospettiva femminista. Michelle Gibbs (anche conosciuta come Michelle Russell, il suo cognome da sposata) promuoveva un’ideologia femminista nera come sostenitrice della League of Revolutionary Black Workers e componente del Black Workers Congress. Alevata in una famiglia comunista, il padre Ted Gibbs aveva combattuto nella Guerra civile spagnola ed era cresciuto in una casa nella quale Paul Robeson e l’artista Elizabeth Catlett erano ospiti occasionali, il punto di vista socialista-femminista della Gibbs derivava dalla sua esperienza politica; dagli scritti delle femministe nere; e da un florilegio di pensatori radicali che andava da Malcolm X, Fanon e Amilcar Cabral a Marx, Lenin e Mao (62). Di converso, l’organizzazione femminista radicale Redstockings, prevalentemente bianca, non solo era influenzata dagli scritti di Mao, ma era anche in un certo senso modellata sul movimento del Black Power, in particolare sulle sue strategie separatiste e la sua identificazione col terzo mondo (63).
Ironicamente, l’identificazione del Black Panther Party con la Cina divenne più profonda nel momento in cui lo status del paese asiatico nella sinistra iniziava a declinare a livello mondiale. La volontà di Mao di ricevere il presidente Nixon e il sostegno della Cina ai governi repressivi di Pakistan e Sri Lanka disilluse molti maoisti negli Stati Uniti e altrove. Ciò nondimeno, Newton ed Elaine Brown non solo visitarono la Cina alla vigilia del viaggio di Nixon, ma annunciarono che il loro ingresso nella politica elettorale traeva ispirazione dall’entrata della Cina nelle Nazioni Unite. Newton affermò che l’evoluzione del Black Panther verso una politica riformista ed elettorale non contraddiceva “l’obiettivo della Cina di rovesciare l’imperialismo Americano, né costituiva un’abiura dei principi rivoluzionari. Si è trattato di una tattica della rivoluzione socialista” (64). Ancor più sorprendente, fu il completo abbandono da parte di Newton dell’idea di autodeterminazione nera, da lui spiegata in termini di sviluppo dell’economia mondiale. Nel 1971 egli sostenne, non senza una certa lungimiranza, che la globalizzazione del capitale rendeva obsoleta l’idea della sovranità nazionale, anche fra i paesi socialisti. In tal modo, le richieste di autodeterminazione da parte dei neri divenivano irrilevanti; la sola strategia praticabile consisteva nella rivoluzione globale. “I neri negli Stati Uniti hanno, oggi più che mai, il compito particolare di abbandonare ogni rivendicazione nazionale. Gli Stati Uniti non sono mai stati il nostro paese; e non vi è, realisticamente, alcun territorio che possiamo reclamare. Fra tutti i popoli oppressi nel mondo, noi ci troviamo nella posizione migliore per ispirare la rivoluzione globale” (65).
Per certi aspetti, la posizione assunta da Newton sulla questione nazionale era più prossima a Mao di quella di molte sedicenti organizzazioni maoiste emerse tra l’inizio e la fine degli anni Settanta. Malgrado le sue dichiarazioni in favore dei movimenti di liberazione nazionale e la “teoria delle rivoluzioni democratiche” di Lin Biao, Mao non sosteneva organizzazioni indipendenti su basi nazionaliste. Per lui il nazionalismo nero era equiparabile al particolarismo etnico/razziale. Egli era, dopotutto, un nazionalista cinese che tentava di unificare contadini e proletari eliminando le divisioni etniche nel suo stesso paese. È utile ricordare la sua dichiarazione del 1957, nella quale domandava che la Cina progressista “aiuti a unire i popoli delle nostre diverse nazionalità… non a dividerli” (66). Allo stesso modo, pur riconoscendo come il razzismo fosse un prodotto del colonialismo e dell’imperialismo, la sua dichiarazione del 1968 insisteva sull’idea che “la contraddizione tra le masse nere degli Stati Uniti e i circoli americani al potere è una contraddizione di classe… le masse nere e quelle dei lavoratori bianchi negli Stati uniti condividono gli stessi interessi e hanno un obiettivo comune per cui lottare” (67). In altre parole, la lotta dei neri era destinata a fondersi col movimento della classe lavoratrice e abbattere il capitalismo.
La nazione nera
Riguardo alla questione della liberazione dei neri, tuttavia, molte organizzazioni maoiste statunitensi, fondate tra l’inizio e la fine degli anni Settanta, traevano ispirazione da Stalin più che da Mao. I neri negli Stati Uniti non erano semplicemente proletari di colore bensì una nazione, o come scrisse Stalin, “una comunità stabile, storicamente formatasi, che ha la sua origine nella comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura” (68). I gruppi anti-revisionisti che abbracciarono la definizione di nazione fornita da Stalin, come il Communist Labour Party (CLP) e la October League, ripresero anche la vecchia posizione del Partito comunista secondo la quale gli afroamericani residenti nelle contee della black belt nel sud costituivano una nazione e avevano diritto di secessione. D’altra parte, gruppi come Progressive Labour – a suo tempo sostenitore del “nazionalismo rivoluzionario” – si mossero verso una posizione che ripudiava qualsiasi forma di nazionalismo a seguito della Rivoluzione culturale.
Il CLP, tra i movimenti anti-revisionisti, era probabilmente il più coerente sostenitore dell’autodeterminazione dei neri. Fondato nel 1968 prevalentemente da afroamericani e latinos, le origini del CLP vanno cercate nel vecchio Provisional Organizing Committee (POC) – esso stesso un prodotto della scissione del 1956 nel CPUSA che portò alla formazione di Hammer and Steel e del Progressive Labour Movement. Devastato da un decennio di divisioni interne, il POC era diventato un’organizzazione principalmente nera e portoricana divisa tra New York e Los Angeles. Nel 1968 i vertici di New York espulsero i loro compagni di Los Angeles a causa, tra le altre cose, del rifiuto da parte di quest’ultimi di condannare Stalin e Mao. A sua volta , il gruppo di Los Angeles, in gran parte sotto l’influenza del veterano marxista nero Nelson Peery, fondò nello stesso anno la California Communist League iniziando a reclutare giovani lavoratori e intellettuali radicali neri e ispanici. La casa di Peery a Los Angeles ben presto divenne una sorta di ritrovo per giovani radicali neri dopo la rivolta di Watts; egli organizzava gruppi di studio informali di storia, economia politica e dei classici del pensiero marxista-leninista-maoista accogliendo ogni sorta di attivisti, dal Black Panther attivisti studenteschi della California State University e del L.A. Community College. La California Communist League successivamente si fuse con un gruppo di militanti di SDS definitosi Marxist-Leninist Workers Association dando vita alla Communist League nel 1970. Due anni dopo il gruppo cambio di nuovo nome in Communist Labour Party (69).
Ad eccezione forse del lungo saggio di Harry Haywood “Towards a Revolutionary Position on the Negro Question” (diffuso inizialmente nel 1957 e ancora in circolazione negli anni Sessanta e Settanta) (70), il pamphlet di Nelson Peery The Negro National Colonial Question (1972), fu probabilmente la difesa dell’autodeterminazione nera più letta nei circoli marxisti-leninisti-maoisti dell’epoca. Peery venne aspramente criticato per la sua difesa del termine “negro”, una posizione difficile da sostenere nel bel mezzo del movimento del Black Power. Ma Peery aveva un buon argomento: l’identità nazionale non era questione di colore. A suo modo di vedere la nazione negra era una comunità evolutasi storicamente e stabile con la sua propria cultura, lingua (o meglio, dialetto) e territorio – gli stati della black belt e le aree circostanti, essenzialmente i tredici stati della vecchia Confederazione. Poiché i bianchi del sud condividevano con gli afroamericani un territorio comune, e a detta di Peery, una lingua e cultura comuni, anch’essi erano considerati parte della “Nazione negra”. Più precisamente, i bianchi del sud costituivano la “minoranza anglo-americana” in seno alla Nazione negra. Come evidenziato dalla musica soul, dagli spiritual e dal rock-and-roll, ciò che era emerso nel sud, insisteva peery, era una robusta cultura ibrida con forti radici africane evidenti nei racconti popolari sulla schiavitù, e nei copricapo delle donne. Peery citava Jimi hendrix e Sly and the Family Stone, così come le imitazioni bianche Al Jolson, Elvis Presley e Tom Jones come esempi di cultura condivisa. Egli vedeva la cultura del “soul” anche “nel costume di mangiare piedi di maiale, ossi di collo, certi tipi di legumi, determinate verdure, tutti associati con le aree del sud, in particolare la Nazione negra” (71).
L’inclusione dei bianchi del sud da parte di Peery come parte della Nazione negra era un colpo di genio, in particolare se si tiene conto del fatto che una delle sue intenzioni era destabilizzare le categorie razziali. Tuttavia, il suo fare affidamento sul concetto di nazione elaborato da Stalin indeboliva il suo argomento. nel momento stesso in cui l’emigrazione di massa e l’urbanizzazione svuotava il sud rurale della sua popolazione nera, Peery insisteva nell’affermare che la black belt costituiva la vera patria dei neri. Egli tentò persino di provare che nella black belt esisteva ancora un contadinato nero e un proletariato rurale stabile. Dato che la questione della terra era la base sulla quale era costruita la sua comprensione della questione dell’autodeterminazione, egli finiva per dire ben poco a proposito della nazionalizzazione dell’industria e della produzione socializzata. Così, nel 1972, poteva scrivere “la questione nazionale e coloniale negra può trovare soluzione solo con la restituzione della terra a coloro che l’hanno lavorata per secoli. Nella Nazione negra, una simile redistribuzione richiederà una combinazione di aziende agricole di stato e cooperative così da rispondere al meglio alle necessità del popolo, il tutto nel contesto di un’agricoltura moderna e meccanizzata” (72).
Il Partito comunista (marxista-leninista) (CP [ML]) promuoveva anch’esso una versione della tesi della black belt, che ereditava da una delle sue prime incarnazioni come October League. Il CP (ML), nacque dalla fusione di October League, con base prevalentemente a Los Angeles, e Georgia Communist League, avvenuta nel 1972 (73). Molti dei suoi membri fondatori provenivano dal Revolutionary Youth Movement (una fazione del SDS), vi era poi una mancata di esponenti della vecchia sinistra come Harry Haywood e Otis Hyde. La presenza di Haywood nelle fila del CP (ML) era assi significativa, essendo considerato uno degli artefici della tesi della black belt originale formulata durante il sesto congresso dell’Internazionale comunista nel 1928. Secondo la definizione aggiornata datane dal CP (ML) gli afroamericani avevano il diritto di secessione “dalla loro patria storica nella black belt del sud” (74). Ma il documento aggiungeva che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione non significava che il gruppo ritenesse la separazione la soluzione più adeguata. Introduceva, inoltre, l’idea dell’autonoma regionale (ossia che le concentrazioni urbane di afroamericani potevano anch’esse esercitare l’autodeterminazione nelle proprie comunità), estendendo lo slogan dell’autodeterminazione ai chicanos, agli americani di origini asiatiche, ai nativi americani e ai popoli indigeni delle colonie statunitensi (Isole del Pacifico, Hawaii, Alaska ecc.). L’organizzazione selezionava quali movimenti nazionalisti supportare, garantendo il proprio appoggio solo al nazionalismo rivoluzionario e non a quello reazionario.
La Revolutionary Union, emanazione della Bay Area Revolutionary Union (BARU) fondata nel 1969 col sostegno di ex membri del CPUSA che avevano visitato la Cina, assunse la posizione secondo la quale i neri costituivano “una nazione oppressa di tipo nuovo” (75). Poiché i neri erano sopratutto lavoratori concentrati nelle aree urbane e industriali (quella che il BARU chiamava “struttura di classe deformata”), il gruppo era convinto che l’autodeterminazione no dovesse prendere la forma della secessione. Invece, essa avrebbe dovuto essere combattuta attraverso la lotta alla discriminazione, lo sfruttamento e la repressione poliziesca nei centri urbani. Nel 1975, quando la Revolutionary Union si trasformò in Revolutionary Communist Party (RCP), abbracciava ancora l’idea che i neri costituissero un nuovo tipo di nazione iniziando, tuttavia, a sostenere “il diritto dei neri a ritornare alla loro patria” (76). Non sorprende che queste due linee contraddittorie creassero confusione, costringendo i leader del RCP ad adottare l’insostenibile posizione di difendere il diritto all’autodeterminazione senza però promuoverlo. Due anni dopo essi abbandonarono completamente il diritto all’autodeterminazione e, come il PLP, dichiararono guerra a ogni forma di nazionalismo.
Diversamente da molte organizzazioni maoiste già menzionate, la Revolutionary Communist League (RCL) – fondata e guidata da Amiri Baraka – crebbe direttamente dai movimenti nazionalisti-culturali della fine degli anni Sessanta. Pe rcomprendere le mutevoli posizioni della RCL (e dei suoi precursori) riguardo alla liberazione dei neri, e necessario ritornare al 1966, quando Baraka fondo la Spirit House a Newark, New Jersey, con l’aiuto di attivisti locali e altri che avevano lavorato con lui al Black Arts Repertory Theater di Harlem. Sebbene gli artisti della Spirit House fossero coinvolti nelle organizzazioni politiche locali sin dal’inizio, la violenza poliziesca di cui furono vittime Baraka e altri attivisti durante la rivolta di Newark nel 1967 li politicizzò ulteriormente. Essi, dopo la rivolta, aiutarono a organizzare una conferenza del Black Power a Newark che attirò numerosi leader nazionalisti neri, tra i quali Stokley Carmichael, H. Rap Brown, Huey P. Newton del Black Panther Party, e Imari Obadele della recentemente fondata Republic of New Africa (in parte emanazione del RAM). Poco dopo, la Spirit House divenne la base del Committee for a Unified Newark (CFUN), una nuova organizzazione composta da United Brothers, Black Community Defense and Development e Sisters of Black Culture. Oltre ad attrarre i nazionalisti neri, mussulmani e anche alcuni marxisti-leninisti-maoisti, il CFUN portava il marchio della US Organization di Ron Keranga. Il CFUN adottò la versione del nazionalismo culturale di Keranga lavorando con lui a stretto contatto. Per quanto vi fossero tensioni crescenti tra Keranga e alcuni attivisti di Newark riguardo al suo atteggiamento verso le donne, nonché sull’organizzazione centralistica del CFUN importata dalla US Organization, il movimentò continuò a svilupparsi. Nel 1970, Baraka rinominò il CFUN come Congress of African Peoples (CAP), trasformandolo in organizzazione nazionale e rompendo con Keranga al suo congresso di fondazione. i vertici del CAP criticarono duramente il nazionalismo culturale di Keranga, facendo passare una rivoluzione che rifletteva una svolta a sinistra – compresa una proposta per raccogliere fondi per aiutare la costruzione della ferrovia Tanzania-Zambia (77).
I fattori che contribuirono alla svolta a sinistra di Baraka furono numerosi. Uno aveva a che fare con la dolorosa esperienza da lui fatta delle limitazioni dei politici neri “piccolo borghesi”. Dopo aver giocato nel 1970 un ruolo di primo piano nell’elezione di Kenneth Gibbons, il primo sindaco nero di Newark, Baraka fu testimone di un incremento della repressione poliziesca (compresi attacchi ai dimostranti del CAP), oltreché del fallimento da parte di Gibbons nel mantenere le promesse fatte alla comunità afroamericana. Sentendosi tradito e disilluso, Baraka ruppe con Gibson nel 1974, senza tuttavia rinunciare del tutto al processo elettorale. La sua partecipazione all’organizzazione della prima National Black Political Assembly, nel 1972, rafforzò ai suoi occhi l’idea di una politica nera indipendente e di un fronte nero unito (78).
Una grande influenza su Baraka vene esercitata dal coordinatore regionale del CLP per la East Coast William Watkins. Nato e cresciuto ad Harlem, Watkins aveva fatto parte di un gruppo di studenti radicali neri della California State University a Los Angels coinvolto nella fondazione della Communist league. Nel 1974 conobbe Baraka. “Abbiamo passato ore nel suo ufficio”, ricorderà in seguito Watkins, “a discutere dei fondamentali – come il plusvalore”. Per circa tre mesi Baraka incontrò regolarmente Watkins, il quale gli insegnò i fondamenti dell’economia politica cercando di mostrargli i limiti del nazionalismo culturale. Questi incontri influenzarono senza dubbio la virata a sinistra di Baraka, ciò nonostante, quando Watkins e Nelson Peery gli chiesero di unirsi al CLP egli rifiutò. Sebbene fosse giunto ad apprezzare il marxismo-leninismo e mao Zedong non era pronto a far parte di un’organizzazione multirazziale. La lotta dei neri rimaneva prioritaria (79).
È corretto affermare che la fonte principale della radicalizzazione di Baraka veniva dall’Africa. Esattamente come la sua prima svolta a sinistra dopo il 1960, suscitata dalla Rivoluzione cubana, la lotta nel sud dell’Africa fu all’origine della virata a sinistra post 1970. L’evento chiave fu la fondazione dell’African Liberation Support Commitee nel 1971. Le sue origini risalivano al gruppo di nazionalisti neri guidati da Owusu Sadaukai, direttore della Malcolm X Liberation University a Greensboro, North Carolina, il quale aveva viaggiato in Mozambico sotto l’egida del Fronte di liberazione del Mozambico (FRELIMO). Il presidente di quest’ultimo, Samora Machel (che tra l’altro era stato in Cina nello stesso periodo di Huey Newton), e altri militanti, convinsero Sadaukai, e i suoi colleghi, che il ruolo più utile per gli afroamericani, in supporto all’anticolonialismo, consisteva nello sfidare il capitalismo americano dall’interno e nel far conoscere al mondo la verità sulla lotta del FRELIMO contro la dominazione portoghese.
L’African Liberation Support Commitee (ALSC) rifletteva l’orientamento radicale dei movimenti di liberazione dell’Africa portoghese. Il 27 maggio del 1972 (anniversario della fondazione dell’Organization of African Unity), l’ALSC tenne la prima manifestazione dell’African Liberation Day (ALD), radunando circa trentamila manifestanti nella sola Washington, D.C., e circa il doppio nel resto degli Stati Uniti. il comitato di coordinamento dell’ALD era costituito da rappresentanti di numerose organizzazioni di sinistra nazionaliste e nere, incluse la Youth Organization for Black Unity (YOBU); All-African People’s Revolutionary Party (AAPRP), guidato da Stokley Carmichael [Kwame Toure]; la Pan-African People’s Organization; e il Black Workers Congress di estrazione maoista (80). poiché l’ALSC metteva insieme una così ampia gamma di attivisti neri, esso divenne una piattaforma di dibattito sulla creazione di un’agenda radicale nera. Sebben molti organizzatori dell’ALSC fossero attivamente antimperialisti, il numero di marxisti neri ai vertici divenne un punto di discordia. A parte Sadaukai, che avrebbe svolto un ruolo di primo piano nella Revolutionary Workers League (RWL) di orientamento maoista, tra i leader dell’ALSC figuravano Nelson Johnson (in seguito dirigente del Communist Worker Party) e Abdul Alkalimat (brillante scrittore e membro fondatore della Revolutionary Union).
A partire dal 1973, l’ALSC fu attraversato da una serie di scissioni. I dissapori interni e il settarismo si rivelarono troppo difficili da gestire, inoltre la politica estera cinese diede il colpo di grazia. L’appoggio cinese all’UNITA, durante la guerra civile in Angola nel 1975, nonché la tesi del vice primo ministro Li Xian-nian per cui il dialogo con i bianchi del Sudafrica sarebbe stato più utile dell’insurrezione armata, pose i maoisti neri dell’ALSC in una difficile posizione. Nel giro di tre anni l’ALSC implose completamente, mettendo fine sfortunatamente all’organizzazione antimperialista più dinamica del decennio.
Ciò nondimeno, l’esperienza di Baraka all’interno dell’ALSC modificò profondamente il suo modo di pensare. Come ricorda nella sua autobiografia, ai tempi della prima African Liberation Day nel 1972, si stava “spostando a sinistra, leggendo Nkrumah, CAbral e Mao”. Nei due anni successivi egli fece appello ai leader del CAP affinché fosse esaminata “l’esperienza rivoluzionaria internazionale [in particolare le rivoluzioni russa e cinese] e integrarle con la pratica della rivoluzione africana” (81). La lista di testi di studiare si espanse arrivando a includere i Quattro saggi sulla filosofia di Mao, i Principi dl leninismo e Storia del partito comunista dell’U.R.S.S di Stalin (82). Dal 1976 il CAP si era disfatto di ogni vestigia di nazionalismo, aveva cambiato il proprio nome in Revolutionary Communist League (RCL) cercando di ricostituirsi come movimento multirazziale marxista-leninista-maoista. Probabilmente al fine di rafforzare i propri ormeggi ideologici come movimento antirevisionista, la RCL seguì la nobile tradizione di resuscitare la tesi della bleck belt. Nel 1977, la RCL pubblicò un articolo intitolato “The Black Nation” (83) nel quale venivano analizzati, da un punto di vista marxista-leninista-maoista, i movimenti di liberazione neri, giungendo alla conclusione che i neri nel sud e nelle grandi città costituivano una nazione dotata del diritto fondamentale all’autodeterminazione. Pur rigettando “l’integrazione borghese”, il saggio sosteneva che la lotta per il potere politico nero era centrale nella battaglia per l’autodeterminazione.
Quale artista profondamente radicato nel movimento artistico nero, Baraka ha costruito costantemente la propria visione politica e culturale sulle contraddizioni della vita di neri sotto il capitalismo, l’imperialismo e il razzismo. Per Baraka, così come per molte altre figure qui discusse, tutto ciò non era una questione di mero nazionalismo. Al contrario, comprendere il posto dell’oppressione razzista e della rivoluzione nera nel contesto del capitalismo e dell’imperialismo era fondamentale per il futuro dell’umanità. Nel solco della tradizione di Du Bois, Fanon e Cruse, Baraka insisteva sul fatto che il proletariato nero (dunque coloniale) rappresentava l’avanguardia della rivoluzione mondiale, “non a causa di una sorta di sciovinismo mistico, bensì a causa del nostro posto da noi oggettivamente occupato nella storia… Siamo l’avanguardia perché siamo più in basso, e quando ci solleveremo, tutto ciò che sta sopra di noi sprofonderà” (84). Non solo, nonostante la sua immersione nella letteratura marxista-leninista-maoista, il suo stesso lavoro culturale suggeriva che fosse consapevole, al pari di molti altri radicali neri, che la questione sul fatto che i neri costituissero o meno una nazione, non sarebbe stata risolta leggendo Lenin e Stalin o resuscitando M. N. Roy. Qualora avesse potuto trovare soluzione, la battaglia si sarebbe svolta, nel bene e nel male, sul piano della cultura. Benché il movimento artistico nero sia stato il veicolo fondamentale per la rivoluzione culturale nera negli Stati Uniti, risulta difficile immaginare cosa sarebbe stata simile rivoluzione senza la Cina. I radicali neri si appropriarono della grande rivoluzione culturale proletaria rimodellandola a propria immagine.
La grande rivoluzione culturale proletaria (nera)
"L’arte per l’arte, l’arte al di sopra delle classi, l’arte al di fuori della politica o indipendente da essa, nella realtà non esiste."
Mao Tse-Tung, “Discorsi pronunciati alla Conferenza di Yenan sulla letteratura e l’arte” (maggio 1942) (85)
Meno di un anno dopo l’inizio della Rivoluzione culturale, Robert Williams pubblicava un articolo sul Crusader intitolato “Reconstitute Afro-American Art to Remold Black Souls” (Ricostruire l’arte afroamericana per rimodellare le anime nere). Laddove l’appello di Mao a disfarsi delle vestigia (culturali e d’altro genere) del vecchio ordine, Williams – non diversamente dal movimento artistico nero negli Stati Uniti – parlava di purgare la cultura nera dalla “mentalità dello schiavo”. Sebbene adottasse in parte il linguaggio del manifesto del Partito comunista cinese (“Decisioni del comitato centrale del partito comunista cinese concernenti la grande rivoluzione culturale proletaria”, pubblicato il 12 agosto 1966 sulla Peking Review), Williams tentava nel suo saggio di basarsi sull’idea più che sull’ideologia della Rivoluzione culturale. Sull’esempio di Mao, egli faceva appello agli artisti neri affinché si liberassero dai ceppi delle vecchie tradizioni mettendo l’arte al servizio della rivoluzione:
"L’artista afroamericano dovrebbe fare un risoluto e cosciente sforzo al fine di ricostituire le nostre forme d’arte così da rimodellare delle nuove, fiere e rivoluzionarie anime nere… Dovrebbe creare una nuova teoria e direzione, e preparare il nostro popolo per una più dura, sanguinaria e prolungata lotta contro la tirannia razzista e lo sfruttamento. L’arte nera dovrebbe servire al meglio gli interessi del popolo nero. Dovrebbe diventare una potente arma nell’arsenale della rivoluzione nera (86)."
I leader del RAM concordavano. Un documento interno del movimento, circolato nel 1967, intitolato Some questions concerning the present period, faceva appello a una rivoluzione culturale nera su larga scala negli Stati Uniti, allo scopo di distruggere gli usi, le attitudini, i modi, i costumi, le filosofie, le abitudini e così via, condizionati dall’oppressione bianca. Il che significava una nuova cultura rivoluzionaria. Significava, inoltre, porre fine ai trattamenti per i capelli, allo schiarimento della pelle e ad altre reliquie della cultura dominante. In effetti, la rivoluzione non prendeva di mira solo i neri borghesi integrati, ma anche barbieri ed estetisti.
La promozione consapevole dell’arte come arma nella liberazione nera non era certo nuova; si può almeno risalire alla sinistra della Harlem Renaissance, se non adiritura più indietro. E il movimento dell arti nere negli Stati Uniti, per non menzionare praticamente ogni movimento contemporaneo di liberazione nazionale, prendeva tale idea estremamente sul serio. Fanon non mancò di sottolineare questo aspetto in I dannati della terra, la cui traduzione in inglese si era diffusa a macchia d’olio in questo periodo (87). Tuttavia, fu la Rivoluzione culturale a giocare il ruolo più importante. Dopotutto, molti, se non la maggioranza dei nazionalisti neri, avevano familiarità con la Cina e avevano letto Mao, e anche se non riconoscevano, o non rendevano esplicita, l’influenza delle idee maoiste sulla necessità di un’arte rivoluzionaria o su quella della natura prolungata della rivoluzione culturale, le analogie erano evidenti. Consideriamo, per esempio, il manifesto di Ron [Maulana] Keranga, “Black Cultural Nationalism”, 1968. pubblicato inizialmente sul Negro Digest, il saggio riprendeva molte idee dai “Discorsi pronunciati alla Conferenza di Yenan sulla letteratura e l’arte” di Mao. Come quest’ultimo, Keranga insisteva affinché ogni arte venisse giudicata in base a due criteri – “artistico” e “sociale” (“politico”); perché l’arte proletaria fosse per le masse; e perché, nelle parole di Keranga stesso, l’arte “dovrebbe essere funzionale, ossia utile, poiché non possiamo accettare la falsa dottrina dell'”arte per l’arte”. Si può percepire l’influenza del maoismo nello sforzo compiuto da Keranga al fine di creare una cultura alternativa e rivoluzionaria. In effetti, i sette principi del Kwanzaa (la festa afroamericana inventata da Keranga e celebrata per la prima volta nel 1967), vale a dire l’unità, autodeterminazione, lavoro collettivo e responsabilità, economia collettiva (socialismo), creatività, obiettivi e persino fede, erano del tutto consonanti con le idee di Mao e la cultura “tradizionale” africana (88). E senza dubbio, non è una coincidenza che questi stessi sette principi siano alla base della celebre Dichiarazione di Arusha del 1964 in Tanzania, sotto la presidenza di Julius Nyerere – essendo il paese africano il primo e più importante alleato della Cina in Africa.
Sebbene il debito di Keranga con Mao fosse largamente sconosciuto, il Progressive Labour Party ne prese nota. Il suo giornale, The Challenge, si lanciò in un duro attacco all’intero movimento delle arti nere e ai suoi teorici intitolato “[LeRoi] Jones-Karenga Hustle: Cultural “Rebels” Foul Us Up”, nel quale si dipingeva Keranga come uno “pseudointelletuale”, il quale “ha letto minuziosamente gli interventi di Mao sulla letteratura e l’arte”. “Il nazionalismo culturale”, proseguiva l’articolo, “non solo venera gli aspetti più reazionari della storia africana. Ma si spinge anche a misurare l’impegno di un rivoluzionario dagli abiti che indossa! Questo fa parte della “coscienza nera” (89).
Ovviamente, la rivoluzione diventava una sorta di arte, o più precisamente, uno stile distinto. Che si abbigliassero afro o in dashiki, o in giaca di pelle e berretto, molti rivoluzionari neri negli Stati Uniti svilupparono i propri criteri estetici. Nel mondo dell’editoria, il “Libretto rosso” di Mao ebbe un enorme impatto sullo stile letterario nei circoli radicali neri. L’idea che un libro tascabile di citazioni concise e aforismi che coprisse un ampio raggio di soggetti, compresi i comportamenti etici, il pensiero e la pratica rivoluzionari, lo sviluppo economico e la filosofia, attirava numerosi attivisti neri a prescindere dall’appartenenza politica. Il “Libretto rosso” spinse un’industria artigianale di libri di citazioni in miniatura espressamente rivolti ai militanti neri. The Black Book, curato da Eearl Ofari Hutchinson (con l’assistenza di Judi Davis) ne è un esempio perfetto (90). Pubblicato dal Radical Education Project (intorno al 1970), The Balck Book includeva una raccolta di brevi citazioni di W. E. B. Du Bois, Malcolm X e Franz Fanon, che coprivano una serie di questioni relative alla rivoluzione interna e mondiale. Le somiglianze con le Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung sono notevoli: i titoli dei capitoli comprendono “la cultura e l’arte nera”, “Politica”, “Imperialismo”, “Socialismo”, “Capitalismo”, “I giovani”, “Il terzo mondo”, “L’Africa”, “Sull’America” e “L’unità dei neri”; l’introduzione di Ofari collocava la lotta dei neri in un contesto globale e faceva appello a un’etica rivoluzionaria, nonché “all’unita spirituale e fisica del terzo mondo”. Ofari, inoltre, aggiungeva che “la vera blackness è uno stile di vita collettivo, un insieme di valori collettivi e una prospettiva comune sul mondo”, il tutto derivante dalle nostre differenti esperienze dell’occidente. The Black Book non era concepito come difesa del nazionalismo nero contro le incursioni del maoismo. Al contrario, Ofari concludeva affermando che “i combattenti per la libertà in tutto il mondo, continuano a leggere il Libretto rosso, ma gli affiancano il LIBRO NERO della rivoluzione. Per vincere la battaglia incombente, entrambi sono indispensabili”.
Un altro popolare testo in questa tradizione fu Axioms of Kwame Nkrumah: Freedom Figthers Edition, pubblicato nel 1969 – un anno dopo l’apparizione per la Casa editrice in linue estere di Pechino della prima edizione inglese delle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung (91). Rilegato in pelle nera e con caratteri in oro, esordiva con una citazione sul frontespizio che voleva sottolineare l’importanza della volontà rivoluzionaria: “Il segreto della vita consiste nel non avere paura”. E ad eccezione del suo concentrarsi sull’Africa, i capitoli erano praticamente indistinguibili dal “Libretto rosso”. I soggetti affrontati comprendevano, “La rivoluzione africana”, “L’esercito”, “Il Black Power”, “Il capitalismo”, “L’imperialismo”, “la milizia popolare”, “Il popolo”, “La propaganda”, “Il socialismo” e “Le donne”. La maggior parte delle citazioni erano vaghe o non andavano al di là dello slogan (“L’idiozia intellettuale più disgustosa mai inventata dall’uomo è quella della superiorità e inferiorità razziali”, o ancora, “Un rivoluzionario fallisce solo se si arrende”) (92). Un gran numero di idee di Nkrumah sarebbero potete venire dalla penna di mao, in particolare le citazioni riguardanti la mobilitazione popolare, il rapporto dialettico tra pensiero e azione, e le questioni relative alla guerra, alla pace e all’imperialismo.
Sulla questione della cultura, molti gruppi maoisti e revisionisti degli Stati Uniti erano meno interessati alla costruzione di una nuova cultura rivoluzionaria, rispetto alla distruzione delle vestigia di quella vecchia, o ad attaccare quella che ritenevano una cultura retrograda, borghese e commerciale. Per questo aspetto, essi si muovevano nel senso indicato dalla grande rivoluzione culturale proletaria. in un’affascinante recensione del film Superfly, pubblicata sul giornale del CP (ML) The Call, l’autore coglieva l’opportunità di criticare il ruolo della controcultura, così come del capitalismo, nel promuovere l’uso delle droghe nella comunità nera. “Guardando a tutte le persone che muoiono per overdose, uccise in scontri a fuoco , fatte a pezzi in incidenti sul lavoro quando son già schiacciati da esso, diviene chiaro quanto la droga sia un’assassina pericolosa al pari di qualsiasi poliziotto armato”. Perché un film destinato alla popolazione nera avrebbe dovuto glorificare la cultura della droga? Perché “gli imperialisti conoscono la cruda verità – se sei fatto, non hai tempo per pensare alla rivoluzione – sei troppo occupato a capire dove protrai procurarti la prossima dose”. La recensione introduceva anche un po’ di storia cinese: "Gli inglesi hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per rendere i cinesi dipendenti [dall’oppio]. Non era raro che i lavoratori si vedessero pagata una parte del salario in oppio, spingendoli ancor più velocemente verso la dipendenza. Solo la rivoluzione poteva sbarazzarsi delle cause di tale miseria. Riprendendosi il loro paese e trasformando la loro società in una che fosse realmente al servizio del popolo, non vi era più alcuna necessità di rifugiarsi nei narcotici (93)"
Gli attacchi dei maoisti non si limitavano agli aspetti più reazionari della cultura commerciale di massa. Il movimento delle arti nere – un movimento che, ironicamente, includeva figure fortemente ispirate dagli sviluppi in Cina e a Cuba – fu oggetto di un minuzioso esame da parte della sinistra antirevisionista. Gruppi come il PLP e i CP (ML), malgrado le divergenze circa la questione nazionale, erano d’accordo sul fatto che il movimento delle arti nere e la sua fascinazione per la cultura africana fossero fuorvianti, se non addirittura controrivoluzionari. Il PLP liquidava i nazionalisti neri come affaristi piccolo borghesi impegnati a vendere gli aspetti più reazionari della cultura africana alle masse e “sfruttare le donne nere – il tutto in nome della “cultura africana” e della rivoluzione”. Lo stesso editorialista del PLP castigava il movimento delle arti nere perché “insegna di re e regine africani, “imperi africani”. No vi è approccio di classe – nessuna menzione al fatto che questi re, ecc., opprimevano le masse popolari africane” (94). Analogamente, un editoriale di The Call del 1973, criticava aspramente il movimento delle arti nere perché “delegittima le sincere aspirazioni nazionali dei neri negli Stati Uniti e… sostituisce la controcultura africana alla lotta antimperialista (95).
Benché questi attacchi fossero in buona parte ingenerosi, specialmente per il modo in cui mettevano nello stesso paniere artisti molto diversi fra loro, alcuni artisti neri erano giunti a conclusioni simili riguardo alla piega presa dal movimento delle arti nere. Per il romanziere John Oliver Killens, la Rivoluzione culturale cinese aveva offerto un modello per trasformare il nazionalismo culturale nero in una forza rivoluzionaria. A seguito dei suoi viaggi in Cina nei primi anni Settanta, Killens pubblicò un importante saggio su The Black World in cui si elogiava la Rivoluzione culturale come un grande successo. Di fatto, egli si era recato in Cina proprio per comprendere perché la Rivoluzione cinese era riuscita “mentre la nostra rivoluzione culturale nera, così fiorente e vivace negli anni Sessanta, sembra morente?” (96). Al momento di rientrare negli Stati Uniti, era giunto ad alcune conclusioni sui limiti della rivoluzione culturale nera e sulla forza del modello maoista. Innanzitutto, riconosceva che ogni rivoluzione coronata da successo doveva essere costante. Secondo, attivismo culturale e politico non rappresentavano due strategie differenti per la liberazione ma due face della stessa medaglia. la rivoluzione culturale e quella politica dovevano andare mano nella mano. Terzo, un movimento rivoluzionari avrebbe dovuto essere indipendente; creare istituzioni culturali autonome. Ovviamente, molti radicali neri nel movimento delle arti nere erano arrivati a tali conclusioni indipendentemente, l’articolo di Killens rafforzò soltanto la lezione. In Cina Killens apprese anche un’altra lezione alla quale pochi attivisti maschi del movimento prestarono attenzione: “le donne sostengono una meta del cielo”. “In alcune fazioni militanti e molto vitali del movimento, alle donne si richiede metaforicamente di “sedere nel retro del bus.”… È un modo di pensare retrogrado e divisivo. Molte donne votano con i piedi raggiungendo il movimento di liberazione femminile. Alcuni fratelli sembrano contrariati e sorpresi. Ma siamo noi ad averle spinte a ciò” (97).
L’altro principale critico, ispirato al maoismo, del nazionalismo culturale del movimento delle arti nere fu Amiri baraka, egli stesso figura centrale della rivoluzione culturale nera, nonché tra i primi obiettivi delle critiche maoiste. Come fondatore e leader del CAP e in seguito della RCL, Baraka fornì qualcosa di più che una critica; egli costruì un movimento che tentava di sintetizzare le innovazioni stilistiche ed estetiche del movimento delle arti nere col pensiero e la prassi marxista-leninista-maoista. Proprio come l’odissea di Baraka dal mondo dei beatniks a quello di Bandung dà un’idea dell’impatto di Mao sul radicalismo nero negli Stati Uniti, altrettanto fa la sua transizione da nazionalista culturale a comunista impegnato. Più di ogni altro maoista o antirevisionista, Baraka e la RCL erano l’epitome degli sforzi più coscienti e costanti per portare la grande rivoluzione culturale proletaria nei quartieri poveri delle città statunitensi, nonché per trasformarla in un modo per rivolgersi alla classe lavoratrice nera.
Provenendo dal movimento delle arti nere di Harlem e dalla Spirit House di Newark, Baraka era prima di tutto un lavoratore culturale. Nel momento in cui lui e il Congress of African Peoples passarono dal nazionalismo culturale al marxismo, una tale profonda mutazione ideologica si manifestò attraverso un cambiamento nella pratica culturale. Rigettando il “primitivo e piccolo borghese nazionalismo culturale nero” in qunato antiscientifico e metafisico, Baraka ammoniva i propri compagni contro “il partito preso che potrebbe spingerci a pensare di poter tornare ad un Africa precedente la tratta degli schiavi, e a una visione romantica del feudalesimo” (98). Il CAP cambiò nome alla sua rivista da black Newark a Unity and Struggle così da riflettere la transizione da una prospettiva nazionalista culturale a una più profonda comprensione “delle esigenze dialettiche della rivoluzione” (99). La Spirit House Movers (la compagnia teatrale del gruppo) prese il nome di African Revolutionary Movers (ARM), e alcuni lavoratori culturali associati alla Spirit House formarono un gruppo di canto chiamato Anti-imperialist Singers. Abbandonarono gli abiti africani al pari delle “pratiche maschiliste scioviniste divenute parte di questo “tradizionalismo africano”, come per esempio tenere corsi di politica separati per uomini e donne” (100),. Inoltre, la festa ufficiale del CAP, nota come “Leo Baraka”, per il compleanno di Baraka, divenne una giornata dedicata allo studio del pensiero marxista-leninista-maoista, alla “questione femminile” e ai problemi della formazione dei quadri (101).
Nel 1976, anno nel quale il CAP riemerse sotto il nome di Revolutionary Communist League, baraka aveva fatto molta strada dai tempi della sua alleanza con Keranga. In un poema contenuto nella sua raccolta Hard Facts, intitolato “Today”, la sua posizione sul nazionalismo culturale a fronte della lotta di classe è netta:
"Truffatori in pelle di leopardo, imbroglioni inturbantati,
capitalisti di colore, sfruttatori neri, giocatori dell’ambasciata afroamericana
si nascondono dietro le ambasciate africane, lottano
per dei biglietti aerei, una guerriglia da ricevimento
la cui sola connessione con un partito è Frankie Crocker.
Fratelli sorelle, dov’è la rivoluzione?
Dov’è la mobilitazione delle masse, guidata
dalle avanguardie della classe lavoratrice?
Dov’è l’unitaria critica dell’unità? L’autocritica
e la critica? Dove sono il lavoro e lo studio?
La chiarezza ideologica? Perché solo pose e posture, soggettive e parziali non-teorie, descrizione di nient’altro che la vostra formazione piccolo borghese
I proverbi neri, “uomo saggio”, forse ti varranno una conferenza,
ma non basteranno per la rivoluzione (102)."
Si potrebbe sostenere che Hard Facts sia stato scritto come una sorta di manifesto marxista-leninista-maoista sull’arte rivoluzionaria. Come il suo ex mentore Keranga, Baraka si ispirava ai “Discorsi pronunciati alla Conferenza di Yenan sulla letteratura e l’arte”, sebbene con fini assai differenti. Nell’introduzione al libro, Baraka sosteneva che gli artisti rivoluzionari dovevano studiare il marxismo-leninismo; produrre opere al servizio del popolo e non degli sfruttatori; sbarazzarsi delle attitudini piccolo borghesi e apprendere dal popolo, acquisire idee ed esperienze da riformulare tramite il marxismo-leninismo. Nessun artista, egli affermava, poteva sottrarsi allo studio e produrre opinioni disconnesso dalla lotta per il socialismo. Come sostenuto da Mao, “attraverso il lavoro creativo degli artisti e scrittori rivoluzionari la materia bruta dell’arte e della letteratura, contenuta nella vita dei popoli, diventano arte e letteratura in una forma ideologia al servizio del popolo” (103).
Baraka cercò di mettere in pratica questo manifesto attraverso un intenso lavoro culturale nella comunità. Uno dei progetti della RCL fu la Anti-imperialist Cultural Union (AICU), un’organizzazione multinazionale di lavoratori culturali con base a New York fondata nei tardi anni Settanta. Nel novembre del 1971 questa stessa organizzazione sponsorizzò il Festival of People’s Culture, attirando circa cinquecento persone per ascoltare lel letture di poesia tenute da Askia Toure, Miguel Algarin, Syvia Jones, così come le performance musicali di un gruppo creato dalla RCL e chiamato Proletarian Ensemble. Attraverso formazioni come quest’ultima o come gli Advanced Workers (un altro ensemble musicale formato dalla RCL), la Revolutionary Communist League diffondeva il proprio messaggio sulla rivoluzione proletaria, l’autodeterminazione nera, oltreché la sua critica al capitalismo, ai gruppi della comunità e alle scuole di New York, Newark e altre città della east coast.
Il teatro sembrava essere la via favorita da Baraka per la rivoluzione culturale proletaria nera. Trai tanti progetti dell’AICU, lo Yenan Theater Workshop chiaramente diffondeva la visione di Mao dell’arte rivoluzionaria. Esso produsse una serie di lavori di Baraka, compresa una memorabile messa in scena di What Was the Lone Ranger’s Relationship to the Means of Production? Dal 1975 al 1976, Baraka scrisse due nuovi lavori teatrali, The Motion of History e S-1, i quali, probabilmente, rappresentavano la più chiara espressione del suo passaggio, nelle sue parole, “dal radicalismo piccolo borghese (e dal suo nazionalismo culturale borghese di più basso livello) all’adozione della scienza della rivoluzione, il pensiero marxista-leninista-maoista” (104).
The Motion of History, è un lungo ed epico dramma che tocca un vastissimo arco di temi, dalla schiavitù alle rivolte degli schiavi, dal capitalismo industriale, ai diritti civili e al Black Power, fino all’immigrazione irlandese e al razzismo bianco. Praticamente ogni rivoluzionario o riformatore coinvolto nella lotta per l’emancipazione dei neri ha un ruolo sulla scena, compresi John Brown, H. Rap Brown, Lénine, Karenga, Harriet Tubman, Denmark Vesey e Nat Turner. Attraverso scene nelle quali i lavoratori discutono di politica in fabbrica o nei gruppi di studio marxisti, il pubblico viene istruito sulla storia dello schiavismo, l’ascesa del capitalismo industriale, l’imperialismo, il plusvalore, la sovrapproduzione relativa e la quotidiana brutalità alla quale sono sottoposti neri e ispanici. Nello spirito della letteratura proletaria, The Motion of History si chiude con una nota di ottimismo e un trascinante incontro nel quale i presenti s’impegnano a costruire un partito rivoluzionario, multirazziale, multietnico e basato sulla classe lavoratrice, ispirato al pensiero marxista-leninista-maoista.
S-1 condivide alcune similarità con The Motion of History, nonostante si concentri prevalentemente su quella che Baraka e la RCL vedevano come l’ascesa del fascismo negli Stati Uniti. Un dramma sui gruppi marxisti-leninisti-maoisti in lotta contro la legislazione anti-sedizione, scritto da Baraka in risposta alla legge Criminal justice Codification, Revision and Reform Act, nota come S-1, la quale autorizzava lo stato a adottare misure estremamente repressive per combattere i movimenti radicali. S-1 concedeva alla polizia e all’FBI una maggiore discrezionalità nel cercare e sequestrare documenti dei gruppi radicali, così come il permesso di intercettare i sospetti per quarantotto ore senza approvazione di un tribunale; suggeriva, inoltre, l’esecuzione per determinati crimini; ristabilliva lo Smith Act, esponendo gruppi o persone sostenitrici della “distruzione del governo” a pene detentive fino a cinquant’anni e ad ammende che potevano raggiungere i 100.000 dollari. L’aspetto più noto della legge era il cosiddetto “Leading Riot”, col quale si autorizzavano i tribunali a condannare chiunque promuovesse assemblee, di almeno cinque persone, miranti a creare “grave danno alla proprietà”, a tre ani di reclusionee a un’ammenda di 100.000 dollari (105).
Non sappiamo come gli attivisti e i lavoratori abbiano risposto ai lavori teatrali di Baraka nel periodo ultra-radicale dell’AICU e della RCL, per di più molti critici culturali li trattano come lavori che non meritano di essere commentati. Al di là di ciò che si può pensare di tali lavori come arte, come propaganda, o entrambi, è notevole pensare al fatto che, nei tardi anni Settanta, un pugno di ragazzi dei quartieri disagiati di Newark potessero assistere a performance che inneggiavano alla rivoluzione negli Stati Uniti, esponendo la rapacità del capitalismo. Tutto ciò nel bel mezzo della cosiddetta generazione del sé, quando non vi era, o almeno così si supponeva, un vera e propria sinistra radicale. (Di fatto, l’elezione di Reagan nel 1980 viene citata come prova della mancanza di una sfida politica da sinistra, nonché quale fonte della breve resurrezione dei partiti marxisti negli Stati Uniti tra il 1980 e il 1985).
Addio a Mao, la festa è finita?
A seconda di dove ci si colloca politicamente, e a fianco di chi, si può facilmente concludere che il maoismo americano è morto insieme a Mao nel 1976. Tuttvia affermare che il maoismo è morto sarebbe troppo sbrigativo. Le organizzazioni maoiste esistno ancora negli Stati Uniti. Il Maoist International Movement mantiene un sito web, così come il Progressive Labour Party (sebbene oggi possa difficilmente essere definito maoista), e il RCP è ubiquo come non mai. Di fatto, vi sono alcune prove che il RCP abbia avuto un ruolo nella stesura del manifesto dei Bloods and Crips a seguito della rivolta di Los Angeles, “Give Us the Hammer and the Nails and We Will Rebuild the City”. L’ex CLP, ora chiamato League of Revolutionaries, ha avuto un grande seguito a Chicago e annovera tra le sue fila veterani radicali come General Baker e Abdul Alkalimat. Ancor più importante, pur riconoscendo che il loro numero è diminuito sostanzialmente dalla metà degli anni Settanta, gli attivisti che sono rimasti in questi movimenti son ancora impegnati nell’emancipazione dei neri, anche se le oro strategie e tattiche si sono rivelate poco sensibili al cambiamento o sbagliate. Chiunque abbia anche una minima conoscenza della politica sa che la campagna presidenziali di Jesse Jackson, nel 1984, venne presa d’assalto da una variegata coalizione di organizzazioni maoiste, e che numerosi gruppi analoghi erano rappresentati nel National Black Indiendent Poitical Party. In altre parole, ora che molti americani liberali si sono accodati all’ostilità contro i neri poveri e la politica dell’affirmative action, sia attivamente che col loro silenzio, alcuni di questi autoproclamati rivoluzionari esprimono ancora la volontà di “smuovere le montagne” al servizio del popolo nero. Il più tragico ed eroico esempio viene da Greensboro, North Carolina, dove cinque membri del Communist Workers Party (ex Workers Viewpoint Organization) vennero assassinati da esponenti del Ku Klux Klan e neonazisti durante una manifestazione contro il KKK il 3 novembre 1979.
Riman il fatto, tuttavia, che l’apogeo del maoismo nero è passato. Le ragioni sono svariate, e hanno a che fare col declino complessivo del radicalismo nero, la natura autodistruttiva della politica settaria e le disastrose decisioni di politica estera della Cina riguardo all’Africa e al terzo mondo. Inoltre, moti dei maoisti neri qui ricordati – quantomeno i più onesti – avevano il loro più grande debito intellettuale con Du Bois, Fanon, Malcolm X, Guevara e Cruse. Ciò nonostante, Mao Zedong e la Rivoluzione cinese lasciarono un segno indelebile sulla politica radicale nera – un segno il cui impatto abbiamo solo iniziato a esplorare con questo articolo. In un epoca nella quale un gruppo di paesi non allineati sfidavano la politica binaria determinata dalla Guerra fredda, i nazionalisti africani tentavano di pianificare un futuro post-coloniale, Fidel Castro e un pugno di militanti in mimetica realizzavano l’impossibile, nella quale i ristoranti del sud e i ghetti del nord divenivano teatro di una nuova rivoluzione, la Cina non mancava di occupare il suo posto – quello di nazione “di colore” più potente della terra.
La Cina di Mao, insieme alla Rivoluzione cubana e al nazionalismo africano, internazionalizzarono profondamente la rivoluzione nera. Mao fornì ai radicali neri un modello di marxismo non occidentale, il quale poneva in grande risalto le condizioni locali e le circostanze storiche rispetto ai testi canonici. Il grande balzo in avanti cinese sfidò l’idea secondo la quale la marcia verso il socialismo doveva procedere per stadi, e che era necessario attendere si presentassero le condizioni oggettive. Per molti giovani radicali, formatisi nella socialdemocrazia studentesca, nella politica antirazzista, nel femminismo o in tutti questi movimenti insieme, la “presa di coscienza” in stile maoista della critica/autocritica, costituiva una potente alternativa alla democrazia borghese. Ma la presa di coscienza era più che semplice propaganda; era un lavoro intellettuale nel contesto della pratica rivoluzionaria. “Tutte le vere cono­scenze provengono dall’esperienza diretta”, affermava Mao nel suo celebre saggio “Sulla pratica” (1937) (106). L’idea che la conoscenza derivasse dalla dialettica tra pratica e teoria dava ai radicali i mezzi per mettere in causa i saperi dei sociologi, psicologi ed economisti, i cui discorsi sulle cause della povertà e del razzismo raramente venivano messi in discussione. In tal modo, in un epoca di tecnocrazia liberale, i maoisti – dai circoli radicali neri al movimento di librazione delle donne – tentarono di ribaltare la nozione borghese di competenza. Essi svilupparono analisi; pubblicarono riviste, giornali, documenti programmatici, pamphlet e libri, e per quanto raramente fossero d’accordo fra di loro, si percepivano come produttori di un nuovo sapere. Erano convinti, come sostenuto da Mao, che “queste idee si trasformano in una forza materiale in grado di cambiare la società e il mondo” (107).
Le idee da sole, tuttavia, non cambiano il mondo. Sono le persone a cambiarlo. E avere le energie e la volontà per farlo richiede molto più di un’analisi corretta e dell’impegno diretto con le masse: richiede fede e volontà. Da questo punto di vista, i maoisti avevano molto in comune con alcune vecchie tradizioni bibliche afroamericane. Dopotutto, se il piccolo Davide ha potuto battere Golia armato solo di una fionda, certamente “una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria” (108).

Note

Gli autori desiderano ringraziare Henry Louis Gates Jr. per aver proposto per primo la redazione di questo articolo, così come Ernest Allen, Harold Cruse, Vicki Garvin, Michael Goldfield, Marc Higbee, Geoffroy Jacques, Sid Lemelle, Josh Lyons, Eric e Liann Mann, David Roediger, Tim Schermerhorn, Akinyele Umoja, Alan Wald, Billy Watkins, Komozi Woodard, e Marilyn Young per le idee, i ricordi e/o i consigli. Infine, vogliamo esprimere la più profonda gratitudine al personale della Tamiment Library della New York University e in particolare a Andrew Lee et Jane Latour.
Crusader 9, n.1, luglio 1967, p.1
The Coup, « Dig it », Kill My Landlord (Wild Pitch Records, 1993).
Mao Tse-Tung, Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung, (Casa editrice in lingue estere Pechino, 1968).
Elaine Brown, A Taste of Freedom (New York: Doubleday Books, 1992), 231-232.
Huey Newton, Revolutionary Suicide (New York: Ballantine Books, 1973), 110.
W.E.B Du Bois, The Autobiography of W.E.B. Du Bois, cur. Herbert Aptheker (New York : International Publishers, 1968), 404.
Di fatto, numerose organizzazioni (ad esempio, Ray O. Light, il Communist Workers Party, il Black Vanguard Party, il Maoist Internationalist Movement, ad infinitum) vengono solo menzionate di passaggio o omesse per mancanza d’informazioni. Va riconosciuto che solo un intero volume potrebbe rendere giustizia a questa storia.
A. Belden, Trotskyism and Maoism : Theory and Practice in France and the United States(New York: Praeger).
L’allegoria contenuta nelle Citazioni dalle opere del presidente Mao Tze-Tung, “Come Yu Kung rimosse le montagne”, instillò uno zelo missionario in molti radicali, zelo che permetteva loro di saltare alla questione della guerriglia come se la rivoluzione fosse imminente. Ovviamente, capitoli del Libretto rosso come “La guerra popolare”, “L’esercito popolare”, “Educazione e addestramento” e “L’eroismo rivoluzionario”, certamente aiutavano a promuovere l’idea che “il potere politico nasce dalla canna del fucile”, a dispetto del fatto che gli sforzi per trapiantare l’esperienza cinese negli Stati Uniti erano in contraddizione con l’argomentazione di Mao per cui ogni rivoluzione deve sfociare dalle proprie circostanze specifiche.
Mao Tse-Tung, Citations, IV.
Mao Tse-Tung, Statement Supporting the American Negroes in Their Just Struggle Against Racial Discrimination in the United States (Peking: Foreign Languages Press, 1963), 2.
John Oliver Killens, Black Man in the New China (Los Angeles: U.S.-China People’s Friendship Assoication, 1976), 10.
Philip Snow, “China and Africa: Consensus and Camouflage,” in Chinese Foreign Policy: Theory and Practice, Thomas W. Robinson and Davis Shambaugh, eds. (New York and Oxford, UK: Clarendon Press, 1994), 285-299.
Fields, Trotskyism and Maoism, p. 213. Silber criticava la politica cinese in Angola dove si trovavano dalla stessa parte del regime dell’apartheid e degli Stati Uniti. La politica estera cinese rappresentava un ostacolo per i maoisti americani, e non solo in Sudafrica: l’accoglienza riservata dalla Cina a Nixon mentre gli Stati uniti bombardavano il Vietnam e sostenevano Pinochet in Cile, sono gli esempi più vistosi.
Mao Tse-Tung, Citations, p. 86.
Revolutionary Action Movement, The World Black Revolution, pamphlet, 1966.
Vertical files on the Provisional Orgaizing Committee, Hammer and Steel, e Progressive Labor Party, Taminent Collection, Bobst Library, New York University.
Amiri Baraka, The Autobiography of LeRoi Jones/Amiri Baraka (New York: Freundlich Books, 1984), 220. Si veda anche Fields, Trotskyism and Maoism, p. 185.
Fields, Trotskyism and Maoism, pp. 185-197. Anche, Jim O’Brien, American Leninism in the 1970s(Somerville, MA: New England Free Press, n.d.).
Van Gosse, Where the Boys Are: Cuba, Cold War America and the Making of a New Left(London: Verso, 1993), 147-148.
Harold Cruse, “Negro Nationalism’s New Wave”, New Leader (1962); ristampato in his Rebellion or Revolution? (New York: Morrow, 1968), 73.
Harold Cruse, “Revolutionary Nationalism and the Afro-American”, Studies on the Left (1962); ristampato nel suo Rebellion or Revolution? (New York: Morrow, 1968), pp. 74-75.
Baraka, The Autobiography, p. 184; si veda Komozi Woodard, A Nation Within a Nation: Amiri Baraka (LeRoi Jones) and Black Power Politics (Chapel Hill: Unicersity of North Carolina Press, 1998), 11-62.
Intervista a Vicki Garvin rilasciata agli autori. Dichiarazione della Garvin non pubblicata e in possesso degli autori.
Vertical file on Vicki Garvin, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
Newton, Revolutionary Suicide, p. 70.
Newton, Revolutionary Suicide, p. 111.
Le fonti utilizzate su Robert Williams sono Robert F. Williams, Negroes with Guns(New York : Marzani and Mumsell, 1962) ; “Robert Williams: Crusader for International Solidarity”,The Black Collegian 8, n. 3, gennaio-Febbraio 1978; e Maxwell C. Stanford, “Revolutionary Action Movement in Western Capitalist Society”, M.A. thesis, Atlanta University, 1986; Timothy B. Tyson, “Robert F. Williams, ‘Black Power’, e the Roots of the African American Freedom Struggle”,Journal of American History 85, n. 2, settembre 1998, pp. 540-570; Marcellus C. Barksdale, “Robert Williams and the indigenous Civil Rights Movement in Monroe, North Carolina, 1961”, Journal of Negro History 69, Primavera 1984, pp. 73-89.
Cruse, Rebellion or Revolution?, p. 74-95.
Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p.75-80.
Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p. 197.
Intervista a Tim Schermerhorm, rilasciata a Betsy Esch.
Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p. 40.
Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p. 91.
Intervista a Ernest Allen, rilasciata a Robin D.G. Kelley.
Citato in Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p. 92.
Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p. 79.
Stanford, “Revolutionary Action Movement”, p. 110.
Mao Tse-Tung, Citazioni, p. 269.
“Intervista: Robert williams” , The Black Scholar 1, n. 7, Maggio 1970, p. 14.
“Revolutionary Action Movement”, General File, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
RAM, The World Black Revolution, p. 5. Richiamando il Manifesto del partito comunista il pamphlet così esordisce: “Una rivoluzione è sul punto di travolgere l’intera Africa, l’Asia, l’America del sud, quella centrale e quella nera”.
Harlem Branch of the Progressive Labor Party, The Plot Against America, pamphlet, 1965, p. 147.
RAM, The World Black Revolution, p. 9.
Sackett, “Plotting a War on Whitey: Extremists Set for Violence”, Life 60, giugno 10, 1966, pp. 100-100B
D. MacDonald, “Politics Black Power”, Esquire 65, October 1967, p. 38, and G. Wills, “Second Civil War”, Esquire 69, Marzo, 1968, pp. 71-78.
Harlem Branch of the Progressive Labor Party, The Plot Against Black America, Vertical File, Tamiment Collection.
Stanford, “Revolutionary Action Movement “, p. 215
Paul Sweezy e Leo Huberman, « The Cultural Revolution in China », Monthly Review, gennaio 1967, p. 17.
Intervista a Vicki Garvin rilasciata agli autori.
Mao Tse-Tung, Statement by comrade Mao Tse-Tung, Chairman of the Central Committee of the Communist Party of China, in Support of the Afro-American Struggle Against Violent Repression, 16 Aprile, 1968 (Peking: Foreign Languages Press, 1968).
Entretien a Bobby Seale del Radical Education Project, “An Introduction to the Black Panther Party”, Ann Arbor, MI: Radical Education Project, 1969), p. 26.
Newton, Revolutionary Suicide, p. 70.
Eldridge Cleaver, On the Ideology of the Black Panther Party, pamphlet, 1968, Black Panther Panther, Organizational File, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
Radical Education Project, “An Introduction to the Black Panther Party”, Ann Arbor, MI: Radical Education Project, 1969), p. 19, 26.
Eldridge Cleaver, “National Liberation in the black Colony”, Black Panther Party, Organizational File, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
George Jackson, Soledad Brother; The Prison Letters of George Jackson (NewYork: Coward-McCann, 1970).
George Jackson, Blood in My Eye (New York: Ramdom House, 1972).
Intervista a Sid Lemelle, rilasciata a Robin D.G. Kelley.
Mao Tse-Dung, Citazioni, p. 312.
Brown, A Taste of Freedom, p. 304.
Intervista a Michelle Gibbs, rilasciata a Robin D.G. Kelley.
Siamo grati a Rosalyn Baxandall per quest’analisi.
Citato in Brown, A Taste of Freedom, p. 313.
Brown, A Taste of Freedom, p. 281.
Mao Tse-Tung, Mao Tse-Tung on Art and Literature (Peking: Foreign Languages Press, 1960), p. 144.
Mao Tse-Tung, Statement by comrade Mao Tse-Tung, Chairman of the Central Committee of the Communist Party of China, in Support of the Afro-American Struggle Against Violent Repression, p. 2.
J. Staline, Il marxismo e la questione nazionale, http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cl/madcqn.htm#a01.
Intervista a Sid Lemelle. Intervista a William Watkins, rilasciate a Robin D.G. Kelley.
Harry Haywood, “Toward a Revolutionary Position on the Negro Question” (mimeo, Provisional Organizing Committee for the Reconstruction of a Marxist-Leninist Party, 1959).
Nelson Peery, The Negro National Colonial Question, pamphlet, 1972.
Peery, The Negro National Colonial Question.
The Communist Party (Marxist-Leninist) and the October League, Vertical Files, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
“The Negro National Question”, il documento ritrovato in Communist Party-Marxist-Leninist Vertical File, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
The Revolutionary Union, Vertical File, Tamiment Collection, Bobst Library, New York University.
Fields, Trotskyism and Maoism, p. 222.
Forward: Journal of Marxism-Leninism-Mao Zedong Thought 3, gennaio 1980, pp. 29-38, Woodard, A Nation Within a Nation, p. 63-254.
Forward, pp. 89-90, Woodard, A Nation Within a Nation, p. 219-254.
Intervista a William Watkins, rilasciata a Robin D.G. Kelley.
Forward, pp. 80-81 ; Rod Bush, We Are Not What We Seem: Black Nationalism and Class Struggle in the American Century (New York: New York University Press, 1999), 211-213; Woodard, A Nation Within a Nation, p. 173-180.
Baraka, The Autobiography, p. 298; Imamu Amiri Baraka, “Revolutionary Party; Revolutionary Ideology” (discorso tenuto al Congress of Afrikan People Midwestern Conference, March 31, 1974), Vertical Files, Tamiment Collection, Bobst Library, New York York University.
Intervista a Komozi Woodard, rilasciata a Robin D.G. Kelley; Forward, p. 100.
Forward, p. 121.
Baraka, « Revolutionary Party », p. 5.
Citato in Mao Tze-Tung, Citazioni, p. 313.
Robert Williams, “Reconstitute Afro-American Art to Remold Black Souls”,Crusader 9, n°1, luglio 1967.
Frantz Fanon, Idannati della terra (Einaudi, 2007).
Ron Karenga, “Black Cultural Nationalism”, in Addidson Gayle, a cura di., the black Aesthetic (Garden City, NY: Anchor Books, 1971), 32.
“Jones-Karenga Hustle: Cultural ‘Rebels’ Foul Us up”, Black Liberation (Articles by the Progressive Labor Party, pamphlet, 1969, p. 47.
Radical Education Project, The Black Book (Ann Arbor, MI: Radical Education Project, ca. 1970).
Kwame Nkrumah, Axioms of Kwame Nkrumah: Freedom Fighters Edition (New York: International Publishers, 1969).
Kwame Nkrumah, Axioms, p. 114.
The Call, settembre 1972, p. 6.
“Jones-Karenga Hustle”
The Call, Septembre 1973, p. 3.
Killens, Black Men in the New China, p. 18.
Killens, Black Men in the New China, p. 19.
Baraka, “Revolutionary Party”, p. 2.
Forward, p. 94.
Forward, pp. 94-95; Baraka, The Autobiography, p. 301.
Baraka, The Autobiography, pp. 89-94, 298.
Amiri Baraka, Hard Facts (New York: Morrow, 1976), 15.
Mao Tse-Tung, “Talks at the Yenan Forum on Art and Literature”, in Art and Literature (Foreign Languages Press, Peking, 1960), 100.
Amiri Baraka, The Motion of History and Other Plays (New York: Williams Morrow, 1978), p. 13-14.
Baraka, The Motion of History and Other Plays.
Mao Tse-Tung, Citazioni.
Mao Tse-Tung, Citazioni. 

Link all’articolo originale in inglese www.columbia.edu

Fonte: Traduzioni Marxiste

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.