La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 4 febbraio 2017

Bauman e l'antinomia dell'Europa unita

di Franco Di Giorgi
Oggi, diceva Zygmunt Bauman, a causa della globalizzazione, di cui si giovano i mercati e il capitalismo globale, l’intero genere umano si trova in una sorta di mondo hobbesiano, dal quale crede tuttavia che si possa uscire facendo leva sul modello che, nonostante tutto, l’Europa ha saputo fornire nella storia, a partire ad esempio dalla politica integrativa già adottata dall’Impero Romano, ossia dall’arte di convivere con il prossimo, con l’altro, con il vicino, con il “più prossimo”, con quell’egghýteron cui Paolo faceva cenno nella Lettera ai Romani.
A tal fine, in L’Europa è un’avventura (Laterza 2004), il sociologo polacco auspica che ci si disponga ad abbandonare il modello della “sovranità westfalica” – vale a dire quello che ancora perdura nell’istituzione dello “Stato-nazione” e che ne La politica perduta (2003) Marco Revelli definisce «paradigma politico della modernità» – per aprirsi a quei «gruppi di popolazioni miste» proposti dalla Arendt sul modello della kantiana allgemeine Vereinigung der Menschheit.
Occorrerebbe dunque, propone lo studioso, superare l’impasse nella quale si trova ancora oggi l’Europa come organo internazionale, e risolvere in qualche modo (ma si è tuttora in corso di sperimentazione) l’antinomia dell’Europa Unita, generatasi tra la «logica dell’arroccamento locale» e la «logica della responsabilità e delle aspirazioni globali» (p. 136). A tale scopo egli suggerisce la traduzione, la diffusione e la conoscenza della letteratura di tutti gli Stati membri, perché in essa, afferma, è contenuta «la parte più pregiata dell’esperienza e del pensiero di ogni nazione dell’Unione Europea» (p. 153).
E ciò forse è vero se, in riferimento a tre dei sei Paesi fondatori dell’Europa Unita (Italia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda, Lussemburgo), oltre al Baudelaire dei Poemetti e al Mazzini della Giovine Europa o a quello dei Doveri dell’uomo, pensiamo anche ad esempio a Christenheit oder Europa di Novalis. In questo testo del 1799 – profondamente influenzato dai Discorsi sulla religione di Friedrich Schleiermacher (saggio coevo a quello novalisiano) – il poeta sassone definisce il protestantesimo e il gesuitismo come due radicalizzazioni religiose europee che più di ogni altra hanno determinato la disgregazione dell’idea unitaria di un’Europa cristiana. Nur die Religion – scrive infatti Novalis – kann Europa wieder aufwecken, «Solo la religione può risvegliare l’Europa e dar sicurezza ai popoli e insediare la Cristianità (..) nel suo antico ufficio di operatrice di pace (in ihr altes friedenstiftenes Amt)», anzi della kantiana ewiger Frieden, della “pace perpetua” (pp. 123, 129).
E non si può negare che, ben al di là ovviamente dello spirito controriformistico, il recente viaggio di papa Bergoglio nella Svezia luterana abbia avuto come idea base il “superamento” (nel senso proprio della Aufhebung hegeliana) di quella frattura. Specie in un’Europa nella quale, con la presenza di truppe Nato nei Paesi Baltici in funzione anti-russa, “sembra” che ci si stia predisponendo non solo per una riedizione del conflitto Usa-Russia con la sua tipica politica di containment e la sua sordida cortina di ferro tra est e ovest, ma anche per una ulteriore contrapposizione, come in una moderna guerra dei Trent’anni, tra gli Paesi europei a favore e quelli contro l’Europa Unita, tra unionisti ed euroscettici.
Senza contare che proprio questa disunione europea, pur generandosi, a detta di qualcuno, per un’Europa “migliore” (è il caso, ad esempio dell’Austria), sta invece determinando e in certi casi anche approfondendo la spaccatura all’interno di ogni singolo Stato membro. Il caso italiano è solo uno, con il suo referendum e il suo revisionismo costituzionale; ma la krisis si va rapidamente diffondendo per l’Europa come una metastasi cancerogena. A far da miccia il tragico fenomeno migratorio, a far da polvere esplosiva il malessere e la rabbia prodotti in un decennio da una crisi economico-finanziaria che non accenna a mollare. E se il problema migratorio, con tutto il suo intollerabile prezzo di morte pagato dai civili, è il risultato delle politiche sbagliate attuate sconsideratamente soprattutto in Medioriente dall’Occidente, a partire almeno dalle “primavere arabe”, è cioè il risultato delle guerre che esso vi ha scatenato per salvaguardare i propri interessi e tutelare i suoi soliti traffici, allora come, se non ancora una volta, come sempre d’altronde, si potrà uscire da questa crisi se non con un’ennesima guerra? Come quella globale, ad esempio, che è già in atto dall’11 settembre 2001?
Malgrado l’auspicio di Novalis e di papa Francesco all’unità cristiana e alla kantiana pace perpetua, lo stesso Pontefice è stato fra i primi nel 2014 a dichiarare apertamente la realtà di una Terza Guerra Mondiale e quindi ad annunciare con ciò stesso il fallimento di quella pace tanto invocata.
[Del tutto inutili, pertanto, da questo punto di vista […] i tre articoli che Kant propone e analizza da una prospettiva a priori nel suo scritto Per la pace perpetua. Vano il monito del filosofo ad uscire dallo stato naturale e ad istituire uno stato legale o civile, uno stato di diritto. Inefficace la modifica che egli apporta all’antica massima Si vis pacem, para bellum con quella più moderna e “illuminista” Si vis pacem, para pacem. Difatti, anziché diminuire, per tutto il Settecento le guerre non faranno che aumentare, in una escalation che pare essere senza fine.
Inutile e vano il richiamo del primo articolo alla costituzione repubblicana, nel quale il capo dello Stato si impegna a rappresentare la volontà generale, ossia quella del popolo, se non altro perché – scrive Kant – ogni uomo è «Augapfel Gottes», la pupilla di Dio (I. Kant, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf , «Per la pace perpetua», in Scritti di filosofia politica, a cura di Dario Faucci, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 101). A tal proposito, rievocando la resistenza e lo sterminio degli Armeni, nel 1915, da parte dei Turchi, ne I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933) Franz Werfel scrive: «Non l’esterminio di tutto un popolo era il peggiore degli orrori, ma l’esterminio della coscienza, in tutto un popolo, della sua discendenza da Dio. La spada di Enver colpendo gli armeni aveva colpito Allàh stesso. Poiché in loro come in tutti gli uomini viveva Allàh, anche se erano infedeli. E chi in una creatura distrugge la dignità, distrugge in essa il Creatore. Questo è l’assassinio di Dio, il peccato, che non sarà perdonato sino alla fine del tempo» (F. Werfel, Die vierzig Tage des Mussa Dagh, trad. it. di C. Baseggio, I quaranta giorni del Mussa Dagh, Corbaccio, Milano 2007, p. 755).
Vano il richiamo del secondo articolo al diritto internazionale fondato sulla federazione di Stati liberi, e l’invito a stipulare non già dei semplici patti di pace (che sono solo armistizi, brevi interruzioni dell’azione belligerante in uno stato continuo di guerra, ove si dà sempre qualcosa come pretesto per ritornare alla guerra), ma a creare e a istituire delle leghe per la pace (Per la pace perpetua, p. 108), tese a creare le condizioni per evitare e per porre termine ad ogni eventuale guerra. Ma la Santa Alleanza, la Società delle Nazioni, l’Organizzazione delle Nazioni Unite non sono forse delle leghe per la pace, e non sono forse state istituite con questo preciso scopo?
Del tutto vano e per certi versi paradossale (soprattutto alla luce di quanto l’umanità apprenderà nel XIX e nel XX secolo e che continua ancora ad imparare nel secolo in corso) la condizione che Kant pone nel terzo articolo per il raggiungimento della pace perpetua, ossia il diritto cosmopolita inteso come universale ospitalità («allegemein Hospitalität»). Kant pensa a un diritto internazionale in un mondo nel quale già si prefigurava la globalizzazione. Ma si è visto cosa hanno prodotto nella storia la colonizzazione, la politica dell’assimilazione e dell’esportazione della democrazia? Infatti, «se per diritto internazionale si intende il diritto alla guerra», allora, dice Kant, gli «uomini che pensano in tal modo hanno la sorte che si meritano», nel senso che si distruggeranno a vicenda andando a cercare così «la pace eterna nella vasta fossa che copre coi loro autori tutti gli orrori della violenza» (Per la pace perpetua, p. 110).
Ad ogni modo, solo a queste condizioni, argomentava Kant, l’umanità potrebbe sperare (il termine che saggiamente usa qui il filosofo non è però hoffen, ‘sperare’, appunto, ma schmeicheln, che si significa ‘lusingare’ e quindi in qualche modo anche ‘ingannare’) di approssimarsi sempre più all’attuazione della pace perpetua («und so zum ewigen Frieden, zu dem man sich in der kontinuierlichen Annhärung zu befinden nur unter dieser Bedingung schmeicheln darf») (Per la pace perpetua, p. 115)]. (Questa parte in parentesi quadre è ripresa dal nostro saggio Et in terra pax (hominibus bonae voluntatis) osservazioni sul Gloria (RV 589) di Antonio Vivaldi, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», gennaio-marzo 2012, n. 1.). Nell’attesa, però, vista la distanza che separa asintoticamente l’umanità da quella ideale pace perpetua, Kant sostiene che anziché di un semplice giorno della memoria, occorrerebbe piuttosto celebrare uno yom kippùr, un giorno dell’espiazione, della kaparàh.
Diciamo però “sembra” a proposito di quella predisposizione alla politica protezionistica e di containment perché dopo la recente elezione di Donald Trump a nuovo presidente degli Stati Uniti d’America e con il delinearsi di un Nuovo Ordine Mondiale, che vede al centro l’asse Mosca-Washington, potrebbe accadere ancora un evento inatteso e paradossale, ossia l’affermazione del tycoon newyorkese come leader in grado di mettere fine all’annoso conflitto tra le due superpotenze.
Tra l’altro, per fare solo un breve inciso, provando ad assecondare l’antica locuzione latina nomen omen, scopriamo che il verbo inglese to trump risulta in tal caso rivelatore, poiché vuol dire vincere una partita a carte giocando una briscola o un atout. Tutto all’opposto del suggerimento baumaniano, teso alla valorizzazione della letteratura europea come condizione per favorire una più profonda Europa Unita, il carico giocato da Trump contro Hillary Clinton è consistito invece nel discredito gettato sulla cultura, considerata come elemento niente affatto indispensabile per attuare una “buona” politica. A proposito delle presidenziali americane, anche Baricco ha colto in questa sbandierata inutilità della cultura uno dei modi più efficaci di presentarsi dell’estremismo: non solo, diremmo, di quello della white supremacy occidentalista, ma anche di quello dell’islamismo fondamentalista. Alla recente forma di duro autoritarismo promosso dal governo turco dopo il “golpe” del 15 luglio si contrappone, ad esempio, il sufismo, l’orientamento mistico islamico che ha proprio nella cultura il suo valore fondamentale al fine di garantire l’equilibrio e quindi la pace. Un orientamento, come sappiamo, condiviso anche da Fethullah Gülen, il pericolo numero uno per Erdogan, che è il neo-alleato di Putin e quindi – per guardare ai possibili sviluppi di quel nascente Nuovo Ordine Mondiale – anche di Trump.
D’altronde, malgrado la critica radicale mossa da Paolo ad ogni razionalismo filosofico, come non cogliere in questa sorprendente vittoria del trumpismo (non solo americano, ovviamente) un riflesso dell’elemento dialettico proprio del protocristianesimo paolino? Un protocristianesimo che, attraverso Lutero e Calvino, a partire dal XVII secolo, con tutto il bagaglio di etica calvinista del lavoro, sbarcherà nei territori americani (considerati una nuova “terra promessa”) assieme al pragmatismo mercantil-protezionista tipico dei coloni inglesi, gettando così le basi per la secessione americana del XVIII secolo e quindi per la nascita della repubblica presidenziale federale degli Stati Uniti d’America.
«Proprio ciò che del mondo è insensato (ta mōrà: la mōría è la stoltezza e la mōrologia è il parlare da stolti) Dio scelse – scrive Paolo – per svergognare (kataischýnêi: aischýnō umiliare, disonorare, screditare) i sapienti, ciò che del mondo è debole (ta asthenḗ: asthéneia, debolezza), per svergognare quello che è forte, ciò che del mondo è ignobile (ta aghenḗ: l’aghéneia indica una nascita oscura) e quello che è disprezzato (ta exuthenēména: da exōthéō, bandire, spingere fuori) scelse Dio» (1 Cor, 1, 26-28).
Seguendo forse questo ragionamento dialettico paolino, a proposito del metodo razionale utilizzato dagli uomini comuni nei Lager nazisti, Hannah Arendt diceva che con la Shoah è accaduto qualcosa che «non doveva succedere»?
Ma se è così, allora sulla scorta di una bella suggestione che traiamo da Umberto Curi, si potrebbe dire che la vittoria di Trump è un evento zweideutig che esprime tutta l’ambiguità dialettica del deinós, ossia di quello «stupore suscitato da qualcosa di imprevisto e di sorprendente», il tremendo, che è al contempo profondamente legato «a uno stato d’animo di sgomento, a una paura che resta inseparabile dallo stupore» (L’apparire del bello, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 94).
Eppure sia l’apostolo delle genti, sia l’Husserl della Krisis e della Lebenswelt, sia l’autrice della Banalità del male, sia i maestri del chassidismo (lo ricordava Wiesel) avevano ben ragione nel nutrire dubbi, per opporre una epoché nei confronti del trionfo delle scienze moderne, «avevano buoni motivi per essere scettici verso l’onnipotenza del razionalismo e della qualità redentrice del progresso» (E. Wiesel, Contro la malinconia. Celebrazione hassidica II (1981), Spirali, Milano 1989, p. 17). Oggi, specialmente oggi, con il trionfo inatteso di tutto ciò che sta dietro al trumpismo e alle conseguenze che esso comporta per il mondo intero, a chi ancora tentennasse ad abbracciare questo sano scetticismo, ci sentiremmo di consigliare una buona cura, un phármakon a base delle opere di Chagall. Oggi, infatti, non solo la cultura, ma, come ricordava Marco Paolini in Ausmerzen (Einaudi, Torino 2012), «le democrazie, le società e lo loro strutture che non sanno stare al passo col mercato [razionalmente globalizzato] sono costi inutili e vanno soppresse, e con essi i benefici. Lamentarsi contro queste logiche – lamenta poi Paolini – oggi non basta più, serve combatterle quotidianamente» (p. 147).
Senza dimenticare – per riprendere il discorso sul viaggio del papa in Svezia e sulla riproposizione della politica del containment – che già durante il primo conflitto mondiale, fu proprio per la paura del germe sovietico che le potenze occidentali organizzarono le armate bianche e una cintura sanitaria. Per costituire la quale l’ingenua repubblica di Weimar istituì i Freikorps. Molti membri di questi Corpi Franchi (cfr. Die Geächteten, I Proscritti di Ernst von Salomon) confluirono nel partito nazista, ai cui folli progetti (ad esempio il “progetto Eutanasia”) aderirono tra i primi i luterani, invasati dalla pedagogia del Drill praticata dagli Hohenzollern prussiani, ossia dai sovrani illuminati del XVIII secolo.
Si veda a proposito di questa pedagogia la risposta che Lutero, riprendendo il primo libro dei Re, dà all’amico Erasmo nel De servo arbitrio, 1525 (è l’anno di Frankenhausen e delle rivolte contadine capeggiate da Thomas Müntzer): «Così, quando Dio dà la vita, lo fa mentre uccide; quando giustifica, lo fa mentre rende colpevoli; quando porta in cielo, lo fa mentre conduce all’inferno; [proprio] come [dice] la Scrittura nel capitolo 2 del libro primo dei Re: “L’eterno fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire» (Claudiana, Torino 1993, p. 121, corsivi nostri). Queste terribili tracce di dialettica biblica, tra l’altro, verranno successivamente seguite, ma solo sul piano poetico, sia da Baudelaire nell’Hymne à la beauté, ossia in uno dei Fleurs du mal, sia da Rilke, all’inizio della sua prima Elegia duinese, in cui si accosta sorprendentemente il bello con il tremendo (Schrechlich). Lo ricordava Curi nel suo saggio sopra citato, suggerendo che la dualità del deinós ha radici nella stessa essenza tremenda della bellezza.
Una riprova di ciò è la risposta che, ne L’amico ritrovato di Fred Uhlman, quattro secoli dopo, nella Stoccarda del 1932, il pastore luterano, guida spirituale di Konradin, interpellato da Hans sulla morte insensata di tre suoi amichetti innocenti, dà a quest’ultimo. Il pastore dirà che il male «era indispensabile per poter apprezzare il bene, così come, senza la bruttezza, non sarebbe esistita la bellezza» (Loesher, Torino 1993, p. 66). Salvatore Natoli ravvisa questa contraddizione anche nella modernità. Secondo lui «la politica in quanto ambisce al bene – pubblico e comune – non può essere disgiunta dal male che spesso rischia di praticare e non di rado in nome del bene» (p. 7); «Tutti gli uomini, infatti, vogliono la pace, ma praticano la guerra e, per giunta, in nome della pace» (Sul male assoluto. Nichilismo e idoli del Novecento, Morcelliana, Brescia, 2006, p. 58). Incoerenza che, come sappiamo, Adorno e Horkheimer avevano colto nell’Aufklärung e nella sua dialettica negativa del tutto inattesa. E ciò nonostante i buoni auspici che nel 1804 Kant vi traeva sulla scorta, dice Lyotard, dell’entusiasmo che egli aveva provato per la rivoluzione francese. Una contraddizione che, circa un secolo e mezzo prima della Dialettica dell’illuminismo, sempre in quell’opera sull’Europa, Novalis aveva rilevato nell’Illuminismo e nel suo organo principale, l’intelletto. Una incongruenza tra l’altro, che lo stesso Paolo di Tarso, nella Lettera ai Romani, aveva individuato nel kat’ánthopon, ossia nella logica umana. Secondo l’apostolo, infatti, il mantenersi in questa logica solo in apparenza garantisce il raggiungimento del bene e l’evitamento della guerra; in realtà essa costringe l’umanità ad allontanarsi continuamente dall’hodós eirénes, dal sentiero della pace. Una deviazione di cui egli aveva già trovato traccia perfino in Isaia, allorché anche questo profeta accennava al dérekh shalòm, al sentiero della pace come una sorta di via parmenidea del non essere, destinata a restare addirittura ignota agli uomini, al pensiero umano. E in ultima analisi, per rifarsi alla Genesi, anche lo stesso Yahweh non si pente forse dei danni provocati dai sodomiti, cioè dalla prima stirpe di uomini da lui creata?
Ad ogni modo, nella Postfazione del 2012 a L’Europa è un’avventura Bauman sottolinea che «la nostra interdipendenza è già globale, mentre i nostri strumenti di azione ed espressione di volontà collettiva rimangono locali e resistono ostinatamente a qualsiasi ampliamento, violazione e/o limitazione» (p. 148). Nel senso che «i pronunciamenti ufficiali dei governi e i sondaggi sulle intenzioni di voto puntano tutti in una direzione, ma le abitudini comuni della vita quotidiana e i lenti ma inesorabili cambiamenti “sotterranei” del contesto e delle logiche di vita sembrerebbero indicare un’altra possibilità» (pp. 157-158). Sembra di capire, dunque, che siano i governi ad esprimere perlomeno l’intenzione di realizzare il sogno, l’utopia o l’«eutopia» dell’Europa unita (così la definisce Laura Boldrini in una intervista rilasciata il 5 febbraio 2016 a Eugenio Scalfari su Repubblica), mentre le abitudini locali facciano resistenza. Da questa doppia e antitetica esigenza si genererebbe il dissidio o l’antinomia tra località e globalità. Analoga per altri versi a quella che Amos Oz coglie alla base della tragedia israelo-palestinese. Oltre a quello offerto dalla Catalogna e dalla Scozia, casi concreti di un siffatto contrasto si possono ravvisare anche in Italia. Ad esempio nella protesta che i balneatori liguri hanno avanzato quest’estate contro una legge del Parlamento europeo (la direttiva Bolkestein), la quale vorrebbe contrastare la gestione privatistica degli arenili. Facendo sventolare a fianco di quella italiana anche la bandiera del Regno Unito, essi intendevano ispirarsi in maniera critica alla recente Brexit per proporre, nel loro piccolo, una Ligurexit. Un altro esempio è quello, ormai classico, dell’indipendentismo locale o macroregionale, posto in evidenza sin dagli anni Novanta dalla Lega con il sogno della Padania libera, e che sembra ora riproporsi con maggiore forza e urgenza dopo la Brexit e all’indomani della vittoria alle presidenziali americane di Donald Trump.
Nei fatti, però, posta soprattutto dinanzi al drammatico problema del nuovo fenomeno migratorio, accade esattamente il contrario, perché è del tutto evidente che la politica concreta, la nuova Realpolitik degli Stati europei (non solo il Regno Unito, ma anche l’Ungheria, la Polonia, l’Austria, la Slovacchia, e in genere quei governi a vocazione anti-europea e mixofobica) è per l’exit anziché per l’entry, ossia per l’esclusione, anzi, per l’auto-esclusione, mentre, a guardare bene, la realtà, la reality ci parla a chiare lettere di inclusione, di mixofilia dice Bauman, di promiscuità, di Mischung, di mescolanza, di meticciato, di quella naturale tendenza, sempre culturalmente o anti-culturalmente negata, alla Idee kantiana e arendtiana di allgemeine Vereinigung di popolazioni miste, a un ideale Mischvolk. Restando sempre in Liguria, capita spesso, infatti, nelle domeniche estive, sin dalle prime ore del mattino, di assistere alla “occupazione” pacifica di un breve tratto di spiaggia pubblica da parte di molta gente di diversa nazionalità. Si tratta di persone provenienti soprattutto dall’est Europa, dall’Indocina, dall’America del sud, ma che da tempo lavorano in Italia e che, quando possono, vengono a trascorrere le vacanze nella Riviera dei fiori. Osservando dall’alto della passeggiata questo gioioso ritrovarsi e riunirsi fra connazionali, accade che qualche vacanziere locale bofonchi qualcosa tra sé e sé o con la propria compagna, mentre altri signori del luogo, guardando ai pesanti borsoni trascinati dai giovani stranieri, ricordino con nostalgia il tempo in cui anche loro, emigrando dal sud, ne caricavano di simili sulle spalle. Anche se non ce n’è affatto bisogno, poi, in mezzo a tutto quel calore e colore festoso si può scorgere qui e là anche qualche vigile o vigilantes, per garantire la sicurezza. Come si è detto poc’anzi, di recente ai lati di queste comunità – policromatiche e simili a un arcobaleno della pace – da alcune spiagge privatizzate si sono viste svolazzare delle bandiere inglesi. Ciò significa in maniera del tutto evidente che mentre le logiche della politica, sia globale sia locale, mirano all’esclusione (Grexit, Brexit, Ligurexit e tra breve, nell’aprile del 2017, dopo un referendum consultivo, avremo forse anche una Venexit, una Repubblica Veneta indipendente), le logiche della realtà o della vita quotidiana – della Lebenswelt – mirano viceversa all’inclusione mixofiliaca (cfr. la nostra lettera a il manifesto, 12 agosto 2016).
Eppure – ricorda opportunamente Bauman – «secondo i calcoli degli storici contemporanei (..) sono stati circa sessanta milioni gli europei emigrati dall’Europa in altri continenti nel corso del XIX secolo e al principio del secolo seguente». Sicché, quanto al fenomeno migratorio, oggi «gli europei si trovano a sperimentarlo nella stessa condizione e nello stesso ruolo che ebbero [ad esempio] nel XVIII e nel XIX secolo gli indiani d’America» (Z. Bauman, Scrivere il futuro, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 29-30). Ora, che il futuro di una tale Europa mixofiliaca non sia ancora ben delineato, non vuol dire altro, secondo il sociologo, se non che il compito storico per realizzarlo, un compito inscritto nella stessa storia europea, attende ancora di essere condotto, e che a condurlo dobbiamo essere noi. «Che il futuro non ci sia dato significa – dice infatti lo studioso – (..) che la storia deve essere fatta». Perché «siamo noi a doverla realizzare» (pp. 40-41). A tal riguardo egli propone due nomi, due esempi del “fare storia”: Václav Havel e Antonio Gramsci. In particolare quest’ultimo, secondo cui «per prevedere la storia dobbiamo unirci, organizzarci. Dobbiamo farla, la storia» (pp. 42-43). Occorrerebbe dunque più solidarietà. Ossia quella capacità, quella necessità per non dire quel desiderio di socializzazione che l’epoca dello smartphone – con le sue esigenze individualistiche e solipsistiche (secondo il principio del divide et impera) – sta riducendo al lumicino. «Quello che serve – aggiunge ancora Bauman a tal proposito – è un’istituzione repubblicana internazionale che operi allo stesso livello dei poteri transnazionali». Quello che serve, dice, riprendendo Alain Gresh, che si rifà a sua volta al Manifesto del Partito Comunista, è insomma «un nuovo internazionalismo» (Z. Bauman, In search of politics (1999), trad. it. di Giovanna Bettini, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 20145, pp. 192-193). A questi due esempi, con particolare riferimento a quello gramsciano, possiamo aggiungerne un terzo, quello di Paul Ricoeur, secondo il quale bisogna compiere l’incompiuto del passato. Fare non solo storia, ma fare la storia (cfr. Ricordare, dimenticare, perdonare (1998), il Mulino, Milano 2004, pp. 35-45).
Ecco dunque il compito che ci attende. Che attende non solo noi Italiani evidentemente, ma l’Europa intera.
Anche Jacques Derrida, peraltro, già nel 1991 – all’indomani del crollo del muro di Berlino e della riunificazione tedesca, della «perestrojka ancora irrisolta e (..) [del]le aspirazioni, legittime, ma talora molto ambigue, alla sovranità nazionale [il riferimento è alle tensioni in Jugoslavia]», tensioni che alimentano un «sentimento di imminenza, di speranza e di minaccia», e quindi anche «l’angoscia davanti alla possibilità di altre guerre dalle forme sconosciute, il ritorno a vecchie forme di fanatismo religioso, di nazionalismo o di razzismo», determinando così «la massima incertezza rispetto alle stesse frontiere dell’Europa» – anche Derrida, dunque, metteva in evidenza il dovere di «aprire l’Europa (..) a ciò che non è, non è mai stato e non sarà mai l’Europa. Lo stesso dovere – osservava il filosofo franco-algerino in una conferenza pronunciata a Torino, il 20 maggio 1990, a pochi mesi da quella Wiedervereinigung (3 ottobre 1990) – ingiunge di accogliere lo straniero non solo per integrarlo, ma anche per riconoscerne e accettarne l’alterità: due concetti di ospitalità che oggi dividono la nostra coscienza europea e nazionale» (cfr. Oggi l’Europa, Garzanti, Milano 1991, pp. 43-44, 51-52).
Alcuni anni dopo, nel 1997, Derrida tornerà nuovamente su questo tema dell’ospitalità, in un testo scritto in forma di intervista: Anne Dufourmantelle invite Jacques Derrida à répondre – De l’hospitalité (Calman-Lévy, Paris). Come Bauman, anche Derrida coglie un’antinomia al fondo della questione dell’ospitalità. La rileva anzitutto come opposizione semantica nel nome stesso: hostis vuol dire sia “ospite” sia “nemico” (p. 63); come antinomia vera e propria tra legge e Costituzione, ossia tra la legge dell’ospitalità e le leggi dell’ospitalità; e quindi anche come contraddizione etico-filosofica (rifacendosi soprattutto al Kant della Critica della ragion pratica) tra ospitalità assoluta o incondizionata e ospitalità condizionata, cioè basata sul diritto (p. 52). Per fornire qualche esempio della incondizionatezza della legge dell’ospitalità, da un lato si rifà proprio all’Idea kantiana, la cui funzione regolativa spinge la ragione a ricercare leggi costituzionali sempre più adeguate a tale Idea: la stimola cioè ad approntare schemi giuridici intermedi (pp. 127-128), forme o interfacce per meglio realizzare una possibile conciliazione tra legge e leggi, tra le esigenze dell’etica e i limiti del diritto. Dall’altro lato, rievocando la kierkegaardiana differenza tra lo stadio etico e lo stadio teologico, Derrida si richiama al testo della Genesi, all’episodio di Lot (Gen. 19, 1-11), il quale per garantire l’ospitalità ai due angeli, ai due stranieri appena giunti a Sodoma, piuttosto che darli in pasto alla violenza dei sodomiti, era disposto persino a sacrificare le sue due figlie, consentendo ad essi di abusarne in cambio di quelli. Un esempio, questo, che fa pensare anche al sacrificio di Isacco da parte del padre Abramo. Perché per Lot, la legge dell’ospitalità, come la fede in Yahweh per Abramo, era al di sopra dell’etica (pp.128-129).

Fonte: Scenari Mimesis 

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