La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 8 gennaio 2016

Senza politica economica non c’è speranza

di Roberto Romano 
Il 2016 si è aperto con tante e tali contraddizioni che sarebbe difficile dare un senso al presente e al futuro prossimo. Il prezzo del petrolio è in caduta libera, le borse viaggiano a corrente alterna e con picchi che sono più di un campanello d’allarme; la Cina proprio non riesce a guidare il rallentamento della crescita economica fondata sulle esportazioni - la domanda interna non è ancora sufficiente per sostenerla -; i paesi emergenti manifestano segnali negativi che potrebbero diventare un po’ peggio di negativi dato l’aumento dei tassi di interesse della FED - una parte consistente del loro debito è nominato in dollari -. Poi abbiamo i paesi a capitalismo avanzato e/o maturo che proprio non riescono a consolidare la crescita: ci sono paesi che registrano una crescita lenta, altri che nei decimali costruiscono riscatti mediatici modello stars wars il ritorno dello Jedi, altri paesi sono in recessione e con una struttura produttiva dimezzata. Proprio nei momenti di grande crisi il sistema economico –capitalista- si rigenera disegnando nuove istituzioni e politiche. In altri termini siamo vivendo una fase molto particolare, cioè stiamo passando dal Minsky process al Minsky moment (A. Variato, A, Vercelli). 
Servirebbero grandi orizzonti e convezioni condivise. Il ’29, purtroppo, non è riproponibile. Le politiche espansive erano fondate su sistemi economici chiusi e poco integrati. Le politiche pubbliche potevano essere potenti ed efficaci sia in termini normativi-regolativi, sia in termini di politica economica espansiva. L’integrazione economico-finanziaria degli anni ’80 cambia lo scenario internazionale e, piaccia o non piaccia, lo cambia per sempre. Servirebbe una politica economica sovranazionale con istituzioni adeguate. Si potrebbe tentare la via intermedia delle istituzioni regionali, ma l’esperienza europea non rappresenta un paradigma all’altezza della sfida che deve affrontare. Ancora troppi gli interessi particolari che condizionano lo sviluppo di questa area economica. Si pensi al sistema creditizio e ai crediti incagliati. Germania e Francia hanno utilizzato denaro pubblico per coprire (nascondere) la polvere sotto il tappeto - gli aiuti di Stato concessi alle banche tedesche a fine 2014 ammontavano a 238 mld di euro (8,2 per cento del PIL tedesco) -, mentre l’idea di Banca Italia di utilizzare il Fondo Interbancario di Tutela dei depositi per assorbire i rischi relativi ai crediti deteriorati, congiuntamente alle risorse apportate da altre banche, per guidare la crisi di alcuni istituti creditizi italiani, è stato considerato aiuto di Stato. L’Europa in questo modo ha perso una ulteriore occosione per essere o diventare Unione Europea.
Il vertice di Parigi sull’ambiente e l’energia COP 21 poteva o potrebbe essere una occasione storica, ma è già stato risucchiato dalla contingenza. Il medio oriente è in fibrillazione, le guerre sono all’ordine del giorno, come quella di alcuni paesi che contrastano la crescita della green economy con l’immissione nel mercato di petrolio a bassissimo prezzo – 30 dollari al barile -. Avvicinarci alla green economy senza dialogare con i paesi che vivono solo con l’estrazione di petrolio è abbastanza miope. Le borse poi riescono a ingigantire tutto con il loro comportamento pro-ciclico: amplificano il segno più o meno di tutti i fenomeni economici. Così come hanno amplificato e ridotto le potenzialità di crescita dell’ICT del 2001 – qualcuno si ricorderà Tiscali che aveva un valore molto più alto della Fiat -, allo stesso tempo potrebbe amplificare e bruciare la crescita della green economy. Infatti, le grandi crisi di struttura sono sempre aperte da comportamenti erratici delle materie prime che ricadono successivamente sull’economia reale. Qualcuno potrebbe sostenere che la green economy non è materia prima, ma sarebbe il caso di considerare che le materie seconde con il tempo diventano materie prime (P. Leon).
L’Italia sarebbe anche un Paese che potrebbe dire la sua, ma passo dopo passo sta uscendo dal novero delle potenze economiche. Il Center for Economics Business and Research (Gran Bretagna) segnala che l’Italia uscirà dall’élite dei Paesi industrializzati. Le previsioni a lungo termine (2030-2050) non sono mai da prendere troppo sul serio, troppe le variabili che possono condizionare il corso dello sviluppo, ma la storia recente del Paese e le politiche economiche adottate negli ultimi 15 anni hanno eroso quel che di buono era stato fatto negli anni dello sviluppo economico. I paesi che hanno un minimo di politica economica e programmazione in qualche modo riescono ad arginare il quotidiano. Ci si mettono anche le associazioni dei consumatori. Codacons denuncia la crescita di tariffe e prezzi indotta dai provvedimenti del governo per 551 euro a famiglia. È un problema? Lo diventa solo se i salari non crescono della stessa misura. Tutte le associazioni dei consumatori guardano al dito e non alla luna, e sono oscurati dalla matrice interpretativa neoclassica dei fenomeni economici e, quindi, non possono aiutare a trovare una soluzione dei problemi. Vedono solo le politiche dal lato dell’offerta: prezzo e quantità marginale. Un altro problema culturale che si aggiunge a quelli che dobbiamo affrontare quotidianamente.
Mentre scivoliamo ai margini dei paesi che contano, raccontiamo al paese che stiamo risalendo. Questioni di punti di vista? Se lo fosse sarebbe drammatico perché non ci sarebbe speranza. Meglio l’interesse personale, l’inettitudine o la malafede.
L’Italia è ai margini dei paesi che contano da molto tempo; sono almeno 15 anni che non riusciamo ad avvicinare i Paesi europei per crescita economica, produzione e intensità tecnologica degli investimenti, con dei tassi di occupazione che dovrebbero far arrossire tutte le persone perbene. Non si tratta di problemi strutturali, piuttosto una questione di struttura che nessun politico ha voluto affrontare per inettitudine, comodità e brama di potere. Lo slogan “meno tasse - più sviluppo” ha distrutto la politica economica, fiscale e compromesso lo stato sociale, senza considerare gli effetti sulla crescita economica. Occuparsi di struttura produttiva è poco fashion. Per questo siamo già usciti dai paesi che contano e, purtroppo, stiamo uscendo anche dai paesi che meritano almeno di essere ascoltati. Il cellulare del governo italiano forse lo conosce solo il presidente del consiglio.

Fonte: controlacrisi.org 

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