La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 7 gennaio 2016

Le sale d’aspetto per il nuovo mondo

di Linda Chiaromonte
È stata una porta d’ingresso al nuovo mondo, l’approdo per più di dodici milioni di persone che sognavano l’America che hanno lasciato i loro paesi in cerca di fortuna, lavoro, o semplicemente per sfuggire alla miseria fra il 1892 e il 1954. A Ellis Island, l’isolotto nella baia di New York, che ha accolto e respinto uomini e donne che raggiungevano quel fazzoletto di terra dopo viaggi estenuanti, arrivavano tutti con la speranza di una vita migliore. Nell’edificio dell’ex ospedale, chiuso e abbandonato dal 1954, lasciato all’incuria e al degrado fino a poco più di un anno fa, si facevano i primi controlli e le visite mediche. Lì i malati, i disabili e chi presentava turbe psichiche, veniva contrassegnato da una lettera scritta sulla schiena con il gesso.
Soggetti pericolosi
«Ellis Island ha rappresentato il luogo della speranza, ma anche del lutto e del dolore», spiega Raffaella Baritono, docente di Storia e Politica degli Stati Uniti d’America a Scienze politiche dell’Università di Bologna. «È l’isola dove venne installata la Statua della Libertà con alla base il sonetto di Emma Lazarus che meglio esprimeva, nell’Ottocento, l’idea dell’approdo e dell’accoglienza, del rifugio per le masse oppresse da miseria e tirannia. La realtà era molto diversa, anche se fino al 1921 e al 1924 gli Stati Uniti non ebbero leggi restrittive sull’immigrazione (salvo un provvedimento che riguardava solo quella asiatica), e i controlli operati a Ellis Island tendevano a evitare l’ingresso di persone con tare genetiche. La maggior parte si fermava nelle grandi città industriali. Tra il 1860 e il 1900 furono circa 14 milioni gli ingressi negli Stati Uniti soprattutto lavoratori generici, contadini, forza lavoro a basso costo utile per le imprese che stavano adottando la catena di montaggio e spesso utilizzavano gli immigrati non specializzati come strumento di pressione nei riguardi dei lavoratori specializzati e sindacalizzati. Immigrati provenienti soprattutto dall’Europa sud-orientale, contesti considerati pericolosi per la democrazia americana. Non a caso dall’inaugurazione di Ellis Island nel 1892 si può parlare di una questione immigrazione, con il contributo di scienziati sociali, intellettuali, politici, alcuni dei quali, utilizzando parametri del darwinismo, ritenevano pericoloso l’ingresso di individui che, per la forma del cranio e i tratti somatici, erano più vicini ai neri che non al superiore individuo di razza anglo-sassone. Anche se le pressioni provenienti dal mondo industriale bloccarono le richieste di leggi più restrittive, dal punto di vista culturale l’immigrato come soggetto pericoloso produsse, soprattutto con la guerra mondiale e nello scenario del conflitto di classe, l’equazione immigrati uguale anarchici, uguale un-American. Le reti dell’accoglienza erano soprattutto familiari, di paese, esistevano vere e proprie catene immigratorie. Nella realtà americana era assente un sistema di welfare state, l’assistenza era sostenuta da associazioni filantropiche private e dai social settlements, creati nei quartieri più poveri delle città su iniziativa privata, social workers che organizzavano corsi di inglese, economia domestica e che collaboravano con i governi municipali».
Fratture democratiche
Soprattutto per gli italiani quella fase migratoria si contraddistinse per essere temporanea, seguita dal ritorno al paese d’origine e ad un’altra partenza dopo qualche tempo. «Le leggi sulla cittadinanza prevedevano almeno cinque anni di residenza, l’alfabetizzazione e la comprensione della costituzione. Fino ai primi del Novecento le leggi elettorali prevedevano anche per i residenti non naturalizzati la possibilità di votare per alcune cariche locali».
Oggi Ellis Island è il luogo della memoria, da lì sono passati gli antenati di gran parte degli attuali cittadini americani. «Ci sono le radici di un melting pot mai realizzato pienamente, più proclamato che reso effettivo se si pensa alle tante linee di frattura e alle contraddizioni della democrazia americana», conclude la Baritono. Oltre a rappresentare un tassello fondamentale per la storia americana e mondiale, Ellis Island è uno scrigno in cui si conservano le tracce di vita di tutti coloro che vi sono transitati e dove si decidevano le sorti di chi aspirava a diventare un nuovo cittadino americano.
Non ci sono dati precisi su quanti lo siano diventati effettivamente, spiega Stefano Luconi, docente di storia degli Stati Uniti d’America all’Università di Padova, esperto del fenomeno migratorio. «Le statistiche sull’immigrazione non prendono in considerazione il porto di ingresso. Dalla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti vararono disposizioni per vietare la cittadinanza a prostitute, pregiudicati, mendicati, indigenti e individui con gravi handicap fisici o incapaci di provvedere a se stessi, analfabeti, malati. Nell’ospedale si ricoveravano e tenevano in osservazione i malati. L’internamento poteva durare settimane e avere come esito l’ammissione o la reiezione dagli Stati Uniti. Poi c’erano i controlli legali e quelli per stabilire la capacità dei potenziali immigrati di provvedere a se stessi, dal 1917 anche la prova per appurare l’eventuale analfabetismo. Esistevano dormitori per ospitare temporaneamente chi era in attesa di un parente già residente che garantiva di occuparsi di chi era privo di mezzi di sostentamento. Ai gruppi familiari capitava spesso di essere separati. Dal 1990 Ellis Island è divenuto un museo per documentare l’immigrazione negli Stati Uniti. Il progetto, pur attestando gli aspetti drammatici dell’esperienza di molti migranti, anche in termini di ostracismo sociale e di xenofobia, tende tuttavia a fornire una lettura celebrativa degli Stati Uniti come nazione di immigrati e terra d’accoglienza. L’immigrazione non fu solo un’esperienza di successo. Molti furono i rimpatri, a volte per l’impossibilità di inserirsi e realizzare il proprio sogno americano, a volte per una volontà di impermanenza del progetto migratorio, l’ambizione di numerosi italiani era lavorare duramente, risparmiare e tornare in Italia a godersi i frutti delle proprie fatiche. Questa dimensione si perde se si documenta l’immigrazione solo come trasferimento definitivo negli Stati Uniti, se non si conferisce cioè il dovuto rilievo ai flussi in uscita. Il Museo dell’Immigrazione di Ellis Island ha intrapreso anche un progetto di storia orale, gli informatori però sono esclusivamente persone rimaste negli Stati Uniti, così resta in ombra l’aspetto del ritorno dei migranti».
Un improprio paragone
È facile pensare ad un parallelismo con ciò che accade oggi sulle coste del Mediterraneo, ma è un confronto azzardato come spiega Leconi: «il paragone con Lampedusa è assolutamente improponibile. Coloro che arrivavano a Ellis Island non violavano nessuna normativa sull’immigrazione. Anche se poteva esser loro negato l’ingresso negli Stati Uniti, non si trattava di persone giunte illegalmente sull’isola. Le navi erano autorizzate dalle autorità federali americane. Una legge statunitense del 1908 stabilì che potevano attraccare solo i transatlantici che assicuravano standard predefiniti di sicurezza e condizioni igieniche. Il provvedimento era applicato con estremo rigore a New York. Alcune compagnie di navigazione, fra cui una italiana, iniziarono a fare scalo più a Sud, nel porto di New Orleans, dove le autorità erano più tolleranti. La legge del 1901 di tutela degli emigranti stabilì per le compagnie di ottenere una licenza il cui rilascio e rinnovo erano subordinati all’ottemperanza di alcune garanzie per i passeggeri. La legge fu spesso inapplicata e le navi restarono talvolta delle carrette del mare, ma il quadro del trasporto era, comunque, di assoluta legalità. Lo dimostra la legge del 1901 che obbligava le compagnie a risarcire gli emigranti nel caso di respingimento al porto di sbarco per condizioni pregresse del passeggero conosciute dalla compagnia stessa al momento della vendita del biglietto. Poi c’era sempre il caso di qualcuno che, vistosi negato l’ingresso negli Stati Uniti, durante l’internamento a Ellis Island nell’attesa di una imbarcazione che lo riportasse in Europa, si tuffava in mare per cercare di raggiungere clandestinamente a nuoto New York. Ma si trattò di casi limite. I viaggi per mare nel Mediterraneo sono oggi l’anticamera della clandestinità, i viaggi verso Ellis Island erano la premessa di un ingresso legale negli Stati Uniti. Centri di accoglienza come Lampedusa sono una specie di lager dove l’inosservanza dei diritti dell’individuo è all’ordine del giorno. Non era il caso di Ellis Island. L’analogia tra le due esperienze non è possibile».

INSTALLAZIONI, VIDEO E ALBUM FOTOGRAFICI

Muri sbrecciati, finestre rotte. Stanze e corridoi abbandonati per più di sessant’anni, desolazione, silenzio, vuoto. È l’edificio del vecchio ospedale dell’immigrazione di Ellis Island che da più di un anno ha riaperto le porte ai visitatori, dopo una lunga ristrutturazione, e che l’artista francese JR nell’agosto 2014 ha fatto rivivere e ripopolato con le figure di chi è transitato da lì nei primi del ‘900. L’installazione «Unframed Ellis Island» ha un forte impatto emotivo e simbolico. Le foto di persone comuni, infermieri, dottori, bambini, conservate nell’archivio sono state stampate su carta in bianco e nero e a grandezza naturale e incollate alle pareti. La memoria di quel luogo è riemersa con grande umanità. Visi che ci guardano dal passato in controluce, gente accovacciata, in fila con i bagagli legati da una corda. Sagome sui vetri che affacciano sulla statua della libertà, sogno di tutti i migranti dell’epoca. Il lavoro è diventato anche un breve e intenso cortometraggio «Ellis», diretto da JR con Robert De Niro, che nell’albero genealogico ha antenati che passarono proprio da Ellis Island, e un libro fotografico con i disegni di Art Spiegelman, edito da Damiani. 

Fonte: il manifesto 

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