La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 6 gennaio 2016

Il fondamentalismo islamico e la questione israelo-palestinese

di Aurora Trotta 
Difficile è il tentativo di organizzare fatti e avvenimenti della storia recente del Medioriente, ancora di più lo è capire le ragioni del successo di gruppi fondamentalisti di matrice islamica, i quali hanno iniziato a sconvolgere l’Occidente dal 2001 in poi, suscitando reazioni non del tutto limpide da parte della classe politica e sentimenti facilmente strumentalizzabili ai fini dei problemi interni al mondo occidentale. La necessità, comunque, di parlare della “questione mediorientale” con la volontà di scioglierne i nodi e di interpretarla con l’obiettivo di risolverne la complessità, non è solo più urgente che mai, ma è anche la sfida mai recepita lasciata dalla decolonizzazione a tutta l’umanità.
L’intento di questo articolo è quello di individuare una spiegazione storico-politica che possa dare ragione del successo dell’islamismo fondamentalista come ideologia politica, all’interno di un determinato contesto quale il conflitto in Palestina.
In questo senso è utile individuare nel 1967 e nella Guerra dei Sei Giorni una sorta di crocevia storico, prima del quale il popolo palestinese si affida al panarabismo, che in quel momento è visto come l’unica prospettiva politica in grado di rappresentare la sua tensione anticoloniale, emancipatrice e nazionalista e dopo la quale è possibile notare un progressivo rafforzamento della proposta politica islamista. Non di secondo piano sono le interferenze della Guerra Fredda, che interagisce con i due attori del conflitto arabo-israeliano secondo tracciati ambigui e tutt’oggi motivo di discussione.
“Al-Nakba”: dalla catastrofe del 1948 alla Guerra dei Sei Giorni
Alla Guerra dei Sei Giorni si arriva sull’onda lunga delle conseguenze che il 1948 e la nascita dello Stato d’Israele hanno provocato. In questo caso furono tre le forze in conflitto: gli israeliani, gli arabi e la diplomazia angloamericana. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le richieste di insediamento ufficiale in Palestina da parte degli Israeliani crearono una situazione di generale tensione delle forze in campo. E’ giusto approfondire preliminarmente la questione dell’insediamento israeliano in Palestina. L’ondata di antisemitismo che durante il XIX e XX sec. invase tutto il mondo occidentale, in particolare l’Europa e la Russia, determinò nella comunità ebraica reazioni improntate alla salvaguardia di sé e della propria identità culturale e religiosa. Con il crescere dei soprusi e delle violenze antisemite, crebbe all’interno di alcune sue componenti la necessità di identificarsi in una propria organizzazione politica e in un proprio territorio, vista ormai le tendenze assimilatrici e in alcuni casi oppressive degli Stati nazionali: da qui l’idea del sionismo politico che mirava al ritorno in Palestina per la costituzione di uno Stato Ebraico. L’idea dello Stato Ebraico fu elaborata da Theodor Herzl, fondatore del movimento, ambiguamente ignorata dalle potenze mondiali. Il flusso migratorio proseguì fino a raggiungere i suoi picchi durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la popolazione araba iniziò a sentirsi minacciata. Dopo il conflitto mondiale le potenze vincitrici si trovarono perciò nella situazione di dover risolvere, in un clima crescente da decolonizzazione, la situazione venutasi a creare in Palestina e ormai destinata a un punto di non ritorno a causa del forte flusso migratorio ebraico. Nella fattispecie la diplomazia angloamericana si ritrovò incapace di prendere una posizione sulla situazione e questo principalmente perché all’epoca dei fatti, il movimento sionista da un lato e la Lega araba dall’altra, avevano già maturato una chiara identità nazionalistica rigettando nettamente l’opzione offerta alle due parti in questione e concernente la formazione di province autonome arabe e israeliane sotto mandato fiduciario internazionale. Successivamente, l’esplodere del terrorismo israeliano contro i britannici, con l’attentato al King David Hotel nel 1946, portò gli americani a spingere per una soluzione il più possibile conciliante, arrivando così alla “dichiarazione dello Yom Kippur” fatta dal presidente Truman, che riconobbe la presenza dello Stato d’Israele e di uno Stato arabo. Il problema materiale che si presentò fu quale porzione di territorio potesse soddisfare le ambizioni israeliane. Così si arrivò alla costituzione di un Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (UNSCOP). Le Nazioni Unite, alle quali era ormai passata la responsabilità della questione, optarono per il non coinvolgimento delle superpotenze e degli Stati arabi (le cui simpatie di parte erano ritenute pericolose), dando la responsabilità della questione a Paesi membri delle Nazioni Unite come il Perù, l’Uruguay, il Guatemala, la Svezia, i Paesi Bassi, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, l’Iran, l’India, il Canada e l’Australia. La risposta degli arabi fu sostanzialmente il boicottaggio di ogni iniziativa internazionale che avrebbe potuto decidere sul futuro degli arabi-palestinesi. In questo clima venne presentato il Rapporto dell’UNSCOP all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che prevedeva la spartizione della Palestina in due Stati e allo stesso tempo la collaborazione tra i due Stati dal punto di vista economico. Proprio questo punto, oltre che la presenza massiccia di popolazione araba nel territorio israeliano, venne usato un po’ da tutti fino al progressivo fallimento dell’Accordo. Gli Arabi infatti criticarono il rapporto sostenendo che esso fosse iniquo nei confronti del loro popolo, vessato da continue sofferenze. Con essi si schierarono i britannici, sostenendo che la linea di divisione fosse “ingiusta” e di fatto protendendo per una soluzione della questione da rimandare alle sole due parti direttamente interessate, arabi e israeliani. Alla fine il 25 Novembre 1947 il Comitato ad hoc sulla questione della Palestina approvò il piano dell’UNSCOP (favorito dai rapporti tra Israele e gli USA e tra Weizmann, primo presidente dello Stato di Israele e Lèon Blum, all’epoca al governo della Francia). Questa votazione, che vide un alto numero di astensioni, portò alla fine (graduale) del mandato britannico in Palestina, spalancando le porte alla nascita nel 1948 dello Stato di Israele. Sul versante arabo questa decisione destò aspre critiche e proteste, tanto che l’Alto comitato arabo dichiarò uno sciopero generale per il 2 – 4 dicembre 1947. Le proteste diventarono sempre meno pacifiche, tanto da parte araba che ebraica. Alla fine i britannici (ancora occupanti la Palestina, secondo il principio del gradualismo) decisero di perseguire una politica sempre più minimalista, così da evitare di perdere parte del loro esercito nel conflitto, fino al totale ritiro dalla Palestina. I palestinesi, aiutati dai già formati Stati arabi, e gli israeliani non ebbero più nessun vincolo che li trattenesse dall’organizzazione e dallo schieramento degli eserciti in vista dello scoppio del conflitto, avvenuto il 14 Maggio 1948, giorno ufficiale della fine del mandato britannico. Lo Stato d’Israele venne riconosciuto subito da entrambe le superpotenze (il ruolo dell’URSS all’interno del conflitto è ancora oggi difficile da interpretare per la storiografia). Gli Stati Arabi schieratisi contro Israele (Egitto, Libano, Siria, Giordania, Iraq e Arabia Saudita) attaccarono lo Stato d’Israele il 15 Maggio 1948, sancendo l’inizio della prima Guerra arabo-israeliana. La loro preparazione era scarsa e inoltre gli appoggi americani e francesi, misero Israele in una posizione di vantaggio. La guerra terminò con gli accordi di pace del febbraio del 1949, che confermarono il riconoscimento occidentale dello Stato d’Israele e la presenza araba in alcune province autonome della Palestina, senza però delimitarne i confini, che esplicitamente vengono definiti come non politici e territoriali, rimandando al futuro la questione. Dal senso di fallimento degli arabi emerse una nuova figura in Egitto, leader della rivoluzione egiziana e del Movimento dei Liberi Ufficiali, Gamal Nasser. La sua ascesa fu il risultato della ormai matura volontà del popolo egiziano di mettere fine al dominio coloniale britannico, diventando presto un leader di spicco nella Lega Araba grazie alla sua determinazione -mai dimostrata da altri leader arabi- nel perseguire la causa anticoloniale. E infatti nel 1954 i britannici si ritirarono dal canale di Suez, sancendo l’inizio del processo di decolonizzazione in Egitto. Parallelamente le relazioni tra arabi e israeliani cominciarono a deteriorarsi in un crescendo di attentati terroristici. Nello stesso tempo il panorama politico mediorientale iniziò ad essere inscritto nella logica della Guerra Fredda. Infatti, la richiesta da parte di Nasser di un finanziamento agli Stati Uniti per la creazione della diga di Assuan e allo stesso tempo le sempre più fitte relazioni diplomatiche tra l’Egitto e l’Urss, portano gli Stati Uniti a negare il finanziamento e l’Egitto a nazionalizzare il Canale di Suez, consacrando la sua alleanza con l’URSS. La decisione di Nasser preoccupò non poco i governi francese e britannico, tanto che decisero di coinvolgere Israele (in quella che venne definita la “collusione” con Israele) nella questione fungendo quasi da braccio armato per le due potenze. Degli accordi segreti anglo-franco-israeliani era stato tenuto allo scuro Eisenhower, che rispose negativamente all’azione militare dei suoi alleati francesi e inglesi contro l’Egitto. Le conseguenze del conflitto, quindi, portarono alla caduta definitiva delle potenze coloniali (sancita definitivamente con la rivoluzione in Iraq e le tensioni in Algeria nel 1958); alla progressiva affermazione del primato statunitense nel Medio Oriente, dichiarato nella “dottrina Eisenhower” (che consiste nell’aiuto ai Paesi mediorientali per qualsiasi iniziativa contro il comunismo) e all’ affermazione di Nasser quale leader indiscusso della popolazione araba. Nel 1957 Eisenhower, dopo una lunga serie di accordi, ottenne il ritiro di Israele dal Sinai, in cambio però della sua occupazione da parte delle truppe internazionali garantite dall’ONU (UNEF) e della tutela internazionale dello stretto di Tiran. Questa soluzione portò gli israeliani a maturare la convinzione della necessità di un nuovo avvicinamento a Washington, azione facilitata dal lobbying della comunità ebraica americana sul Congresso. Nel frattempo all’interno del popolo palestinese cresceva la sfiducia nei confronti della Lega Araba, accusata di autoreferenzialismo. E’ così che maturò una nuova generazione di politici palestinesi il cui leader, Yasser Arafat, divenne presto il simbolo della causa palestinese. Da questa generazione, nel 1959, nacque al-Fatah, il cui giornale “Filastinuna” proclamava la rinascita della coscienza politica palestinese. Il 1963 invece è l’anno della creazione da parte di Israele di una rete idrica nazionale che avrebbe incanalato le acque del fiume Giordano verso il Negev, provocando la reazione immediata degli arabi. A questo punto Nasser prese l’iniziativa e spinse i palestinesi verso la formazione di una organizzazione politica e militare: nacque così l’OLP (1964), alla cui presidenza venne scelto Ahmad Shuqairy e la cui premessa fondamentale era l’illegittimità di Israele. Questa fase si rivela per l’OLP non molto facile a causa delle contestazioni interne, ben rappresentate da al-Fatah. La strategia di quest’ultimo tese esplicitamente all’ azione di guerriglia radicale contro gli israeliani, sostenuta dalla rivalità tra Nasser e il nuovo governo siriano di Hafiz al-Assad (quest’ultimo pronto a sostenere la causa di al-Fatah). Per queste stesse ragioni che al-Fatah venne riconosciuta quale organizzazione terroristica da Israele e indirettamente dai suoi alleati che di fatto sostenevano Israele nella sua attività contro i terroristi, visti l’ idonea tecnologia militare da loro fornitagli. Fu questo il clima che animò gli animi dei palestinesi e degli israeliani, che preoccupò Nasser e che portò allo scoppio nel 1967 del conflitto con Israele.

(continua)

Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica 

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