La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 6 gennaio 2016

Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea

di Andrea Pareschi
Che l’Unione Europea non goda di debordante fascino fra i cittadini dei suoi Stati membri appare, per lo meno nell’attuale congiuntura, una certezza. E’ a buon diritto convinzione comune che una spirale di crisi abbia avviluppato e indebolito l’UE. Mentre in passato ai momenti di crisi nel percorso di integrazione europea si sono susseguiti altrettanti momenti di progresso, al giorno d’oggi la perdita di slancio e forza decisionale dell’Europa non sembra poter trovare facili contromisure. Il carattere asimmetrico delle crisi economiche, sociali, politiche e umanitarie che hanno colpito gli Stati dell’Unione ha aggravato le distanze fra il centro economico e le periferie debitrici, fra gli Stati più ansiosi nei confronti della Russia e quelli meno ostili, fra gli Stati che hanno subito ondate di immigrazione e quelli che non vogliono essere coinvolti nella governance del fenomeno migratorio. La centralità dell’UE come attore globale è stata gravemente messa in discussione nella misura in cui la solidarietà interna è venuta meno.
Da questa situazione prende le mosse “Is the EU Doomed?”: un pamphlet scritto nel 2014 da Jan Zielonka, professore di Politiche Europee presso l’Università di Oxford, intitolato nell’edizione italiana “Disintegrazione – Come salvare l’Europa dall’Unione Europea”. La tesi dell’autore è che, pur di fronte a crisi che stanno esacerbando l’inadeguatezza dell’Unione Europea, fino a lasciar presagire che sia destinata ad una futura marginalità, l’integrazione europea in sé e per sé non sia affatto condannata. Non ne trarrebbero però vantaggio politico gli Stati: si assisterebbe invece alla nascita di una pluralità “polifonica” di reti di integrazione a base funzionale e a geometria variabile, cui parteciperebbero anche regioni, metropoli e organizzazioni non governative.
Iniziando con una diagnosi dei guai dell’Europa unita, Zielonka colpisce nel segno dichiarando la crisi attuale come diversa, qualitativamente e per intensità, rispetto a quelle che hanno afflitto la Comunità in passato, il che impedisce un facile ottimismo sulla sua risoluzione. Interpretata come una crisi dell’euro, della Grecia e del debito sovrano, si tratta in realtà di una “crisi di coesione, immaginazione e fiducia”, che non sarà certo debellata da proposte timide e tecniche di riforma dell’Unione o da leader guidati da interessi politici di breve respiro. L’adozione/imposizione di politiche fiscali differenti non è adeguata né ad estirpare culture pre-esistenti di clientelismo e corruzione, né tantomeno a consentire alle economie più deboli di convergere. Le sventure della Grecia sono state causate tanto dalle sue note magagne interne quanto da eventi internazionali al di fuori del suo controllo, che hanno reso lo Stato ellenico e i PIGS “anelli deboli nella catena mal congegnata dell’euro”. Né del resto le differenze economiche tra gli Stati membri possono essere colmate da una politica di coesione insufficiente allo scopo, laddove vere e proprie misure di redistribuzione sarebbero politicamente controverse. In sostanza, l’alto prezzo delle contromisure adottate è stato un drastico indebolimento dei vincoli di solidarietà comunitaria. Non solo, infatti, le autorità nazionali hanno dovuto farsi carico autonomamente del salvataggio dei propri istituti di credito: il fiscal compact (“simbolo di disuguaglianza nell’esercizio del potere legislativo da parte dei Paesi creditori”) contribuisce a inasprire il risanamento di lungo periodo delle economie più deboli; e alcuni compromessi comunitari sono stati intaccati, con una virata verso il metodo intergovernativo e una separazione più netta dell’Eurozona dal resto dell’Unione.
D’altra parte, le cruciali sfide degli ultimi mesi hanno aggravato il problema – e la soluzione comunitaria è stata “marciare sul posto”. Le elezioni europee hanno visto scarsa partecipazione e il consolidamento di una pletora di partiti euroscettici, alcuni dei quali sono risultati vincitori in Paesi quali Gran Bretagna e Francia; e tuttavia sono ascesi ai vertici delle istituzioni comunitarie politici che simboleggiano l’ancien régime europeo. La risposta alla crisi dei rifugiati è stata debole e contraddittoria, con la fine dell’operazione Mare Nostrum e le difficoltà nell’elaborare un piano di quote per l’accoglimento di una quantità peraltro esigua di richiedenti asilo. All’attentato di Charlie Hebdo e, potremmo aggiungere, a quelli del 13 novembre scorso, si è reagito con soluzioni tipicamente nazionali. La crisi ucraina è stata affrontata esclusivamente in modo reattivo (qui per la verità Zielonka si spinge fino a criticare il sostegno troppo scarso dato allo Stato ucraino nei confronti della Russia). Da ultimo, non vi è stato alcun cambio di rotta in materia di austerità nonostante il programma di quantitative easing avviato dalla BCE, mentre la vicenda greca segnala in modo inequivocabile quali Paesi reggano il coltello dalla parte del manico.
Le possibilità di “dis-integrazione” derivano non da scelte intenzionali, bensì dal rischio che gli attori-chiave rifuggano i costi politici necessari al rilancio dell’UE come canale per la soluzione delle questioni più spinose. L’autore, comunque, distingue almeno tre scenari di disintegrazione. Il primo è quello in cui i leader europei perdono il controllo degli eventi a seguito di ulteriori shock esogeni: uno scenario a sostegno del quale, tuttavia, si forniscono più allusioni che non argomenti definiti. Una seconda possibilità è che riforme approvate per salvare la situazione abbiano indesiderati effetti perversi: il fiscal compactpotrebbe spaccare la coesione intra-europea, un’unione più ambiziosa potrebbe aggravare i conflitti che derivano dalla divergenza di interessi, ulteriori riforme ai trattati europei a seguito dei tentativi di rinegoziazione del primo ministro britannico Cameron scatenerebbero disparità di trattamento e un’ondata di referendum nazionali dall’esito incerto. Un terzo scenario, invece, è che l’Unione Europea prosegua nel “tirare avanti alla meno peggio”, il che non farà che affrettare la sua marginalizzazione sostanziale nonostante la sua sopravvivenza formale.
Mentre l’UE non è stata in grado di mantenere le sue promesse più ambiziose – eliminare la politica di potere fra Stati e creare l’economia più competitiva del globo – due suoi problemi stanno emergendo come decisivi. Il primo è l’incapacità di tenere insieme i tre ambiti della crisi: un teatro economico in cui soluzioni realmente europee appaiono tabù, un teatro politico dominato da idiosincrasie nazionali e un teatro istituzionale farraginoso. Il secondo è l’insufficiente legittimazione democratica, che diventa una debolezza nel momento in cui l’Unione non può più vantare credibilmente la propria efficienza. Certo, i politici europei hanno molte ragioni per non schierarsi contro il progetto comunitario a dispetto delle sue mancanze: la pace e il progresso economico che ha garantito, l’attaccamento simbolico e il timore dell’ignoto. Zielonka argomenta però che riaccendere lo slancio dell’UE con un simile sostegno completamente privo di passione sia una velleità. Infine, discutendo una possibile Bundesrepublik Europa fondata sul benevolo imperiumdella Germania, Zielonka deplora il suo comportamento recente di “potenza egemone recalcitrante e poco dotata”, poco lungimirante e poco disposta ai sacrifici che accompagnano la leadership.
Se la rivitalizzazione dell’UE fallirà, le sue istituzioni saranno aggirate sempre più nel disegnare le risposte collettive europee alle sfide dei tempi a venire. Secondo l’autore l’Europa assumerà “nei prossimi dieci o vent’anni [la forma di] un complicato mosaico senza chiara struttura istituzionale, ordinamento giuridico e consenso ideologico”. Le caratteristiche di questo modello, definito “neomedievale”, sono: “autorità con competenze sovrapposte, sovranità frazionata, sistemi istituzionali differenziati e identità multiple”, “confini […] meno netti,con ampie possibilità di entrata e uscita”, “una redistribuzione basata su diverse forme di solidarietà tra varie reti transnazionali”, “contrattazione, assetti flessibili e incentivi”. La tesi dell’autore diviene problematica nel momento in cui si esplicitano alcune (presunte) ragioni per cui l’Europa non cadrebbe comunque nel conflitto: la non-esclusività dell’UE come garante della pace, eserciti ridimensionati, l’obsolescenza della Weltpolitik fondata su acquisizioni territoriali, l’interdipendenza tra Stati che genererebbe al massimo rivalità non destinate a sfociare in guerra, l’idea che gli Stati dell’UE, “al contrario degli Stati nazionali classici, concepiscono il proprio potere e la propria identità come subordinati all’appartenenza a un gruppo o a una comunità più vasta”. Dai tempi de “La Grande Illusione” di Norman Angell, viene spontaneo commentare, non c’è forse generazione che non abbia evidenziato l’obsolescenza del conflitto armato trovandosi poi – purtroppo – a fare i conti con la sua resilienza.
Gli Stati, che l’autore colloca quasi in secondo piano – sostenendo che sia come fornitori di servizi pubblici, sia come canali di democrazia, sia come agenti competenti nell’amministrazione pubblica il loro primato è ormai a repentaglio – sarebbero quindi soltanto uno degli attori di questo brave new world che comprenderebbe anche regioni e per giunta “città globali”, “attori di un universo differente, super-moderno” finalmente capaci di muoversi in modo libero nella politica continentale. Regioni e Stati diversi saprebbero adeguarsi con variabile successo a questo nuovo corso della cooperazione intra-europea, la cui governance sarà diversificata per modalità di impegno, rigidità delle norme, incentivi e sanzioni. I sistemi che costituiranno questa multi-level governanceall’ennesima potenza saranno autoregolamentati con continui controlli informali tra le parti coinvolte, senza un centro da tenere a freno, e avranno dimensioni modeste e obiettivi chiari che le renderanno più compatte e semplici da riformare.
Gran parte della diagnosi impietosa di Zielonka è bene indirizzata. In particolare, l’incapacità di gestione simultanea del “teatro economico”, del “teatro politico” e del “teatro istituzionale” da parte dei vertici comunitari e dei leader europei emerge come un tragico disvalore per la protezione dei compromessi su cui la pace sociale si fonda, tra gli Stati membri e al loro interno. L’analisi della responsabilità parziale della Grecia nella propria crisi è equilibrata, mentre è precisa la critica all’incapacità della Germania di concepire le implicazioni del “fardello” della leadership continentale. Più preoccupante ancora è la valutazione del modo in cui – sostituendosi all’asse franco-tedesco che è il motore storico dell’integrazione – le istanze degli Stati creditori sono state fatte valere per il tramite delle istituzioni europee, compromettendone l’“innocenza”.
La tesi di Zielonka è importante anche in quanto è presentata come una predizione, destinata a realizzarsi non per un disegno scientemente perseguito, bensì come naturale sbocco dell’attuale deriva di noncuranza. D’altra parte, Zielonka è impreciso nello spiegare per quale motivo certi difetti dell’UE risultino improvvisamente “letali”. La maggiore distanza di Bruxelles dai governati rispetto alle capitali degli Stati nazionali, ad esempio, è indiscutibile: non si comprende però come mai tale distanza dovrebbe essere additata come “eccessiva”, proprio quando determinate regioni iniziano a rivolgersi contro l’autorità di Madrid, Londra o Bruxelles e quando vari indicatori dell’Eurobarometro attestano una ripresa di fiducia e favore verso l’UE. Del pari, l’autore assume come un dato di fatto che norme troppo omogenee siano un male per un gruppo di Stati eterogenei la cui diversità è irriducibile, senza però chiarire sotto quali condizioni l’armonizzazione debba divenire disfunzionale.
E’ poi difficile condividere la sua fiducia nella desiderabilità dell’assetto “polifonico”. Zielonka stesso elenca alcune possibili criticità, senonché le contro-argomentazioni utilizzate appaiono insoddisfacenti. La “nuova Europa” a base funzionale rischierebbe certamente di avere un carattere ancora più tecnocratico. Riesce poi arduo pensare che retiad hoc costituite da autorità politiche, organizzazioni non governative, aziende e altri soggetti privati secondo le rispettive risorse possano essere più responsabili dell’UE e meno afflitte da “deficit democratici” di sorta. Al contrario, l’accountability risulterebbe disciolta al punto che il cittadino comune non sarebbe affatto in grado di identificare i soggetti politici che manovrano le leve della legislazione nei vari settori di policy. E’ poi azzardato immaginare che quei raggruppamenti di cittadini che scelgono i partiti euroscettici per timore della perdita della cultura nazionale, o per ostilità ad una classe politica avvertita come distante, resterebbero soddisfatti da un simile scenario di identità multiple e poteri sovrapposti.
C’è anche da supporre che gli Stati non si rassegnino a divenire comprimari. Nonostante la contrazione dello Stato sociale e la scarsa soddisfazione dei cittadini per la democrazia rappresentativa, nella grande maggioranza dei casi non si sono sviluppate alternative che nei due “settori” possano ambire alla stessa legittimazione e allo stesso carico di aspettative. La gestione di minacce quali il terrorismo internazionale è una sfida per cui regioni, città e ONG semplicemente non sono attrezzate tanto quanto l’intelligence degli Stati. La nascita di una serie di reti scarsamente collegate fra loro priverebbe gli Stati del vantaggio essenziale che deriva dal potersi accordare intrecciando i dossier di più tavoli. Da ultimo, essa segnalerebbe pericolosamente la debolezza degli Stati europei alle potenze globali al di fuori dell’Europa, oltretutto rendendo imprevedibili ai loro occhi i processi decisionali.
Si ha infine la sensazione che l’opera di Zielonka preveda la definitiva uscita di scena della politica moderna, per giunta vedendola con favore, e “nasconda” i luoghi del potere dietro all’indistinto insieme delle reti funzionali. L’integrazione è vista come uno strumento non per rimediare alle mancanze del mercato, bensì semplicemente per trovare “soluzioni pratiche per far fronte ai crescenti problemi economici, sociali e di sicurezza” collettivi. Il neomedievalismo produce vincitori e perdenti che, però, non hanno speranza di veder ricomposti o mediati i propri conflitti da compromessi politici operanti all’interno di unapolity comune, statuale o comunitaria che sia. Al contrario i conflitti restano dis-integrati fra loro, senza compensazione o comunicazione tra i diversi ambiti di policy. Nonostante Zielonka si spinga poi a sostenere che le reti funzionali sarebbero comunque sottoposte a “un solido sistema fondato sullo Stato di diritto”, è l’autore stesso a riconoscere che un simile sistema sarebbe adatto a “creare strutture e stabilire regole di comportamento legittimo” ma non a punire – come del resto sappiamo accadere spesso a regimi internazionali non difesi da un solido sistema di enforcement.
In conclusione, vi sono numerosi motivi per ritenere che lo scenario descritto da Zielonka sarebbe un’integrazione non più genuina, bensì più tecnica e meno responsabile dell’attuale, passibile di confondere i confini delle comunità politiche in modo ben poco rassicurante per i loro membri. Ne deriva, di contro, un appello a non lasciare che la storia più che cinquantennale della Comunità europea si concluda nel prevalere dei particolarismi, nella cieca auto-celebrazione e nell’irrilevanza politica.

Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica 

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