La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 settembre 2016

Psicopolitica e potere secondo Byung-Chul Han

di Matteo Moca
In un suo libro precedente, La società della stanchezza, uscito nel 2012, il filosofo Byung-Chul Han sostiene che la società del XXI secolo non conservi più le caratteristiche novecentesche illustrate da Foucault: non si tratta più di una società di tipo disciplinare e controllata da determinate forme di obbedienza e dispositivi ma, piuttosto, l’individuo del nostro secolo è parte di una società di «prestazione», cioè non è nient’altro che un imprenditore di se stesso. Per questo le sofferenze che il soggetto patisce, sono quelle derivate da un livello di competizione sempre altissimo, e quindi incarnate in depressioni, burnout, paura di non essere all’altezza e altre cose simili.
Il suo itinerario filosofico, che oltre a La società della stanchezza conta anche, in italiano, La società della trasparenza e Nello sciame. Visioni del digitale, si arricchisce adesso di un nuovo tassello, che implementa ancora un discorso filosofico impressionantemente contemporaneo – e condotto da una delle poche voci che si salvano dal rumore inutile di molti saggi sull’erosione della libertà –, dal titolo Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, (tradotto da Federica Buongiorno e edito, come tutti i suoi libri in Italia, da Nottetempo).
Individuando nella mutazione di controllo tra il secolo trascorso e il nostro il nocciolo della riflessione sulla psicopolitica, è opportuno, prima di addentrarsi nell’itinerario di Han, fare un passo indietro, e fissare il punto di partenza nella teorizzazione del panottico benthamiano, individuato da Foucault come migliore immagine per la rappresentazione della società della biopolitica. Il modello di carcere (o di fabbrica) di Bentham, quello che permette alle guardie di tenere sotto controllo in ogni momento le persone lì contenute, costituiva l’emblema perfetto di una società nella quale il corpo delle persone presidia l’economia e la società tutta.
Secondo Han, e secondo tutta una scuola di filosofia che si concentra sul concetto di psicopolitica (Pier Aldo Rovatti in una recensione al volume, scrive di una paternità, o quantomeno un utilizzo consapevole, del filosofo Peter Sloterdijk), tale paradigma oggi non trova più posto e, nella società del terziario avanzato, il veicolo attraverso cui le persone vivono in ogni luogo che abitano, non è più il corpo, bensì la mente.
Questo è il fulcro da cui muove la speculazione di Han in questo breve quanto intenso libro, che segna una continuità rispetto ai precedenti lavori e, nello stesso tempo, uno scatto in avanti notevole sull’argomento: il potere, secondo Han, ha perso il suo carattere più punitivo e dominante e ha cominciato ad insinuarsi nei meccanismi e nei procedimenti emotivi quotidiani, trasformandosi in un potere seduttivo e all’apparenza innocuo rispetto al passato. Il panottico di Bentham era però un progetto solo teorico, lo stesso non si può dire per il panottico del web di oggi, che è invece concreto e funzionante.
«Il soggetto che sfrutta se stesso – scrive Han – porta un campo di lavoro con sé nel quale egli è vittima e carnefice. Come soggetto che si autoespone e che si autosorveglia, egli porta con sé un panottico nel quale è detenuto e guardiano». In questo concetto sta la base sulla quale si regge il ragionamento di Han, che, nel volgere delle pagine, indaga i funzionamenti, i motivi e le conseguenze di un tale dispositivo di potere. Il risultato teorico è molto chiaro, perfettamente accessibile nella scrittura di Han (e nella sua traduzione), sempre piana e concreta: si tratta di una deriva sterile dell’io che a causa del suo essere frenetico, credendosi liberato da una società normativa, in realtà non fa altro che realizzare i bisogni del sistema, con la differenza però che li percepisce come propri desideri, schiavizzando se stesso: «L’io come progetto che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi all’ottimizzazione».
L’analisi di Han è centrata perché parte da una considerazione esatta della società odierna – senza farsi prendere da possibili esagerazioni o facilitazioni – e considera la nostra società come una società «precaria»: in questo tipo di società, il vero “sfruttatore” (per usare il linguaggio di Han), non è il datore di lavoro, ma siamo noi stessi che, incapaci di pensare alla «vita bona», cerchiamo soltanto di migliorare sempre di più la nostra efficienza e la nostra velocità: non è più il capitale a sottomettere le persone ma i progetti di vita che, modulati sulle caratteristiche del tipo di società, richiedono che tutto sia ad esso funzionale e calibrato fin nei minimi dettagli.
Interessante poi il fatto che nota Han, e cioè che anche nel tempo libero siamo schiavi di un simile tipo di pensiero, perché negli allenamenti o attività hobbistiche, c’è sempre un target da raggiungere e soddisfare, un avversario anche ideale da superare, nonché pubblicare i risultati sui social come trofeo da mostrare.
In definitiva quindi, Han indaga uno dei cambiamenti più prorompenti della nostra contemporaneità, la fine del corpo come strumento di produzione e, soprattutto, di sorveglianza e la fine dei luoghi di controllo per come siamo abituati ad immaginarli, cioè gli spazi chiusi come la scuola e l’ufficio. Questa nuova oppressione è derivata da noi stessi e si incarna nei tempi del capitalismo, avverando la visionaria profezia di Walter Benjamin secondo cui «il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito. Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane.
Una terribile coscienza della colpa, che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione».
Le conseguenze di questo culto, che va traslato nel suo tempo storico dalla definizioni di Benjamin e inserito nelle coordinate della modernità, si riversano in primo luogo su quella parte di popolazione più immersa nella contemporaneità, ovvero quello sciame digitale di cui Han ha parlato nel suo libro precedente.
Si tratta del popolo che vive nel mondo dei media digitali e che solo apparentemente condivide pensieri e azioni con la comunità di anonimi individui (scriveva Han che «la massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta»), ma che nella realtà dei fatti compete con loro in una sempiterna ricerca di gradimento.
Questo potere tecnocratico, che si sottrae dalla visibilità e si nasconde nella libertà, che preferisce offrire piuttosto che vietare, che riesce a mimetizzare lo sfruttamento di ogni individuo di se stesso, in ultima analisi, e nella peggiore delle ipotesi di questo libro, spezza i seppur deboli anelli che legano gli individui in relazioni (usando Hegel, studiato e ripresentato da Han, si può parlare di un rischio estinzione della coppia servo-padrone, emblema delle relazioni e della lotta all’interno di esse), rendendo impossibile la creazione di una comunità che possa dire “noi”, una comunità che possa opporre resistenza e non sia solo passiva spettatrice della battaglia dei diritti, non sia solo un numero ma anche un attore.
Gli esiti più angoscianti e inquietanti del discorso di Han, sono quelli lasciati tra le righe, facilmente comprensibili attraverso un ragionamento attento: il «capitalismo delle emozioni» di cui parla il filosofo coreano, è già appannaggio della psicopolitica, il paradigma mimetico che ci fa credere di essere liberi è già in atto, la cancellazione di una memoria comune pure, così come la estenuante battaglia tutti contro tutti.
Il pericolo è quindi grande perché mina alla base il vivere sociale dell’uomo, che si trova oggi sempre impegnato a soddisfare se stesso e a superare il prossimo; è necessario tornare a quelle «piccole virtù» di cui parlava Natalia Ginzburg e ad insegnare, scrive sempre Ginzburg, «non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere».

Fonte: minimaetmoralia.it 

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