La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 9 dicembre 2016

Le scommesse della post-democrazia

di Fausto Pellecchia
Nella crisi della democrazia che stiamo vivendo, l’adesione politica ai partiti e agli schieramenti che muovono la macchina elettorale, sta diventando sempre più cieca e ideologica - nel significato tecnico di “falsa coscienza” introdotto dal marxismo. Anche grazie alla manipolazione promossa dagli opinion maker della grande stampa, fede politica e tifo calcistico mostrano inquietanti analogie. Se, ad esempio, la Juventus, da un anno all’altro, cambiasse tutti i suoi calciatori e il trainer (eventualità che il calcio-mercato ha reso tutt’altro che impossibile), adottando peraltro il modulo di gioco della Roma, non per questo i tifosi romanisti passerebbero alla Juventus né quelli della Juventus alla squadra capitolina.
Il fascino della divisa sportiva, la viscerale fedeltà emotiva per i colori del “cuore” (il giallo-rosso vs il bianco-nero), al di là degli uomini che di volta in volta li indossano, costituiscono il discrimine univoco e irrinunciabile della tifoseria degli stadi. Analogamente, la differenza tra destra e sinistra, per segmenti sempre più ampi dell’elettorato, sembra ormai dipendere soltanto dai simboli di partito e dai topoi della retorica comunicativa dei loro leader. 
Per questo, l’analisi del confronto democratico diventa sempre più simile alla tecnica di valutazione delle scommesse calcistiche. L’essenziale è azzeccare il pronostico: puntare sulla “squadra” favorita. Il guaio è che, in assenza di argomenti razionalmente fondati, l’alea della scommessa rischia di essere enormemente complicata dal fatto che, nel caso delle elezioni (come nelle partite di calcio “truccate”), il comportamento degli stessi scommettitori determina l’esito dell’evento pronosticato. 
Con magistrale limpidezza, John Maynard Keynes ebbe a illustrare il meccanismo dei mercati finanziari paragonandolo a quello dell’elezione delle miss nei concorsi di bellezza. In Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, il grande economista britannico si serve del parallelo tra agenti del mercato azionario e giudici popolari di un concorso di bellezza indetto tra i lettori di un giornale di grande tiratura. Ai partecipanti del concorso viene chiesto di scegliere le tre donne “più belle” da un insieme di fotografie. Solo i lettori che scelgono la faccia di maggior gradimento, cioè quella più votata dal totale dei partecipanti, avrebbero diritto al premio finale. Mentre la strategia più ingenua, osserva Keynes, suggerirebbe ad ogni partecipante di scegliere le tre facce da lui considerate più belle, la strategia più astuta sarebbe invece quella di indirizzare la scelta su tutt’altro criterio. Per massimizzare le possibilità di vittoria, bisognerebbe prima identificare l’idea di bellezza posseduta dalla maggioranza dei lettori del giornale, e quindi operare una scelta basata sulla propria conoscenza della percezione comune. Ma questa strategia può (e in un certo senso, dovrebbe) essere replicata all’infinito: poiché infatti anche gli altri partecipanti faranno le proprie scelte non in base ai propri gusti, ma in base alla presunzione della percezione collettiva della bellezza, anche la loro scelta, prescindendo dai gusti soggettivi di ciascuno, dovrà indirizzarsi verso quelle donne che presumibilmente soddisfano di più i gusti altrui. Pertanto, conclude Keynes, «non è il caso di scegliere quelle [facce] che, secondo il proprio miglior giudizio, siano veramente le più belle e nemmeno quelle che l'opinione media pensi che siano le più belle. Abbiamo raggiunto il terzo grado, dove impieghiamo la nostra intelligenza per anticipare quella che è l'opinione media intorno a ciò che dovrebbe essere l'opinione media. E ci sono alcuni, credo, che praticano il quarto, il quinto ed ulteriori passi [di questo ragionamento]». Ed è questo scavo nell’autoriflessione potenzialmente infinita dell’opinione media a gettare nell’indeterminatezza il calcolo delle previsioni di voto, quale che sia la raffinatezza dei sondaggi esplorativi di cui ci si serve per indovinarne la composizione. Infine, nella sfera politica, proprio il criterio apparentemente più ingenuo – che azzarda cioè l’indicazione di ciò che si ritiene soggettivamente il progetto migliore per tutti - potrebbe rivelarsi il più congruo e conveniente. Al contrario, il criterio “borsistico”, apparentemente più scaltro, rischia di andare incontro a cocenti disinganni, soprattutto quando gli elementi di conoscenza dell’auto-percezione dell’elettorato si dimostrano insufficienti o fuorvianti. 
Di qui la sorpresa e il malcelato disappunto che ha accompagnano l’analisi del risultato referendario da parte degli opinion leader ( politici, intellettuali, editorialisti, personaggi dello spettacolo e della cultura, ecc.) che si erano lasciati coinvolgere in endorsement pubblicitari alla vigilia del voto. Infatti, i più astuti – che Pascal, da buon intenditore di scommesse “metafisiche”, non avrebbe esitato a definire “semi-abili” (demi-habiles) - non hanno optato per l’alternativa che ritenevano più giusta, e neppure per quella che, in base ai loro criteri, avrebbe incontrato il maggior numero di preferenze dell’opinione media, bensì per quella che avrebbe potuto corrispondere a ciò che l’opinione media suppone che sia più attraente per l’opinione media, ecc. Si sono, dunque, lasciati irretire nella spirale di una cattiva infinità. 
In questa prospettiva, i pronostici elettorali e gli endorsement propagandistici strappati ai personaggi mediatici avranno sempre più a che fare con le stesse degenerazioni del mercato azionario: il mercato elettorale verrà sempre più invaso da analisi “tossiche”, opinioni-derivate e slogan-subprime. Una delle ragioni della bocciatura referendaria di Renzi, al netto dei fallimenti accumulati dalle politiche del suo governo, sta forse nella cieca fede nei “meccanismi di scommessa” che hanno dettato lo stile della sua comunicazione pubblica: il calcolo “speculativo” che, secondo i suggerimenti di Jim Messina, ha improntato la sua campagna referendaria, non è riuscito a dissimulare (né mai lo avrebbe potuto) l’insostenibile, disincantata leggerezza con la quale ha sciorinato la sua mercanzia di promesse e di minacce sull’esito del voto.

Fonte: MicroMega online 

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