La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 24 settembre 2016

Rallentare per andare più lontano

di Silvia Funaro e Roberto Latella
Percezione del tempo e relazione educativa
I nostri genitori cercavano di risparmiare per garantire a sé e specialmente ai propri figli un futuro migliore: si risparmiavano risorse sul presente per investirle sul futuro. (…) Si procrastinava nel futuro il frutto delle fatiche del presente e del passato. Oggi è molto diverso: attraverso rate, carte di credito, prestiti e altri artifici finanziari spendiamo sul presente i soldi che guadagneremo domani o, meglio, che forse guadagneremo domani, visto il tasso di incertezza del mercato del lavoro. Immoliamo, dunque, tutto il nostro potenziale futuro sull’altare del presente, tempo principe del consumo e del mercato.
L’attuale crisi finanziaria ci parla anche di questi comportamenti di consumo, di un mercato avido e impaziente di assorbire oggi ogni risorsa possibile perché del doman non c’è certezza. Il legame tra questo habitus mentale e la dimensione di radicale incertezza nella quale siamo chiamati a vivere, la “società liquida” come la chiama Bauman[1], è piuttosto evidente. Se non possiamo programmare o “costruire” il futuro tanto vale puntare tutto sul presente, anche quello che non abbiamo. Siamo diventati tutti giocatori d’azzardo senza averne la stoffa e la lucidità necessaria e ne paghiamo lo scotto anche sul terreno delle forme del disagio esistenziali, come dimostrano i dati crescenti delle sindromi da crisi di panico e il consumo massiccio di ansiolitici e antidepressivi.
Ma dal nostro punto di vista di educatori, che in molti casi lavorano con gli adolescenti e i preadolescenti, ci domandiamo: come si può vivere l’età dell’incertezza per antonomasia, l’adolescenza, nell’epoca delle incertezze?E come possiamo chiedere ai nostri giovani di progettare futuro se la nostra società sembra averlo cancellato dal vocabolario, o quanto meno sembra esserne altamente disinteressata[2]? Le strategie dei giovani, in particolare, sono spesso schiacciate e dimensionate sul presente e su di esso appaiono assolutamente efficaci; tuttavia, se vengono lette attraverso la lente del futuro, anche prossimo, perdono di senso in molti casi, come avviene per le strategie devianti o di visibilità estrema.
La vittima sacrificale di questa situazione è il progetto di vita, la dimensione della trasformazione sociale e del cambiamento che ha bisogno di futuro per essere immaginato. Ma se qualcuno ha rapito il futuro, che senso ha fare progetti? Carpe Diem recitava un film degli anni Novanta[3], strategia tanto trasgressiva negli anni passati (il “vogliamo tutto e subito” del ’68) quanto normalizzante e banale nei nostri giorni. Ma come si può fare solidarietà senza futuro, come articolare legami sociali e mutualità, senza un forte respiro progettuale? Come si può investire sulla propria crescita, sulle proprie competenze e sul proprio potenziale in queste condizioni? Chi può pensare ad attrezzare i propri sogni per la loro realizzazione? Come possono le attuali generazioni di adolescenti svolgere il necessario ruolo di spinta alla trasformazione sociale verso la società adulta?
Eppure: ”Ogni processo educativo può dirsi tale quando l’educazione sottrae la possibilità alla situazione, il futuro al presente e li riorganizza in un racconto di sé che ci collochi nel fluire del tempo”[4]. Spesso, invece, gli adolescenti e i preadolescenti con cui lavoriamo sentono forte il senso di impotenza che proviene dall’essere chiusi in un destino sociale che, letto a una sola dimensione, nel presente, appare davvero ineluttabile.
Mario Pollo individua nella capacità progettuale l’essenza stessa del processo educativo:
“L’educazione può essere considerata la possibilità della progettualità umana. Il luogo che consente alla persona di divenire consapevole delle potenzialità di cui è portatrice e dei percorsi che consentono la loro attuazione”[5].
Appare chiaro come il processo educativo diventi immediatamente un elemento in controtendenza con l’attuale contesto socioeconomico se ha bisogno di dispiegarsi all’interno di una cornice cronologica ampia e di declinare una capacità progettuale autonoma. Ovviamente parliamo qui di una particolare accezione della relazione educativa che fà proprio un approccio maieutico, inteso come processo di valorizzazione e facilitazione, che accompagna e cerca di aiutare a dare forma alle le spinte interne dell’educando. Allora, la nostra filosofia educativa si misura con la capacità di recuperare lo spazio del passato e del futuro alla percezione sociale, per poter educare alla scelta.
Per fare questo, come dicevamo, non abbiamo bisogno solo di futuro, ma anche di passato. Il progetto di vita si distende nel futuro, ma si nutre del passato, dell’esperienza di vita della persona che costruisce la sua identità. (…) Parliamo della ricostruzione della memoria collettiva delle comunità, dei luoghi e delle persone che il ragazzo conosce, della memoria come esperienza soggettiva che lascia traccia nelle persone, che può essere rideclinata nella percezione di ognuno di noi, perché rileggere da un altro punto di vista la propria storia significa darsi una nuova opportunità per il proprio cambiamento futuro.
Una caratteristica del nostro lavoro educativo extrascolastico è quella di svolgersi nei contesti della quotidianità, attraverso una relazione informale, praticamente senza un setting definito (parliamo di centri di aggregazione, ludoteche, educative di strada, laboratori territoriali, ecc.); questo, da una parte ci pone una difficoltà in più sul terreno del rapporto tra tempo e relazione educativa, perché la quotidianità è per eccellenza il tempo del presente, dall’altra ci offre una grande opportunità, perché la conquista di una dimensione progettuale negli ambiti dei contesti di socializzazione dei ragazzi, con il gruppo dei pari e nel territorio, diventa immediatamente aderente alle culture dei gruppi adolescenziali, contamina i diversi mondi vitali e non è circoscrivibile in un ambito specifico, come quello scolastico (…).
Un esempio di come si possa traguardare la fugacità del presente è l’attività ormai consolidata della nostra pratica educativa di progettare con i ragazzi scambi internazionali, immettendo nello spazio delle vita quotidiana una prospettiva temporale sul futuro, legata alla realizzazione del progetto, che al momento dell’attuazione rappresenterà un elemento di forte rottura del contesto quotidiano, grazie all’incontro ed alla contaminazione con nuove culture, nuovi sguardi.
Allo stesso modo, il coinvolgimento costante dei ragazzi nella programmazione di attività territoriali assume questa valenza o anche il lavoro con la musica, molto diffuso nei centri di aggregazione giovanile, che permette di recuperare l’evoluzione nel tempo degli stili musicali.
Paradossalmente, tutto questo viene spesso messo in crisi da una carenza di programmazione nel tempo del mondo adulto, allorché gli enti locali prorogano i servizi di anno in anno o per pochi mesi, aumentando nei ragazzi il senso di incertezza…
Rallentare
“Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza… invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada” Franco Cassano[6]
Un’altra declinazione possibile del tempo ha a che fare con i termini lento e veloce e ci pone il problema dell’organizzazione dei tempi nella vita sociale e lavorativa. Anche da questo punto di vista ci confrontiamo con una cultura che estremizza una di queste polarità. Il ritmo della vita sociale ci appare sempre più convulso e sincopato, molto spesso non abbiamo la sensazione di scegliere noi il ritmo della nostra vita, ma di esserne travolti. La vita sociale d’altra parte è lo specchio di un’accelerazione generale dei tempi sul terreno dei cambiamenti tecnologici, storici e del mercato dei consumi. Se pensiamo a quanto è cambiata la nostra vita quotidiana solo negli ultimi dieci-quindici anni con l’avvento dei telefonini, di internet e con una tecnologia che ha cicli vitali sempre più brevi prima di diventare obsoleta (…).
Spesso, anche i bambini vengono stressati dentro tempi sempre più concitati dalle diverse attività e stimoli che vengono loro proposti con il rischio di perdere la capacità riflessiva e l’opportunità di costruire i propri tempi soggettivi di crescita. Viviamo nel “tempo senza attesa” e dell’attesa abbiamo perso il gusto, però, poi ci meravigliamo dell’iperattività e della difficoltà a concentrarsi dei ragazzi. Eppure, spesso, tanto i bambini che gli adolescenti sono resistenti, non si adeguano a questo tempo che ci ingoia; i bambini si trovano ogni tanto raggomitolati nella loro immaginazione, persi nell’osservare qualcosa che agli adulti può sembrare assurdo, estraneo al loro sguardo “funzionale”, così come gli adolescenti ogni tanto ricordano a noi educatori il gusto e l’importanza di perder tempo, davanti a una scuola, a un muretto o a un centro di aggregazione, recuperando tempo per lo scherzo, per lo scambio, per l’intimità e, perché no, qualche volta per il silenzio.
Nel libro La pedagogia della lumaca di Zavalloni[7] è citato il caso esemplare di una bambina che dice alla madre:
“Mamma gli insegnanti ci dicono sempre che dobbiamo sbrigarci, che non possiamo perdere tempo perché dobbiamo andare avanti. Ma mamma dove dobbiamo andare? Ma avanti dove?”. (…)
Ci rendiamo conto che queste parole possono essere scambiate con un vezzo elitario, perché si potrebbe obiettare che nel nostro mondo può andare lento solo “chi se lo può permettere”. Non vorremmo neanche dare l’impressione di voler ricavare una nicchia felice, un Aventino supponente in mezzo a una società che velocemente va a rotoli. Ci rendiamo conto, invece, di abitare una contraddizione: proclamiamo il senso della lentezza, mentre nel nostro lavoro e nelle nostre organizzazioni spesso corriamo e ci stressiamo inseguendo le pressioni e i ritmi esterni, viviamo in una realtà come il terzo settore dove spesso l’organizzazione del lavoro non tiene sufficientemente conto dei tempi di vita delle persone e per quanto ci sforziamo di costruire un modello di relazioni lavorative e umane differenti per tempi e modalità, non sempre ci riusciamo. Ma ciò nondimeno riteniamo di dover offrire un altro ritmo, un altro passo di danza alle nostre relazioni educative, perché nella nostra esperienza non vi può essere un efficace processo educativo senza una pratica riflessiva; una pratica riflessiva con i ragazzi significa darsi i tempi, i luoghi e gli spazi per auto-osservarsi e riflettere insieme, su di noi, sulla relazione e sulla strada da intraprendere, sui cambiamenti e le sensazioni che ci attraversano.
È necessaria, inoltre, una pratica riflessiva tra educatori che ci permetta di riconoscere e riconnettere il senso del nostro lavoro, esplorarne le motivazioni, i vissuti, le paure e raccogliere le sorprese e le emozioni. Una pratica riflessiva, infine, è indispensabile anche nelle nostre organizzazioni perché non divengano fabbriche di prestazioni, ma luoghi di crescita, sperimentazione e ascolto.
Rallentare i ritmi nel lavoro con i ragazzi quando chiediamo loro di valutare le attività svolte, di scegliere una gita a partire dalle esigenze di tutti, quando accompagniamo nella relazione i loro dubbi di vita è per noi un “lusso” necessario”.Siamo allergici alla parola “prestazione” nel lavoro sociale, proprio perché una prestazione presuppone alcune pratiche standard e un tempo dato, mentre i tempi e le forme della relazione non possono che essere co-costruiti insieme con i ragazzi.
Rallentando è possibile vedere le cose da un altro punto di vista, rallentando non ci si perde nessuno (o è più difficile farlo), rallentando è più facile praticare per l’educatore e l’educando la cura del sé nella relazione che è alla base di un processo di crescita. A bassa velocità si ascolta meglio l’altro. Ma la cosa più sorprendente, che molte organizzazioni stanno scoprendo e imparando, è che perdendo tempo si guadagna tempo, si usa meglio il tempo, si sceglie meglio la strada, si motivano i viaggiatori e paradossalmente alla fine si va più lontani. Il tempo veloce, inoltre, è un tempo individuale mentre il tempo lento è più facilmente un tempo condiviso e collettivo. Un vecchio proverbio africano recita: “Se vuoi andare veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai con gli altri”. (…)
Riti e riappropriazione del tempo
Le società tradizionali, o se preferite le società a più basso livello di complessità, sono dense di momenti rituali, esperienze simboliche e riti di passaggio. In particolare molti di questi momenti sono rivolti proprio ai membri della comunità in età evolutiva. Le festività ricorrenti, le abitudini, i riti quotidiani che danno il ritmo alla giornata sono particolarmente importanti per i più piccoli e, per altro verso, per gli anziani; strutturano e definiscono la nostra vita, contengono le nostre ansie. Il rito è qualcosa che ci da il segno che le cose vanno avanti… malgrado tutto. Ma in particolare le culture hanno sempre strutturato i riti simbolici di passaggio da un’età all’altra con particolare attenzione per il passaggio all’età adulta; il giovane ha bisogno di capire quando avrà oltrepassato la linea simbolica che certifica un cambio di aspettative nei suoi confronti, l’essere visto come adulto, la piena cittadinanza da una parte e la piena responsabilità dall’altra. Non a caso non solo la struttura culturale della maggior parte delle società prevede una serie di riti di passaggio legati all’età, ma anche una serie di riti religiosi.
Per un adolescente (nelle società dove è presente l’adolescenza) sapere che prima o poi ci sarà un rito che lo consegnerà all’età adulta gli offre una certezza nel mare agitato della sua età, gli offre un traguardo e un percorso su cui stare, gli offre infine un’immagine di sé adulto che gli permette di costruire progettualità e immaginazione. Per altro verso se osserviamo i comportamenti di un bambino piccolo, impegnato a strutturare e dare ordine al suo mondo interiore, vedremo la necessità di costruire ricorrenze e rituali simbolici. (…). I riti e i simboli sonodunque spesso il ponte tra il nostro mondo interiore e il mondo esterno; talvolta li potremo percepire come invadenti e soffocanti, ma nello stesso tempo in molti casi ci sono necessari per orientarci, contenere la nostra ansia, dare senso al nostro percorso di vita.
“Le comunità non esercitano più la sapiente ripetizione di alcune certezze che accompagnano la crescita… riti di passaggio e iniziazione graduati per età e un percorso di prove vere e tuttavia protette, di vita e di sfide nel mezzo dell’infanzia e dell’adolescenza, le liturgie prese seriamente e condivise dalla comunità e dal gruppo dei pari di età, i gesti replicati secondo ritmi rallentati lungo le giornate, le settimane, i mesi, le festività e l’ascolto di storie e memorie raccontate, la vita simbolicamente segnata lungo il tempo circolare fatto di ripetizioni confortanti e da parte di persone di generazioni diverse”[8].
I nostri adolescenti orfani di riti di passaggio codificati e condivisi sono lasciati in balia dei riti del consumo e del mercato (ad esempio la conquista del primo telefonino), unici riti riconoscibili. Tendono cosi a costruire in proprio riti di iniziazione che gli permettano un passaggio definito ed evidente almeno nel gruppo dei pari da un’età all’altra. Alle volte questi riti assumono la forma di pratiche sociali estreme ad alta intensità di drammatizzazione e per questo sufficientemente forti e visibili. Pensiamo invece ad esempio ai riti di fuoriuscita dall’adolescenza delle generazioni precedenti (il matrimonio, l’entrata nel mondo del lavoro, la nascita dei figli, il militare) ormai più o meno tutti eliminati, diluiti o destrutturati nei tempi e nelle forme attuali e quindi incapaci di indicare il limite tra le due condizioni. Ma l’esigenza di capire come e quando (e se?) uscirò da una condizione incerta e complessa come l’adolescenza rimane. La ritualità e la simbologia spesso esasperata è presente in molti comportamenti e culture giovanili: da quelle del tifo calcistico, a fenomeni come quello dei writerssino alle aggregazioni intorno a mode e consumi di gruppo o a fenomeni come i “lucchetti” a Ponte Milvio; e ci raccontano della necessità di costruire attraverso i riti dei “pezzi di identità” e appartenenza necessari. Con la differenza però che i riti fatti in casa dai giovani sono riconoscibili solo all’interno del mondo giovanile, e spesso neanche in tutto (…). La dimensione rituale e simbolica all’interno del processo educativo riveste dunque una grande importanza, non ci nascondiamo, malgrado quanto detto sin ora, la condizione di ambiguità di questo tema: la ritualità può essere un’opportunità di strutturare la propria identità e il proprio progetto, ma anche una catena che ci tiene inchiodati a una presunta tradizione esterna alla nostra soggettività; il simbolo può essere occasione di costruzione di processi di emancipazione collettiva ma anche elemento omologante. (…). Nella nostra pratica educativa viene data effettivamente una grande importanza alla dimensione rituale: pensiamo agli inizi, “l’inaugurazione di un nuovo centro di aggregazione”, l’attenzione per l’inizio di un laboratorio o di unweek-end, le ricorrenze, le feste che si ripetono ogni anno[9] o in alcuni momenti dell’anno. Anche nell’attività ordinaria e nella strutturazione della quotidianità sembrerebbe esserci un’attenzione a questa dimensione (…). Siamo consapevoli che i rituali e i simboli rappresentano per i ragazzi con cui lavoriamo qualcosa di simile alle briciole lasciate da Pollicino nel bosco per ritrovare la strada, segni fragili come le briciole appunto, ma comunque segni, che costruiscono la premessa per non perdersi. Per altro verso sappiamo anche che se i bambini sanno tornare a casa sanno poi anche andare avanti nel bosco e, perché no, scoprire anche nuovi boschi. In questo senso il rituale se costruito in una pratica condivisa e consapevole è un modo per riappropriarsi del proprio tempo e delle proprie scelte. Siamo padroni di un territorio perché sappiamo padroneggiare i segni per riconoscerlo, siamo padroni del nostro tempo quando ne riconosciamo i segni ricorrenti, i riti appunto.
Sul piano educativo diventa fondamentale la capacità di autocostruzione di riti e simboli, perché i riti e le abitudini non diventino catene estranee alle nostre scelte. (…)

Note
1. Vedi Z. Bauman; La modernità liquida, Laterza Editore 2006
2. Pensiamo all’atteggiamento miope, tutto costruito sul presente delle politiche ambientali relative al riscaldamento del pianeta
3. L’attimo fuggente Regia Peter Weir (1989)
4. V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, Erickson 2006
5. M. Pollo, Animazione sociale n.3/2007: L’educazione come mestiere possibile
6. In G. Zavalloni: La pedagogia della lumaca, Emi 2008
7. G. Zavalloni: La pedagogia della lumaca, Emi 2008
8. Ajello A.M., Di Cori P. Marchetti L. Pontecorvo C. , Rossi Doria M: La Scuola deve cambiare Napoli, Ed. L’ancora 2002
9. Vedi capitolo 6 La cassetta degli attrezzi

Fonte: comune-info.net 

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