La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 7 gennaio 2016

Per rottamare Renzi bisogna proprio cambiare schema

di Aldo Carra
In uno scenario globale caratterizzato da crisi crescenti sul piano finanziario, geopolitico, umanitario, il contrasto tra la qualità della politica che servirebbe e quella che vediamo è clamoroso.
In Italia stiamo entrando nell’ottavo anno di crisi con un handicap enorme: rispetto all’inizio della crisi, sull’occupazione giovanile l’Italia ha recuperato lo 0,9%, la Spagna l’1,9%, la Germania il 2,7%; sulla produzione industriale l’Italia ha recuperato il 3%, la Spagna il 7,5%, la Francia l’8%, la Germania il 27,8%; il tasso di occupazione dei giovani in Germania si attesta al 44%, in Francia al 28%, in Spagna è sceso al 17%, in Italia è precipitato al 15,1%. Una crisi di questa portata avrebbe richiesto una mobilitazione delle migliori energie intellettuali e sociali, un coinvolgimento dei sindacati, dell’associazionismo e dei movimenti, una grande ricerca collettiva per delineare una nuova politica di innovazione produttiva, industriale e culturale; avrebbe richiesto la costruzione democratica di un progetto paese sul quale realizzare una nuova alleanza tra strati sociali, tra occupati e non e, soprattutto, un coinvolgimento straordinario dei giovani; un progetto paese di istruzione diffusa, di mobilità sociale, di innovazione in tutti i campi, di partecipazione collettiva e solidale per affrontare nuove povertà e nuove migrazioni.
Renzi non ha fatto e non può fare questa politica perché essa è opposta a quella da lui attivata e fondata sulla divisione, sulla emarginazione dei corpi intermedi e delle forze della cultura, sul populismo, sull’individualismo.
Egli, così, è diventato prigioniero di sé stesso: promette la ripresa e la rinascita, ma l’essere sempre autocentrato sulla missione di innovatore solitario, non gli consente di mobilitare le risorse che servono. La scelta di legare le sue sorti al referendum è indice di questa consapevolezza e debolezza.
Di fronte a tale dimensione dei problemi ci sarebbe bisogno di sinistra. Ma i fermenti in corso non sembrano ancora all’altezza di quei problemi.
Certo potremo e dovremo impegnarci per contrastare il governo sul referendum, ma, se a questo ci limiteremo, rischiamo di restare anche noi nel pantano in cui Renzi ci ha condotto, per assestarci il colpo finale.
La sinistra, invece, dovrebbe imporre un altro terreno di confronto, la crisi economica e sociale, il progetto di società futura e dovrebbe imprimere al progetto paese un segno nuovo.
La stagnazione che viviamo non sarà secolare, ma per i prossimi anni i tassi di crescita del passato non li vedremo. Vediamo, invece, crescere le disuguaglianze, accentuarsi il carattere ereditario nella scala sociale. Ciò richiede una risposta inedita e nuova anche per noi. Non si tratta solo di ridurre le disuguaglianze riequilibrando le risorse nella scala dei redditi dall’alto in basso, ma anche di riprogettare il welfare per riequilibrare le risorse nella scala generazionale, dagli adulti ai ragazzi fino ad arrivare ai bambini.
Si tratta di dotare le generazioni che stanno nascendo e crescendo di servizi scolastici, asili, cultura, pubblici ed accessibili a tutti, e di sostegni al reddito — Atkinson propone un reddito minimo anche per i bambini — fattori tutti che domani potranno tradursi in un più ricco capitale umano.
Si tratta, di conseguenza, di ripensare il prelievo fiscale per finanziare le politiche sociali agendo sulla ricchezza che è accentrata in poche mani più dei redditi.
Un disegno strategico di questo respiro e di medio lungo periodo cozza anch’esso con la politica caritatevole dei mille bonus elettorali e sparpagliati di Renzi. Essa impone, nel brevissimo periodo, investimenti, anche limitati e graduali, che tengano anche conto dei vincoli di bilancio, ma che siano concentrati e finalizzati al riequilibrio indicato.
Insomma soprattutto quando i soldi sono pochi bisogna spenderli bene e la contrapposizione non è tra sinistra sprecona e governo rigoroso, ma tra governo spendaccione, che eroga benefici solo a scopi elettorali, ed una nuova sinistra che sa progettare ed investire sul futuro.
Ci si può provare? Abbiamo scritto domenica che «se si potesse fermare l’orologio sarebbe bene aspettare le prossime elezioni per smaltire le divergenze che essi creeranno». Invece non si può e più che veder nascere una nuova sinistra rischiamo di assistere alla sua liquefazione.
Sel, che non ha colto mesi fa l’occasione per auto-sciogliersi ed attivare un processo nuovo in tempo utile, adesso rischia di implodere e fare il vaso di coccio tra un Pd che per l’occasione, con squallida ipocrisia che la dice tutta sulla qualità di questa classe dirigente, riparla di centro sinistra, fuoriusciti che si alleano con vecchi nemici massimalisti al motto di «col Pd mai e in nessun luogo», resistenti, ancora e sempre interni al Pd, che adesso chiedono a Sel di non distruggere le alleanze locali realizzate, ma che nulla hanno fatto finora per contrastare la distruzione del centro sinistra prodotta da Renzi se non restare comodamente seduti nelle loro poltrone senza mai sporcarsi le mani con la battaglia politica in campo aperto.
Un film già visto di una sinistra che nulla sa più offrire alla storia se non le proprie miserie di divisioni di ruoli e di schemi che, gira e rigira, anche se i volti sono o cercano di essere nuovi, risalgono al massimalismo e al riformismo delle origini lontane ben 150 anni.
Se questa è la risposta ad un sondaggio che stimava fino al 20% l’elettorato potenziale di una nuova sinistra, mi convinco sempre di più che, anche a sinistra, con questo ceto politico, le speranze di risalita sono poche e decrescenti.
Esse potranno venire solo da forze nuove e fresche che sappiano partire dai problemi, avanzare proposte, fuoriuscire dagli schemi logori di un passato che non parla più a nessuno.

Fonte: il manifesto 

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