La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 22 settembre 2016

Libera concorrenza europea

di Giorgio Mascitelli
Su la repubblica dell’11 settembre, in un articolo di Andrea Tarquini che illustra i risultati delle elezioni politiche croate vinte dal partito nazionalista e conservatore HDZ, e le tensioni crescenti tra Croazia e Serbia relative all’adesione di quest’ultima all’Unione Europea, l’autore riporta la seguente dichiarazione del primo ministro serbo Alexander Vučić, un dichiarato liberalriformista ed europeista, a proposito dei croati: «vogliamo essere loro concorrenti tra europei sul piano dei risultati economici, non delle offese e degli scontri, con Zagabria voglio confronto e concorrenza positivi, non attacchi ostili e frasi offensive».
È una frase molto interessante che, al di là del suo significato nella specifica controversia, contiene implicitamente molte affermazioni ideologiche che illuminano efficacemente aspetti cruciali dell’attuale crisi europea. Infatti Vučić, in quanto leader moderno, europeista e candidato all’entrata nell’Unione, usa un linguaggio – non solo nei toni moderati, ma anche nelle categorie concettuali – adeguato alla sua posizione e omogeneo con quello dei gruppi dirigenti europei. Ovviamente il richiamo alla competizione economica e alla concorrenza, come elemento principale dei rapporti serbocroati, è perfettamente in linea con i valori e la cultura di governo europee.
Insomma, volendo parafrasarlo, Vučić afferma che è inutile rispolverare il vecchio armamentario politico-ideologico, i rancori bellici e le nostalgie per Ante Pavelić, quando il vero terreno di confronto è quello economico tra sistemi paese: ed è su quel campo che la Serbia giocherà la sua rivincita della guerra del 1992-93. Anche mettendo in conto che Vučić possa avere un po’ calcato la mano, in quanto la sua dichiarazione si rivolgeva a un’opinione pubblica serba comprensibilmente irritata per le provocazioni di Zagabria e a sua volta sensibile alle sirene del nazionalismo, mi sembra che definire una simile concezione revanscismo economico non sia del tutto inappropriato. Il problema maggiore è che esso non è certo un’invenzione di Vučić, ma si situa in posizione dominante nel contesto storico e politico contemporaneo.
Infatti è persino superfluo ricordare che per il neoliberismo il rapporto standard tra stati è la competizione, al pari di quello tra individui e di quello tra aziende, e che tale competizione si manifesta in molti modi, per esempio in una gara al ribasso tra nazioni per attirare i capitali, offrendo ai capitalisti le migliori condizioni e ai propri cittadini le peggiori per produrre, come è stato sperimentato negli USA tra gli stati membri dell’Unione.
È però il Foucault del corso sulla Nascita della biopolitica, del 1979, a notare che nella Germania del XX secolo, all’interno dell’etica capitalista, non è più l’arricchimento individuale il segno della benevolenza di Dio, ma quello generale. Quindi la stessa ragione costitutiva della Repubblica Federale è il suo successo economico, visto che «la storia aveva detto di no allo stato tedesco […] sarà l’economia a consentirgli di affermarsi». Nel mondo prima del 1989, in cui la politica estera bloccata dalla guerra fredda e la politica economica di stampo sociale impongono varie forme di cooperazione tra stati e negli stati, all’interno e fuori dell’Unione Europea, questo successo è essenzialmente vissuto come primato del buon governo.
Nel mondo globale neoliberista la competizione tra stati, anche politicamente alleati, diventa la norma; e in Europa spesso le varie forme di competizione economica si innestano su vecchie linee di demarcazione e faglie geopolitiche che, ibernate nel 1945, la fine dei blocchi ha reso di nuovo attive. Quindi mentre la concorrenza, che so, tra Arkansas e Louisiana resta un fatto privo di connotazioni storico-politiche, nel nostro continente che gronda storia diventa oggettivamente una forma di rivincita o un disseppellimento di vecchie ostilità. A questo proposito è indicativo quanto faceva notare Alessandro Dal Lago, commentando su Il manifesto del 16 settembre le elezioni in Germania, e cioè che il partito reazionario tedesco AfD nasce come una scissione all’interno della CDU, in nome di una politica economica più dura contro i paesi della periferia UE, per poi trasformarsi progressivamente in un partito nazionalista e xenofobo di tipo tradizionale. Così il primato della Germania viene vissuto, a ragione, come la rivincita delle sconfitte storiche e il ritorno di una politica di potenza, ridestando vecchie paure.
La Germania come paese vittorioso diventa anche il modello per tanti altri piccoli potenziali vincitori e basterà dare un’occhiata a tante dichiarazioni di governanti, specie scandinavi e mitteleuropei, per imbattersi molto spesso in uno stile à laSchäuble. Vučić, come primo ministro dell’ultimo paese che ha conosciuto le durezze delle sconfitta bellica, desidera seguire il modello vincente e tentare questo tipo di rivincita, ma non può stupire che una parte cospicua dei suoi concittadini, alle sottigliezze metafisiche di questo gioco, preferisca Putin che da vecchio reazionario tratta gli alleati da alleati e i nemici da nemici.
Quanto all’Unione europea essa si trova nella situazione pirandelliana di lottare contro questo stato di cose, in quanto organismo politico che cerca l’unità e la cooperazione dell’Europa, e al tempo stesso di promuoverlo, in quanto organo neoliberista del capitalismo. Per quella che è stata la mia formazione giovanile, mi verrebbe voglia di aggiungere che una risata li seppellirà, ma il senso di realtà mi ricorda che sotto le macerie avrò ben poco di cui ridere.

Fonte: Alfabeta2

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