La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 gennaio 2016

Intervista a un militante di sinistra

Intervista a Gianluca Graciolini di Fabio Cabrini
1) Il 28 giugno del 1983 il Manifesto apriva con questo titolo “Non moriremo democristiani”. Oggi, a distanza di 32 anni, quel titolo potrebbe essere così rivisto: “C'è il rischio di morire democristiani”. Come scongiurarlo?
"Quel titolo, intanto: una sintesi politica e giornalistica perfetta da una delle personalità più lucide, coerenti e lungimiranti della sinistra italiana del dopoguerra, Luigi Pintor. Un maestro di cultura politica, di affiatamento tra pensiero e condotta, di linguaggio politico del tutto scevro da arzigogoli incomprensibili ed incrostazioni pseudointellestualistiche, tipiche invece di una certa sinistra di oggi. Chi ha una cultura politica solida non ha bisogno di esibirla e non frappone veli oscuri tra sè e il popolo; non si pone in un'inaccessibile ed ipocrita torre d'avorio, ma parla la lingua dei semplici, va chiaramente al cuore dei problemi e si connette anche sentimentalmente al popolo cui vuol dare parola e cittadinanza, al proprio popolo. Come scriveva Diderot? Che cosa aspettiamo a rendere popolare la filosofia? Ebbene, eccolo qui, in nuce e come lezione mai smentita trasmessaci dagli "antichi" o dallo stesso Pintor, un programma per l'oggi, in tema di "sinistra e comunicazione".
Ma voglio soffermarmi ancora su quel lontano titolo, perchè mi dà occasione di ricordare, con un po' di orgoglio misto a tenero conforto, la mia personale autobiografia di militante di sinistra. Avevo ancora 13 anni e mi sentivo già nella mischia, dunque: possiedo ancora quell'edizione de il manifesto. Per le narrazioni politiche imperanti negli ultimi anni, così deprivate di memoria, svuotate di valori e sguarnite di pensieri forti, sarei un vecchio, perchè già a 13 anni non volevo morire democristiano e, magari ancora a pelle, mi indignavo per un sistema di potere di cui intuivo le ingiustizie e le corruttele. Mi sento invece molto fresco e giovane, almeno di cervello: non volevo morirci allora, democristiano, non voglio morirci oggi, non vorrò morirci domani e voglio tuttora combattere un sistema di potere che produce ingiustizie e disuguaglianze e che si manifesta come ampliamente corrotto: è questa la novità.
E quindi, come scongiurare questa sorte? A prestar fede alle parole pronunciate da Renzi in occasione della conferenza stampa di fine anno, quando ha detto che lascerà se perde il referendum costituzionale, sarei portato a rispondere dicendo: facciamo in modo di avverare le sue stesse parole, vinciamo il referendum, salviamo la Costituzione e mandiamolo a casa. L'aut aut plebiscitario di Renzi nasconde però più di un'insidia e ci conferma il il suo vezzo populista, costitutivo del suo storytelling: un populismo "istituzionale" e di governo, una variante moderna di quel che Gramsci aveva chiamato sovversivismo delle classi dirigenti, un carattere tipico e ricorrente delle classi dirigenti politiche ed economiche del nostro Paese.
La sfida lanciata da Renzi è l'ultimo rifugio delle canaglie, una sorta di chiamata generale di correo per cancellare definitivamente, con la demolizione della Costituzione per via plebiscitaria, gli ultimi anticorpi disponibili nella nostra stanca e derelitta democrazia. Il messaggio è questo: io sono la vostra ultima spiaggia (non certo quella del Paese reale, ma quella delle sue èlites), se perdo io perdete anche voi, o la va o la pacca; variante aggiornata all'italiana del ben più noto "there is no alternative" di thatcheriana memoria. Per vincere farà di tutto: l'attacco portato ai pochi media rimasti a tenere la schiena dritta è esemplare a questo suo fine, così come l'appropriazione indebita della Rai appena andata in porto è funzionale al suo disegno di concentrazione del potere nelle sue mani e nel suo governo. Nei prossimi mesi, anche in preparazione di questa sfida referendaria cruciale, è scontato che assisteremo ad una vigorosa accentuazione della propaganda fatta a mezzo di un sistema di informazione appiattito e a senso unico, peggiore di quello degli anni berlusconiani.
Contro la poderosa macchina da guerra del renzismo, dovremo perciò mettere in campo ogni sforzo e coordinare al meglio ogni energia ancora disponibile nei settori più critici della società. Per le sinistre politiche e sociali sarà un banco di prova di unità e di azione comune, consapevoli che le Boldrini, i Pisapia e tutti gli altri stendini voteranno il loro bel sì alla deforma costituzionale, o resteranno muti, in ossequio al mito morto e sepolto del centrosinistra. Dall'altra parte non ci saranno solo Renzi e tutto il Pd col loro rodato sistema di clientele, ma ci sarà, tolta la Lega forse, lo stesso centrodestra, al di là della sua opposizione di facciata: stracciando la Costituzione come ultimo adempimento per disegnare un sistema politico formalmente a-democratico Renzi non fa altro che portare a compimento le antiche promesse del berlusconismo che fu. Le cosiddette riforme di Renzi, neoautoritarie ed ultraliberiste, sono d'altronde le riforme mancate o appena abbozzate del ventennio berlusconiano. Rappresentano certo il loro capitolo finale, ma prendono vita e forma nuova in uno scenario politico, economico e sociale completamente diverso, dove emergono tutte le contaddizioni e le torsioni antidemocratiche della governance europea, nel campo di macerie prodotte dalla lunga crisi e dall'austerità, come appendice fallimentare del trentennio liberista globale e come contemporanea prova muscolare di forza di un capitalismo che ha la ferma intenzione di divorziare definitivamente dalla democrazia e dal bene comune, mercificando ogni cosa ed ogni aspetto della vita civile, dagli oggetti d'uso ai flussi di comunicazione e di conoscenza, dalle relazioni sociali alla cultura, dall'istruzione all'alta formazione, dalla salute all'ambiente, dalle città alla terra, dal lavoro alla politica.
Con Renzi, con questo Pd e con loro politiche, e qui la faccenda si fa maledettamente più complicata, non c'è più solo il rischio di morire democristiani, dunque, ma di morire più poveri, meno uguali, meno solidali, meno cittadini e meno sovrani di noi stessi e, in quanto popolo, di una democrazia vera, pienamente ed efficacemente, rappresentativa, con dei diritti sociali, civili ed economici universalmente disponibili ed esigibili.
Se la radice democristiana costituisce infatti l'albero genealogico del giovine Renzi e del renzismo, le sue politiche sono un crogiuolo pericolosissimo; un'alchimia che mescola i tratti della peggiore autobiografia nazionale (quella fascista dell'autoritarismo, della servitù volontaria e dell'indifferenza), il cinismo, le furbizie e l'ipocrisia del quarantennio democristiano, il pragmatismo decisionista e governista del craxismo, le tare dell'analfabetismo civile e politico frammisto all'ottimismo facile facile e così contrario alla realtà frutto della lunga stagione berlusconiana, ma, soprattutto, l'approccio privatistico nella gestione del potere e la sostanza ultraliberista delle sue politiche concrete (la variante italiana della lotta di classe condotta dai ricchi nella società globale).
La cosiddetta mutazione genetica del Pd è, in fin dei conti, tutto questo, ovvero l'assorbimento in sè dei principi, degli interessi, dei contenuti politici e delle modalità di azione di tutto ciò che avrebbe dovuto rappresentare il proprio avversario, divenendo il partito pigliatutto, in tutto e per tutto conservatore, dedito alla gestione del potere ed alla sovrapposizione tra politica, istituzioni e pubblica amministrazione: in due parole il partito della Nazione.
Com'è possibile che Renzi, i suoi nani e le sue bambole da vetrina, queste terze file eredi della democrazia cristiana, uomini e donne senza eccelse qualità e con una cultura politica di infimo ordine, peraltro indegna della stessa tradizione da cui in gran parte si proviene, abbiano potuto sbarazzarsi di ogni avversario e giungere così prepotentemente sugli scudi?
Rappresenterebbe di certo un mistero se non pensassimo al terreno fertile che costoro hanno trovato: il corto circuito di una società appassita, imbelle e demoralizzata, sfiancata dalla crisi e provata da contraddizioni ataviche, da ritardi storici e da mancati appuntamenti con una riforma radicale delle sue strutture economiche e sociali; un generale scadimento della politica, dei suoi fondamenti, dei suoi protagonisti, della sua forza e delle sue manifestazioni esteriori; un progressivo allentamento delle capacità di rigenerazione e di vigilanza della società civile; un abbattimento della qualità e della quantità della partecipazione e della democrazia.
Spiace constatare che, a fronte di questo scenario, nessuna consistente voce critica si sia eretta dal mondo della cultura, dall'intellettualità, a denunciare questa situazione, anche solo "moralisticamente", senza pretendere il vigore e l'efficacia di una più pertinente critica dell'economia poitica. L'ennesimo tradimento dei chierici, una fuga nel "particulare" degno della peggiore tradizione italica.
Pertanto, sconfiggere il renzismo non è solo scongiurare la morte da democristiani, ma è provare a progettare tutto un altro Paese e non sarà un pranzo di gala. Iniziamo pure stravincendo il referendum costituzionale e l'anno successivo quelli sociali, ma prepariamoci a combattere una battaglia di lungo corso."

2) Il 14 dicembre il New York Times ha pubblicato un articolo che riporta alcuni dati calcolati dall'istituto di Statistica: 1)tra il gennaio e l’ottobre 2015 i contratti a tempo indeterminato, rispetto allo stesso arco temporale dell'anno passato, sono diminuiti di 23.000 unità, mentre quelli a tempo determinato sono cresciuti, 2) Nello stesso periodo di quest'anno sono stati creati 83.000 posti di lavoro contro i 174.000 dello scorso anno. Insomma, una bocciatura senza appello del Jobs act.
"Il Jos Act è un grande successo solo per le imprese che non sanno fare le imprese se non competendo a forza di abbattimento del costo del lavoro, di cancellazione dei diritti, di deflazione salariale e di regalie pubbliche sotto forma di sgravi fiscali e contributivi. Nessun giovamento ne ha tratto la lotta alla disoccupazione ed alla precarietà, nessuna inversione di tendenza c'è stata in termini di aumento della produttività, anzi. Come era prevedibile e come avevamo denunciato.
Un fallimento annunciato, dunque, di un provvedimento che ha seguito e per certi versi portato a compimento l'itinerario inaugurato con il famigerato accordo sul costo del lavoro del '93, sancendo un definitivo livellamento verso il basso delle tutele dei lavoratori. Il Jobs Act è ispirato da furia ideologica e si risolve in cecità: lo muove il solito approccio neoliberista secondo cui la disoccupazione persistente o la scarsa competitività dell'economia sono causate dalle presunte rigidità del mercato del lavoro. Così, si continua ad intervenire esclusivamente dal lato della cosiddetta offerta, attraverso l'abbattimento di ogni residua tutela disponibile ai lavoratori, liberalizzando ab origine dei contratti i licenziamenti e dando tutto il potere alle imprese, quando invece la realtà ci dice che l'unica via per combattere la disoccupazione e promuovere gli investimenti è quella di una politica economica a sostegno della domanda.
I dati stessi svelano poi un trucco: l’aumento dei contratti a tempo indeterminato è dovuto principalmente alla trasformazione di contratti a termine preesistenti e non alla creazione di nuova occupazione. Gli incentivi forniti alle imprese non si sono concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma hanno favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti permanenti. Le risorse mobilitate a questo fine sono 9 miliardi di euro e si calcola che per ogni occupato "a tempo indeterminato", il lavoratore stabilmente precario con il contratto a tutele crescenti e senza più la tutela dell'articolo 18, sono stati spesi 25 mila euro. Con la scadenza degli incentivi e con la fine di questa manna è facile immaginare cosa succederà a questi lavoratori: rimarranno occupati solo quelli impiegati dalle imprese che hanno un mercato, le stesse che avrebbero assunto anche senza il Jobs Act, per le quali gli incentivi hanno rappresentato un regalo.
Contemporaneamente, nonostante le tante parole spese a questo fine nel testo della legge e nei suoi decreti attuativi, non un euro è stato previsto e destinato alle politiche attive del lavoro ed ai moribondi centri per l'impiego, la cui mission sarebbe proprio quella di favorire l'incrocio tra domanda e offerta di lavoro.
La precarietà continua infine ad imperare come gli stessi dati sull'ormai gigantesco fenomeno del ricorso ai voucher ci raccontano.
Il Jobs Act non si rivelerà solo come irrilevante ai fini della ripresa, ma accentuerà la crisi dell'economia reale, i divari dell'apparato industriale ed i caratteri "qualitativi" più insostenibili del mercato italiano del lavoro: la disoccupazione giovanile e quella femminile. Queste saranno le conseguenze dello "spirito" classista di una legge che si traduce nell'invito alle imprese italiane a competere abbattendo i salari nel mentre si disincentivano gli investimenti in tecnologia, innovazione e formazione dei lavoratori.
È la strada ostinatamente, irresponsabilmente, contraria a quella che sarebbe servita per recuperare la capacità produttiva perduta negli anni di questa lunga crisi.
Se periodicamente, come in questi giorni, si registreranno alcuni piccoli barlumi di crescita occupazionale, non si dovrà certo al Jobs Act, ma agli effetti di qualche congiuntura intermittente a livello internazionale, come la caduta dei prezzi delle materie prime, o peggio, alla dimensione ormai strutturale della platea dei cosiddetti lavoratori scoraggiati, che non si iscrivono neanche più nelle liste di collocamento e non si conteggiano più nelle statistichee, non predispongono più domande alle agenzie interinali, sentendosi come definitivamente espulsi dal mercato del lavoro. Altro che retorici trionfalismi sui decimali!
È per tutte queste ragioni che il Jobs Act va cancellato ed il referendum del 2017, se non sarà già troppo tardi, dovrà servire a riparare questi danni, ripristinare democrazia economica e salvaguardia dei diritti ed imporre una nuova visione economica, dove l'intervento legislativo e finanziario pubblico non serva a favorire le imprese peggiori, ma si volga a politiche industriali dirette a stimolare la creazione di produzioni ed occupazioni realmente stabili, qualificate e ad alto contenuto tecnologico."

3) In molti, giustamente, sostengono che un paese dove non si investe nella formazione è un paese destinato al declino. Il nostro premier risponde a tali critiche con un video in cui definisce i meriti della riforma soprannominata “Buona scuola”, un modello che premia il merito, che rende dinamica l'alternanza scuola-lavoro,che dà più spazio alla cultura umanista e conferisce ai presidi i poteri di un manager. Tutto bene, no?
"Tutto male, tutto falso. E lo dico per esperienza diretta, da presidente di consiglio di istituto, divenuto il più grande dell'Umbria per effetto dei dimensionamenti degli anni scorsi. La realtà con cui abbiamo fatto i conti all'apertura dell'anno scolastico è quella della reggenza (con il posto vacante del Dirigente scolastico), è quella della dotazione del personale Ata del tutto insufficiente a garantire anche solo la semplice apertura e chiusura dei plessi una volta subentrato il tempo mensa, è quella delle supplenze a rischio, è quella del personale docente costretto ad incredibili maratone burocratiche e a dissipare energie altrimenti dedicabili alla didattica per inseguire qualche briciola di risorsa messa in palio dai famigerati progetti PON: un modo davvero assurdo e maldestro per dotare la scuola di materiali didattici di base, essenziali al suo moderno ed efficace funzionamento ed altrimenti indisponibili in ragione dei tagli ai fondi di istituto.
Abbiamo poi proseguito assistendo al ricorso sempre più frequente ai cosiddetti contributi volontari delle famiglie, perfino per acquistare i testi distribuiti dall'Invalsi, ad alcuni vuoti nel sostegno scolastico, alle consuete problematiche di integrazione degli alunni immigrati, a plessi e a palestre in cui piove, al limite dell'agibilità, e per cui non si vedono interventi all'orizzonte, ad aule comuni senza riscaldamento, ai tentativi di subordinare l'organizzazione scolastica ed i suoi tempi ai tagli alla mobilità ed al trasporto scolastico.
Convinto di dimenticare qualche altra perla, è questo lo scenario reale della scuola della Repubblica ravvisabile ovunque in Italia su cui la legge 107 non solo non è intervenuta, ma di cui sta aggravando le condizioni.
La propaganda, in sè, non sarebbe così pericolosa se non si fosse oggi al cospetto di un intento più perverso del solito. Il mondo della scuola ha d'altronde dimostrato negli anni di possedere gli anticorpi necessari e sufficienti per pararsi dai tanti colpi infertile dalle cosiddette e ricorrenti riforme dei vari governi che si sono succeduti.
Ma la "buona scuola" di Renzi è una scuola che si sottomette definitivamente al mercato ed ai suoi mantra: Gelmini l'ha affamata, Renzi le dà il colpo di grazia. 
La competizione soppianta la collaborazione, il conformismo pregiudica lo sviluppo delle capacità di pensiero critico, l'uniformità monocratica organizzativa e progettuale smantella la libertà di insegnamento, la valutazione ultima, pervasiva ed inappellabile affidata ai presidi cancella decenni di innovazione democratica nel campo della scienza e delle politiche dell'educazione, i loro nuovi poteri decisionali condannano gli organi collegiali ad una parvenza di corresponsabilità democratica, l'apertura ai finanziamenti privati rappresenta l'ennesimo disimpegno dello Stato, in nome di un'idea perversa dell'autonomia, subordina la didattica ai ricatti mercatisti e produce insopportabili disparità di trattamento ed ulteriori diseguaglianze geografiche, di classe, tra istituto ed istituto.
Questa è la scuola con cui il renzismo vuol farsi regime, una scuola che insegna a competere, a valutare e punire, una scuola che spinge a desiderare il potere che domina e sfrutta. Una scuola che educa alla servitù volontaria verso i dogmi del neoliberismo ed ai meccanismi dell'espulsione dell'attuale stato del capitalismo. Ed è una scuola dove da anni non si investono più risorse, come le tristi statistiche internazionali testimoniano impietosamente, relegandoci agli ultimi posti nelle classifiche OCSE.
Questa è l'idea e la realtà di scuola che dobbiamo cancellare, è contro questa scuola che dobbiamo continuare a combattere, fino alla stagione referendaria del 2017."

4) E mentre il governo si impegna a creare la futura classe dirigente del paese e a ridare dignità al mondo del lavoro, trova anche il tempo, d'altronde è il governo del fare, di salvare 4 banche con un decreto legge votato in fretta e furia per utilizzare la tecnica bad bank – new bank che è andata in soffitta insieme al 2015. I piccoli risparmiatori ringraziano.
"I piccoli risparmiatori truffati dalle 4 banche corree, oltre che di una gestione più che allegra del credito, anche di un sistema locale di affari e di potere da cui è fin troppo facile risalire fino al cuore del governo e della classe dirigente renziana, non solo non ringraziano, ma si sono organizzati per riprendersi il maltolto e stanno predisponendo azioni a più livelli che con molta probabilità avranno benefiche conseguenze in termini politici, di giustizia penale e civile.
Hanno inizialmente provato a dipingerli come provetti speculatori ai quali sono andate male chissà quali scorribande finanziarie, ma la verità è immediatamente venuta a galla. Oggi, governo, Pd, Bankitalia, Consob, Abi stanno tuttora provando a mettere il silenziatore sulla vicenda, a rimpallarsi le responsabilità per annacquarla, ma è lecito supporre che la battaglia sia appena iniziata. La lotta dei piccoli risparmiatori andrà fino in fondo, grazie al coordinamento delle più serie ed agguerrite associazioni dei consumatori, e non risparmierà nessuno dei responsabili della grande truffa.
Noi stiamo con loro, ci siamo stati fin dall'inizio. A questo proposito, segnalo un'iniziativa che ho organizzato per il 22 gennaio a Gualdo Tadino, in uno dei principali epicentri del crack Etruria, in uno dei territori umbri, già pesantemente funestati dalla crisi. Presenti Paolo Ferrero, Sandro Petruzzi, presidente del comitato direttivo nazionale di Federconsumatori e Rita Castellani, un'economista che sta supportando passo dopo passo le azioni dell'associazione. Sarà questa un'occasione per fare il punto sulla situazione, per informare delle novità che stanno avendo luce e per avanzare quelle proposte di riforma del sistema bancario e finanziario di cui l'Europa, il Paese ed i suoi territori hanno davvero bisogno."

5) La speranza di molti italiani, che non si vedono rappresentati dai partiti “classici”, viene riposta nel movimento di Casaleggio. Quale il tuo giudizio sul M5S?
"Molto è stato scritto su questo punto, molti studi hanno impegnato sociologi ed analisti politici. Il movimento nasce indubbiamente dalla rabbia montante dei cittadini contro i privilegi e le corruttele della casta, dalla crisi della politica e del sistema della rappresentanza negli anni della sbornia del maggioritario e del falso bipolarismo trasformista seguiti all'avvento della Seconda Repubblica, dalla stessa implosione del berlusconismo. Si è successivamente alimentato dei sentimenti antieuropeisti debordanti dopo anni di crisi e di austerità ed ha trovato linfa vitale nel senso comune neoliberista del meno stato più società. Ma il core business dell'impresa politica grillina, quello che gli ha consentito di crearsi uno zoccolo duro, sanguigno, tra i cittadini delusi od arrabbiati, e di attrarre a sè sempre più consensi e militanti in settori ampli del dissenso civile e dei movimenti sociali per l'ambiente e per la partecipazione democratica, è stato l'abilità nel raccogliere i sentimenti degli orfani della crisi della sinistra politica che nel frattempo stava soccombendo tra le incertezze, le indecisioni e le tenaglie del suo essere o di lotta o di governo, si era dimostrata così incapace di leggere i nuovi e più profondi sommovimenti delle classi popolari, e, su molti temi cruciali, si era rivelata, e nella lotta e nel governo, così incoerente o perfino inutile, già irrilevante.
Penso ai temi del reddito di cittadinanza, dell'acqua pubblica, della difesa dei beni comuni, della lotta intransigente al privilegio ed alla corruzione su cui la sinistra radicale ha accumulato ritardi, contraddizioni ed atteggiamenti corrivi con il sistema di potere legato prima ai Ds e poi al Pd, da cui tuttora alcuni suoi settori, quelli legati a Sel o alla stessa Cgil, stentano a spezzare i propri cordoni ombelicali.
Non ci muoveremmo di un passo, a mio avviso, se non tenessimo bene in considerazione questo aspetto dell'affermazione del M5S, se non compissimo a ritroso una sorta di introiezione autocritica nella nostra coscienza di dirigenti o di militanti della sinistra, per comprendere fino in fondo che le nostre sofferenze e le nostre attuali difficoltà competitive con i grillini nascono tutte dai tanti errori disseminati lungo la nostra storia degli ultimi dieci e passa anni, per capire che i cinque stelle sono in realtà la nostra cattiva coscienza: bisogna farci una ragione dei nostri coiti interrupti.
Restano certamente e clamorosamente tante zone grigie, taluni anche nere, nel movimento grillino, tante sono le incongruenze e le cadute di stile dei suoi leader, così come, a distanza di quasi tre anni dal loro ingresso trionfale in parlamento, è lecito dubitare della loro reale, concreta, incisività come principale forza di opposizione, al di là degli slogan urlati sull'onestà. Ed anche laddove, sul piano amministrativo, hanno raggiunto la stanza dei bottoni non hanno certo brillato come campioni del cambiamento promesso. Anzi. Non mi sfugge neanche che i cinque stelle, insieme alla nuova Lega di Salvini, siano stati coccolati dai media mainstream: simili opposizioni dalla radice populista risultano senz'altro più funzionali e meno fastidiose per la narrazione neoliberale, le élites dominanti ed i poteri reali del capitalismo finanziario rispetto ad opposizioni od alternative di sinistra che potrebbero porre in essere una critica radicale dello stato di cose presente attraverso una rinnovata crtica dell'economia politica e per questa via demistificare la crisi, il neoliberismo e le politiche di austerità, fino a rimettere in discussione il vigente ordine internazionale fondato sulla guerra e sulle disuguaglianze globali.
Ma il dato su cui ci dobbiamo confrontare è che il movimento viene tuttora percepito come l'unica alternativa in campo per scoperchiare il pentolone del sistema politico italiano, nella persistente assenza di una forza credibile della sinistra. Possiamo certo sbraitare polemicamente sul dilettantismo allo sbaraglio di molti dei suoi referenti, sui loro vaniloqui, sulla miseria della cultura politica che traspare dalle loro iniziative, su un'organizzazione sostanzialmente autocratica dove i richiami costitutivi alla democrazia diretta valgono per gli altri ma non per se stessi o sulle loro conclamate contraddizioni, ma continueremmo a raccontarci delle frottole e a leggere in maniera psichedelica la realtà se non ammettessimo che centinaia di migliaia di potenziali elettori di sinistra che ancora non si sono rintanati nel limbo astensionista continuino a guardare al M5S come il grimaldello del sistema e ad accordargli consenso.
Ciò significa che le domande di cui esso è portatore sono vive e presenti nella società italiana, tra i ceti popolari, nelle sue pieghe, tra quel popolo che sentiamo nostro, che abbiamo l'ambizione di rifarlo nostro, tra quegli stessi settori che noi vorremmo eleggere a nuovi soggetti della trasformazione sociale.
È per questo che, io credo, dovremmo riporre ad un certo momento le armi spuntate della polemica contro i cinque stelle e prendere l'iniziativa di una interlocuzione costruttiva su tutti quei temi dirimenti e cruciali che ci accomunano, a partire dai livelli locali e dalle vertenze territoriali fino alle grandi questioni nazionali. Per esperienza personale, laddove esistiamo, produciamo iniziativa politica e facciamo cose di sinistra, posso testimoniare che questa interlocuzione è possibile, senza alcun timore reverenziale e senza alcuna puzza sotto al naso, e, se ci si lavora con sapienza e determinazione, può portare a positive sorprese sul cammino della costruzione di un'alternativa popolare, civile e di sinistra. In caso contrario, avremmo visto le loro carte, le avremmo fatte vedere ai cittadini, li avremmo stanati definitivamente."

6) Gli ultimi sondaggi ci dicono che il centrodestra unito (Lega, Fi, FdI) potrebbe arrivare secondo e andare al ballottaggio con il Pd, più difficilmente con il M5S. La crisi ha generato rabbia che in parte è stata catturata dalla Lega che cavalca l'onda della paura, dell'odio verso il diverso e che si traduce nella demenziale guerra fra poveri. Quali le armi più efficaci per ribattere a questa narrazione? Azzardo una risposta: ripresa del conflitto capitale-lavoro. Sei d'accordo? Inoltre, visto che il secondo cavallo di battaglia della Lega è l''uscita dall'euro, a e che FI è interno alla famiglia del Ppe, sarà interessante capire chi mollerà.
"Lo scenario che si delineerebbe con i sondaggi che citi è terrificante. È senz'altro preferibile, al momento, un ballottaggio tra Pd e M5S e saprei per chi votare, senza alcuna esitazione. Sulla Lega, la sintesi che hai fatto nella domanda coglie bene i suoi caratteri salienti, la sua pericolosità, il suo esclusivo portato di barbarie. Aggiungo solo un elemento di analisi, per la sua indubbia rilevanza e per maggiore compiutezza: la grande mistificazione leghista, questa fabbrica dell'odio, della paura e della stupidità è ad ogni modo tutta interna all'ordine neoliberista ed è ad esso funzionale. Ne rappresenta una sua variante, la più esacerbata ed irresponsabile, proprio laddove distoglie le masse dalla lotta di classe che i ricchi conducono per riprodurre disuguaglianze ed individua il nemico sociale nell'immigrato, nel debole più debole di te.
La lega è il frutto più velenoso di anni ed anni di instupidimento politico di massa, di indifferenza, di sdoganamento continuo del razzismo, dell'eterno ritorno di un carattere fascista e pecorone del cosiddetto italiano medio, della perdita e della cancellazione della memoria storica. Anche della più recente: non si spiegherebbe altrimenti come un partito dato per morto e consegnato alle barzellette per le sue cialtronerie, per le sue maramalderie e per le tante ruberie abbia in così breve lasso di tempo potuto risalire la corrente ed arrivare a proporsi oggi come egemone del centrodestra.
Se vivessimo in una sana democrazia autenticamente liberale respingere la narrazione leghista sarebbe cosa facile. Basterebbe toglierle il diritto di parola, trattando il razzismo per quello che è: un reato. Karl Popper stesso, il più eminente liberaldemocratico, ammoniva che la democrazia della libertà e della tolleranza deve combattere un solo nemico e negargli cittadinanza. Lo individuava proprio in chi nega tolleranza ed invoca la negazione della cittadinanza per altri.
Con tutta evidenza, però, non viviamo nella democrazia liberale e nella società aperta sognata da Popper, ma in un Paese dove la madre dei cretini e dei fascisti è sempre incinta. Ed è così che non c'è trasmissione tv, telegiornale o pagina di giornale che non siano pronti ad ospitare Salvini o chi per lui e suonargli la gran cassa.
Il fenomeno leghista, in Italia, ha potuto e può contare su un sistema dell'informazione indulgente in cui pochissime sono rimaste le figure in grado di fare giornalismo serio e dove è ridotto ai minimi termini un alfabeto di base civile e democratico. La Lega, rispetto alle altre esperienze neofasciste e razziste che in Europa vanno temibilmente crescendo, ha un certo tratto farsesco e caricaturale, ma non per questo può essere sottovalutata e va combattuta.
Come? Tu azzardavi con la ripresa del conflitto capitale/lavoro. Lo auspico e non solo per combattere la Lega, ma sono tra coloro che pensano che il conflitto sociale per eccellenza non nasca per induzione politica, ma nei luoghi, con i tempi e per le modalità in cui i due fattori cardine della produzione di merci, beni, servizi e informazioni entrano in una relazione che è sempre dialettica, anche se in varia misura, intensità ed esito. La politica subentra dopo, quando prende la parte o del capitale o del lavoro o promuove un compromesso tra loro, come negli anni della socialdemocrazia e del Welfare state. Può essere anche decisiva per le sorti della lotta, come lo è stata negli ultimi 30 anni, quando si è schierata quasi tutta dalla parte del capitale, facendolo stravincere.
Oggi siamo a questo punto, in Italia ed in Europa. Il vero nodo da sciogliere diventa perciò questo: fino a che punto le democrazie europee e la stessa impalcatura Ue sono disposte a rinunciare delle proprie fondamenta civili per continuare nelle risposte sbagliate e fallimentari alla crisi economica e seguire la via ordoliberista che produce le tensioni sociali da cui si generano e prendono pretesto le pulsioni xenofobe e razziste, quelle del lepinismo in Francia o della Lega in Italia.
Se l'Europa e le sue articolazioni statuali dovessero proseguire sulla via del divorzio tra capitalismo finanziario e democrazia, sulla via della guerra, sulla via della cancellazione del welfare e sulla via della chiusura delle frontiere un nuovo medioevo è dietro l'angolo e lo scenario diventa inquietante: i segnali di dissoluzione dell'Ue sono manifesti e si stanno aprendo tutte quelle brecce che consentiranno l'ingresso in una nuova barbarie.
Abbandonare le politiche dell'austerità innanzitutto. Rimettere in campo una politica economica e sociale per battere le disuguaglianze: diritto all'abitare, servizi sociali, un reddito di dignità. Solo così sarà possibile rimuovere il pretesto leghista.
E, sul piano della politica estera, abbandonare le politiche di guerra e di destabilizzazione dei focolai mediorientali ed africani da cui fuggono i profughi: serve un nuovo ordine globale che batta davvero le disuguaglianze climatiche, sociali ed economiche.
La sfida, per una nuova sinistra internazionale per l'altro mondo possibile, è, pertanto, epocale e le linee del suo intervento in Italia sono tutte in questo grappolo di questioni. Anche per battere quelle narrazioni estreme che oggi sono diventate egemoni nel centro destra.
In questo contesto, Berlusconi ha già mollato ed è consapevole della fine del ciclo vitale di Forza Italia. I settori moderati della società, il nocciolo duro che ha formato la sua genesi, sono stati ammaliati dal renzismo e si apprestano a traslocare nel Partito della Nazione. Gli Alfano, i Cicchitto, i Verdini e i Bondi sono stati i battistrada nel ricomporre e nello stabilizzare il quadro politico secondo lo schema e i dettami dell'Europa delle larghe intese, con l'aggiunta di un condimento spericolatamente trasformista tipico del Belpaese.
A Berlusconi oggi non interessa la sorte del Centrodestra: l'ha già appaltata, di fatto, ai Salvini, alle Meloni e alle Santanchè e la loro ridondante visibilità sui suoi media ne è la testimonianza. Il loro estremismo minaccioso è funzionale ad alzare la posta della sua contrattazione politica per l'ultimo e suo più vero disegno: quello di preparare la successione nel suo impero economico in tutta sicurezza, con le stesse privilegiate guarentigie politiche che gli permisero il "miracolo" e che, per esempio, l'hanno tenuto al riparo da ogni normativa abortita sul conflitto di interessi o che hanno prodotto un oligopolio mediatico non ravvisabile in tutte le altre democrazie occidentali. Muoveva d'altronde da questo obiettivo la posta inconfessabile ma tangibile e reale messa in gioco nello stesso Patto del Nazareno: l'ennesima conferma dello stravolgimento che si opera a fini privati delle Istituzioni repubblicane e, allo stesso tempo, il peccato originale della nuova stagione renziana."

7) Veniamo alla sinistra. Da tempo si parla della necessità di creare un fronte comune fra tutte le forze anti-liberiste italiane, ma finora il processo stenta a decollare. Cosa ci puoi dire in merito? Inoltre, ritieni che la mancanza di un movimento di protesta come quello da cui è nato Podemos e la presenza di una forza di rottura come il M5S, che catalizza i voti dei delusi, possano rappresentare degli scogli insormontabili per la creazione di una sinistra che possa avere voce in capitolo a livello di rapporti di forza, oppure no?
"Il processo che si è aperto con il documento "Noi ci siamo, lanciamo la sfida" era un auspicabile punto di partenza e rispondeva, oltre che all'esigenza di ricostruire una forza unitaria della sinistra antiliberista, ad una domanda reale proveniente dalle basi delle singole e disperse frattaglie partitiche, oggi condannate all'irrilevanza. Non aveva però la presunzione di esaurirsi in una chiamata di correo di un ceto politico residuale perchè si potesse riproporre tale e quale nella nuova formazione, ma apriva, per l'appunto, alla necessità di un processo costituente e democratico, sulla base del principio una testa un voto, e si apriva alla possibilità di intercettare un campo della sinistra molto più largo rispetto ai ristretti perimetri delle forze partitiche oggi malmessamente in gioco: quello di una sinistra di base diffusa sul terreno dei movimenti, delle coalizioni sociali, delle vertenze territoriali per il lavoro, il reddito, la casa, il nuovo welfare, i diritti civili e di genere e i beni comuni, delle buone pratiche associative, del volontariato, delle resistenze al neoliberismo ed alla mercificazione della vita, dell'impegno per la pace, l'accoglienza dei migranti e la cooperazione.
Queste esperienze sono portatrici di uno straordinario valore aggiunto, producono l'unico conflitto reale che è oggi possibile ravvisare nella società italiana, ma, dopo essere state respinte ai margini dalla sinistra tradizionale, hanno trasferito la loro azione direttamente nella società, rifiutando ogni intermediazione politica, essendone state deluse o scoraggiate, guardando magari verso il M5S o eleggendo l'astensionismo elettorale come estrema forma di dissenso. Lo stato di persistente disconnessione tra i due mondi e la loro mancata contaminazione porta con sé il rischio, in tutto evidente, di un doppio corto circuito: per la sinistra politica dei partiti la mancata rigenerazione vitale, fino al suo esaurimento, che solo un bagno nelle realtà di queste esperienze le avrebbe potuto garantire anche in termini di ricambio della classe dirigente, ma soprattutto nei termini di una nuova lettura critica ed aggiornata della società, delle sue frequenze, delle sue istanze e delle sue pratiche; per quella sociale dei movimenti la mancata "rilevanza" politica delle sue battaglie, con l'unico risultato che i tanti sforzi compiuti sul piano del conflitto sociale e della partecipazione civica stentano per l'appunto a farsi "politica", ovvero leggi, decisioni, gestioni dirette delle problematiche affrontate, e "massa critica" per un'alternativa di governo. Così tutto rimane come prima anche quando, apparentemente, si conseguono dei successi. Il caso del referendum tradito per l'acqua pubblica è, a conferma di questa tesi, esemplare.
Il percorso delineato con il documento citato poteva riaprire questa partita e rappresentava uno stimolo, una prima sollecitazione a muoversi anche in questa essenziale direzione, a riaccendere una scintilla affinché l'unità di una nuova sinistra procedesse e scaturisse da una doppia direzione di marcia, dall'alto verso il basso e viceversa. Tutto ciò nella consapevolezza che dall'alto sarebbe stata portata a termine solo una mera operazione politicista per niente attrattiva e condannata al fallimento, mentre dal basso stavolta non sarebbe venuto niente: se in Italia, negli anni più cruenti della nostra crisi, non è nato un movimento come Podemos, ma abbiamo i cinque stelle una ragione ci sarà e l'ho abbozzata via via nelle risposte precedenti.
Ora, in questo preciso istante, a soli tre mesi da quel tentativo, siamo di nuovo ad un punto morto, con il rischio aggiuntivo che le imminenti elezioni amministrative possano rivelarsi un bagno di sangue per tutte le articolazioni della sinistra politica, visti i ritardi con cui si sono approssimate a questo appuntamento e le incongruenze riscontrabili nella volontà reale di dare vita ad un processo unitario realmente alternativo, nelle scelte di campo, nei necessari approfondimenti programmatici, negli stessi progetti di comunità da mettere a disposizione delle città.
Varie e diffuse sono le responsabilità, ma su tutte giganteggia l'atteggiamento dei vertici di Sel. Hanno sottoscritto il documento Noi ci siamo, ma hanno subito dopo dato vita al gruppo parlamentare di Sinistra Italiana con i transfughi del Pd, con la presunzione che il nuovo soggetto chiudesse il cerchio del percorso unitario e ne blindasse preventivamente dirigenza, organizzazione e progettualità; hanno fallito in questa operazione portando all'attuale stallo, non senza avere prima preteso lo scioglimento coatto di tutte le identità politiche ed organizzative pur incontestabilmente promotrici di unità come Rifondazione o del tutto disponibili ed aperte al confronto, come Possibile; si sono infine rifugiati nell'anonimato giovanilista di un risibile appello all'autoconvocazione di un'assemblea presuntuosamente costituente con lo scopo di ottenere per via surrettizia lo stesso obiettivo fallito in precedenza, con l'unico risultato di aver creato ripulse ed ulteriori irrigidimenti ed aver generato una moltiplicazione francamente ridicola di appelli che spaccano il capello in parti infinitesimali e continuano a parlarsi addosso.
Perchè questo atteggiamento da parte di Sel? E, soprattutto, è quella che emerge da queste performances ultrapoliticiste l'idea della nuova sinistra che serve al Paese? La verità è che Sinistra e Libertà è giunta al capolinea e sono venute oggi al pettine tutte le sue contraddizioni. Siamo ad un'implosione che non si vuol riconoscere come tale, si declama la ragione sociale alternativa della ditta, ma si continua a ciurlare nel manico dell'alleanza col Pd, tra sogni neoulivisti, speranze di resuscitare il centrosinistra, eterni richiami al voto utile contro le destre, come se nel Pd, al governo del Paese e con le sue politiche non sia successo niente, perfino proclami a reiterare strategicamente una coalizione con Renzi, anche nella versione Partito della Nazione, come la vicenda milanese ci ragguaglia.
Non se ne esce come vorrebbe Sel, pretendendo di nascondere queste sue contraddizioni trasferendole intatte nel nuovo soggetto. Personalmente, non sarei mai disponibile a perdere tempo e a rodermi il fegato in un contesto in cui si dovessero riproporre discussioni morbose ed estenuanti se partecipare o no alle primarie col Pd ed altre consimili amenità. Come me, presumo, la stessa base reale di Sel; come me, è dichiarato, tutti i militanti di Rifondazione, di Possibile, della sinistra sociale, dei movimenti ecc.
L'unica sinistra unitaria possibile in Italia è quella antiliberista, costitutivamente plurale, democratica sul piano organizzativo ed alternativa al Pd, perchè sono oggi il Pd ed il suo governo i depositari del discorso neoliberale, i mandatari dell'Europa del rigore, sono loro ad esercitare una funzione conservatrice nelle Istituzioni e nella società, a porsi di traverso al cambiamento che serve al Paese ed alla sua riforma.
Detto questo, avanti con il processo unitario per una sinistra innanzitutto coerente che faccia proprio il motto biblico: il tuo si sia sia sì, il tuo no sia no; una precondizione perchè la sinistra torni a farsi capire dalla sua gente.
Avanti per l'unità, ma convinti che serve un profondo ricambio di classe dirigente e, come ha ben scritto Paolo Ciofi, un repulisti dei ciarlatani che vorrebbero utilizzare anche il nuovo soggetto come un taxi con destinazione poltrone e strapuntini. Chiaro no?"

8) Le sinistre europee, dopo la resa forzata di Tsipras, si stanno interrogando sul metodo di lotta da mettere in atto per uscire dalla perversa logica dell'austerity, Alcuni esponenti di primo piano, penso a De Masi, eurodeputato della Die Linke, sostengono che sia arrivato il momento di pianificare un piano b di uscita. Dino Greco, ex direttore di Liberazione, a tal proposito ha scritto “è necessario il recupero di una sovranità nazionale da incardinare su una strategia di riunificazione e difesa del lavoro e su una nuova tessitura solidaristica capace di trascendere i confini nazionali per costruire, su una proposta finalmente chiara, una trama democratica che l’attuale assetto dei poteri europei impedisce in radice.” Cosa ne pensi?
"Ecco, tanto per cominciare, il linguaggio iniziatico di Greco sarebbe il peggior avvio per lottare proficuamente contro l'Europa dell'austerity. Ed anche le motivazioni recondite del suo ragionamento, tutte e solo funzionali alle beghe ed alle dinamiche frazioniste interne ad alcuni pezzi della sinistra radicale italiana, sono inservibili a quel fine.
Parliamo invece di cose serie: il teatro della battaglia è l'Europa ed è ad un livello sovranazionale che le truppe oggi sparse della sinistra europea antiausterity ed antiliberista, ma anche pacifista e ambientalista, devono essere riorganizzate. Evocare rotture senza una strategia di atterraggio o parlare di più o meno fantomatici Piani B, senza avere chiaro un disegno politico alternativo è come parlare del sesso degli angeli, nè più nè meno di un'esercitazione spirituale.
La vicenda greca ci ha insegnato innanzitutto che da soli, anche se alle tue spalle vi è un popolo intero, non si riesce a scalfire e ad infrangere i muri della costruzione antidemocratica dell'Ue.
La prima cosa da fare oggi è una verifica delle potenzialità e delle capacità di raccordo e di coordinamento per l'elaborazione di una strategia e di un'azione comuni di tutte quelle esperienze nazionali, di governo, politiche e di movimento sociale che si pongono come obiettivo un'uscita da sinistra dalla crisi economica, politica, istituzionale, culturale e morale dell'Europa.
L'idea è quella di una conferenza internazionale, sul modello dei Social Forum, cui prendano parte tutte le forze che ho richiamato. Le voglio citare, per essere chiaro: il nuovo Labour di Corbyn, il Sinn Fein di Gerry Adams, gli indipendentisti scozzesi di Nicola Sturgeon, gli appartenenti al Gue/Ngl del parlamento europeo e le forze che si richiamano alla Sinistra Europea, le appendici critiche del socialismo europeo, i partiti ambientalisti, il Front De Gauche francese, la Linke tedesca, l'Izquierda Unida spagnola, la sinistra radicale italiana con tutte le sue articolazioni ed insieme a Possibile di Civati, il Bloco de Esquerda portoghese, i partiti comunisti, la Syriza di Tsipras e il Podemos di Pablo Iglesias. Ma non solo: dovrebbero contribuire gli intellettuali, gli economisti critici, le forze sindacali, i movimenti e le organizzazioni sociali, in una parola l'Europa dei popoli.
A cosa dovrebbe servire un simile momento costituente? A produrre una dichiarazione di intenti per una nuova Europa e, verificatene la possibilità e l'urgenza, varare un coordinamento sovranazionale stabile e permanente delle sinistre politiche e sociali, per fare fronte comune, massa critica ed intraprendere programmi, strategie di lotta e di iniziativa congiunte.
Eccola una proposta politica concreta e fattibile, per mettere in campo un metodo più efficace di lotta contro l'Europa dell'austerità. Se Iglesias, la tedesca Kipping, Tsipras e Corbyn si decidessero a questo passo, io credo che tutto diventerebbe più chiaro, più semplice e più utile a riaccendere quel "nuovo focolare di energie morali" tra i popoli europei".

Fonte: ParolaPolitica.it

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.