La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 6 gennaio 2016

Il 2015 è stato un anno atroce

di Gustavo Esteva
In Messico, il degrado morale, il cinismo e la corruzione delle classi politiche si sono fatte sempre più evidenti, mentre la violenza congiunta delle forze legali e illegali è cresciuta senza posa. Così si è venuta consolidando una struttura che dentro e fuori le istituzioni cerca di controllare la popolazione e soffocare le resistenze e le ribellioni sotto uno stato di eccezione non dichiarato.
Qualcosa di analogo, con gradi e modalità molto diverse, avviene nel mondo. Di fronte ai cambiamenti politici in Argentina e Venezuela, la persistente crisi brasiliana o gli avvenimenti di Grecia o Francia, si denunziano tradimenti, errori o debolezze delle sinistre o si constatano restaurazioni o assalti al potere delle destre. Quanto accaduto viene descritto come un ripiegamento delle forze popolari e un’ascesa del capitale, dei suoi amministratori statali e dei settori sociali che li appoggiano.
Trump conferma questa interpretazione: milioni di statunitensi appoggiano tendenze che perfino il New York Times qualifica come fascistoidi, mentre negli Stati Uniti e in Europa si moltiplicano comportamenti sociali che hanno chiaramente questi caratteri. Proprio come 12 milioni di tedeschi nel 1932 e 17 milioni nel 1933 votarono Hitler, i media e altri fattori stanno spingendo grandi masse a sostenere governi e politiche di destra anche contro i propri interessi. Le forze popolari così retrocederebbero e la costellazione neoliberista continuerebbe a trionfare.
L’accordo di Parigi può essere utile per illustrare quanto accade e cercare di spiegarlo. La Conferenza che lo ha generato è stato il risultato della prolungata richiesta pubblica di fare fronte al cambiamento climatico. Ebbene, è stato firmato, i governi hanno enfatizzato i propri meriti e molti li hanno applauditi senza riserve, ma in realtà si è trattato di una farsa sconvolgente. Grain, per esempio, che rappresenta un’opinione assai qualificata e rispettata, ha ricordato che l’accordo non è legalmente vincolante rispetto agli obbiettivi della riduzione delle emissioni, non fa passi avanti nella de-carbonizzazione, sostiene il modello di agricoltura industriale che causa il 50 per cento delle emissioni e fa si che queste continuino con soluzioni che si ipotizza le compensino. Il fatto più grave è che per la cattura obbligatoria del carbonio ora si potrà ricorrere apertamente alla geoingegneria, che nell’opinione di molti è la causa principale del cambiamento climatico.
Sia Grain che buona parte dei manifestanti presenti a Parigi hanno sottolineato chel’importante era cambiare il sistema, non il clima. Dato che questo è il problema, non sembra sensato chiedere la soluzione allo stesso sistema, intrappolato com’è in una logica distruttiva che non riesce ad arrestare. Come si sta denunciando ripetutamente, si sta uccidendo la gallina dalle uova d’oro e distruggendo velocemente le basi stesse della sua esistenza. Il problema consiste nel fatto che questo comportamento suicida pone a rischio crescente la sopravvivenza della specie umana e della vita sul pianeta e il sistema può difendersi solo con un autoritarismo crescente. Si è realizzato con un immenso sforzo mondiale che la conferenza avesse luogo e, successivamente, perché assumesse le decisioni che erano necessarie. Ha un senso? Perché continuare ad avere fiducia nel fatto che governi e istituzioni prendano decisioni contrarie agli interessi di coloro che li controllano, cioè di quell’uno per cento denunciato da Occupy Wall Street?
Questa sarebbe la lezione principale dell’anno, una lezione che siamo ben lungi dall’aver imparato. È sempre più diffusa la consapevolezza che le condizioni attuali non possono essere superate dentro l’ambito delle idee, delle politiche e delle pratiche che le generano, vale a dire nel sistema attuale. Non basta cambiare politiche o modificare la composizione ideologica di coloro che sono al vertice delle istituzioni. Non è neppure sufficiente riformarle. È illusorio e ridicolo continuare a sperare che il sistema si autocorregga, con gli stessi o con altri dirigenti, come Parigi e molti altri casi dimostrano. Per questo dobbiamo ritirare la nostra fiducia dallo stesso regime della rappresentanza e dal suo meccanismo elettorale. Dobbiamo ritirarla anche dalla semplice mobilitazione sociale, se è capace soltanto di produrre il ricambio dei dirigenti, come ha dimostrato il saldo della primavera araba, o di indurre cambiamenti marginali nell’orientamento delle politiche, come si constata da tutte le parti ed è stato confermato a Parigi.
A questo punto, l’anno atroce lascia uno spiraglio alla speranza. È in corso, ovunque, una riorganizzazione dal basso che poco a poco trasforma la resistenza in emancipazione. Si smantellano la necessità degli apparati del capitale e del mercato nonché dei loro amministratori statali e si forgiano nuove relazioni sociali. A poco a poco si creano strumenti capaci di frenare l’orrore dominante perché la stessa gente organizzata, non i suoi rappresentanti o leader o delegati, realizzi i cambiamenti di cui c’è bisogno. Non si tratta di un’altra illusione o di pure utopie. Comincia a essere realtà.

Questo articolo è già uscito su La Jornada
Traduzione a cura di Camminar Domandando
Fonte: comune-info.net 

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