La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 settembre 2016

Business penitenziario e insubordinazioni: riflessioni sulle proteste nelle prigioni Usa

di Vincenzo Scalia 
Per comprendere la protesta dei detenuti del Texas attuata il 9 settembre scorso, bisogna mettere in relazione il sistema penitenziario americano con la sua trasformazione in un vero e proprio business privato: sia direttamente, nel senso che costituisce un’occasione di profitto per gli operatori di mercato, sia indirettamente, se consideriamo la sua trasformazioni in un vero e proprio sweatshop, dove i detenuti lavorano come manodopera ipersfruttata, sottopagata e priva di qualsiasi diritto.
Alcuni anni fa, in un testo diventato un classico del neo-liberismo, Anarchia, Stato e Utopia (Le Monnier, Firenze, 1981), il filosofo americano Robert Nozick teorizzava la necessità di tornare a uno stato minimo, che fungesse da “guardiano notturno”, sulla scia di quanto teorizzato dai liberali delle origini e ribadito dagli aedi del libero mercato, come Von Hayek e Friedman. Per sviluppare tutte le potenzialità individuali, sosteneva Nozick, lo Stato deve limitarsi a dettare le regole, senza interferire nella vita sociale e politica. In questa ottica, anche le funzioni statuali che potremmo definire congenite, quali quelle della sicurezza, della difesa e dell’esecuzione penale, andavano privatizzate. Innanzitutto, perché sul piano valoriale, l’esistenza di corpi di polizia, sistemi giudiziari-penali ed eserciti gestiti dall’apparato statale lede il diritto individuale all’auto-difesa. In secondo luogo, perché la creazione, la riproduzione e l’espansione di apparati ingombranti e capillari, comporterebbe per i cittadini un costo che sottrae risorse dal mercato. In terzo luogo, perché un sistema giudiziario-penale e un esercito gestiti dal settore pubblico sottraggono una sfera economica profittevole agli interessi degli operatori economici. Infine, i criteri di efficienza che governerebbero la razionalità di mercato, produrrebbero un funzionamento ottimale di apparati liberati dalle pastoie burocratiche pubbliche.
Sulla scia delle teorizzazioni di Nozick, abbiamo assistito negli ultimi trent’anni allo sviluppo delle polizie private, dei contractors e delle prigioni private, soprattutto negli USA, che svolgono da sempre il ruolo di apripista nel contesto delle politiche neo-liberiste. Riguardo al sistema penitenziario, Nils Christie, già vent’anni fa (Il business penitenziario, Eleuthera, Roma, 1996), aveva messo in luce come la privatizzazione della sfera penale si traducesse verso l’alto in una moltiplicazione dei profitti per i privati, verso il basso in un restringimento dei (pochi) diritti che i detenuti avevano acquisito negli anni precedenti. Nel caso americano, la concatenazione tra profitto e penalità si articola su piani diversi. In primo luogo, la costruzione di una prigione, statale, federale o di contea che sia, costituisce un’occasione di rivitalizzazione di aree depresse: dalle zone tradizionalmente povere del Sud, alle aree colpite dalla chiusura delle industrie pesanti, la realizzazione di un istituto di pena genera un indotto economico non irrilevante, che gli economisti neo-liberali definirebbero circolo virtuoso. La costruzione della struttura, la sua manutenzione, l’impiego di personale addetto, la fornitura di attrezzi del mestiere quali catene, manette, braccialetti elettronici, l’arredamento delle celle, si traducono nella creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro, provocando anche un rovesciamento nella percezione del carcere da parte dell’opinione pubblica. Se, fino ad un trentennio addietro, nessuno voleva ospitare strutture detentive sul proprio territorio, oggi si assiste a vere e proprie competizioni, con tanto di lobbying, tra le contee interessate alla costruzione di nuove prigioni. In secondo luogo, l’espansione del business penitenziario si alimenta della criminalizzazione di fasce sempre più ampie della popolazione, vale a dire gli afro-americani, i migranti indocumentados, l’underclass formatasi tra le pieghe della de-industrializzazione, che ha fatto schizzare la popolazione penitenziaria americana dai 100.000 del 1980 alle oltre 4 milioni di unità attuali. Il numero schizza ulteriormente verso l’alto, oltre i 10 milioni, se aggiungiamo anche le persone in esecuzione penale esterna.
Nell’analizzare le cause della presenza di una massa consistente di popolazione all’interno dell’area penale, la sovrapposizione tra carcere e trasformazioni capitalistiche balza subito agli occhi, rendendo attuali le teorizzazioni di Dario Melossi e del compianto Massimo Pavarini (Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Il Mulino, Bologna, 1977). Detenuti e “affidati” non rappresentano tanto un esercito di riserva, quanto un ulteriore segmento della frammentazione del mercato del lavoro degli ultimi anni. Se le prigioni federali, dove vive un milione di detenuti, lavorano nella direzione della incapacitazione collettiva, vale a dire l’esclusione permanente dei detenuti dal corpo sociale sottoponendoli a condizioni di vita inumane, le prigioni statali e di contea si propongono come veri e propri terminali della delocalizzazione produttiva. Aziende di fama mondiale, come la Levi’s e la TWA, hanno trasferito in alcune carceri del sud degli USA i loro call centers e la loro produzione. Il loro esempio è stato seguito anche da altri imprenditori, avvantaggiati dal disporre di una cospicua fetta di manodopera sottoposta a dura disciplina e non in grado di rivendicare miglioramenti salariali e delle condizioni di lavoro. In particolare, la vigilanza delle carceri affidata a compagnie private, quindi non responsabili davanti ad alcuna autorita’ pubblica del loro operato, consente di aggravare le condizioni di vita e di lavoro, nonché di insabbiare facilmente eventuali abusi sofferti dai detenuti. Infine, la massiccia presenza di migranti clandestini nelle carceri, in particolare in quelle texane, rende questo segmento di popolazione detenuta ulteriormente ricattabile, nonché facilmente reprimibile. La morte di un indocumentado passa facilmente inosservata; la sua presenza non è registrata, l’identità è difficilmente comprovabile, rendendo difficile l’apertura di procedure ispettive da parte degli organi preposti, che già dispongono di poteri limitati in merito.
Lo sciopero delle prigioni texane, alla luce di questi fatti, va considerato come un vero e proprio atto di insubordinazione politica, che mette in discussione quattro livelli del dominio capitalistico contemporaneo: il primo è quello del business penitenziario come articolazione del neo-liberismo che vede le prigioni come un’ulteriore opportunità di profitto a discapito dei diritti della popolazione detenuta. Il secondo è quello dello sfruttamento nudo e crudo della manodopera, sul modello delle fabbriche ottocentesche. Il terzo, è quello del riconoscimento dei diritti della persona trasversalmente alla razza, alla condizione giuridica, all’identità personale. Il quarto ed ultimo livello, concerne il governo delle questioni sociali attraverso l’uso massiccio della risorsa penale nei confronti dei gruppi sociali più marginali.
Il Prison Strike è un primo passo, che non si sa se avrà seguito, e che non è necessariamente esportabile. In Italia, ad esempio, le carceri sono ancora di proprietà statale, il lavoro scarseggia, più della metà della popolazione detenuta si trova reclusa nelle case circondariali. Di conseguenza, risulta più difficile il formarsi di una soggettività trasversale che produca atti di insubordinazione e metta in discussione i rapporti di forza all’interno delle strutture detentive. Tuttavia, l’esperienza texana, invita a esplorare con più forza il nesso tra accumulazione capitalistica e produzione della criminalità, e a lavorare per spezzarlo.

Fonte: commonware.org 

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