La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 gennaio 2016

Quo vadis Cina? Perché finisce la politica del figlio unico

di Cristina Carpinelli
Spinta dal timore che l’invecchiamento della popolazione possa compromettere la crescita economica del paese, la leadership del partito comunista cinese ha messo fine alla politica del “figlio unico”. Ora tutte le coppie sposate potranno avere due figli.
L’imposizione del figlio unico era stata una scelta politica voluta alla fine degli anni Settanta da Deng Xiaoping per garantire che “i frutti della crescita economica non fossero divorati dalla crescita della popolazione”. Una scelta che soprattutto nelle campagne significò un aumento smisurato degli aborti forzati e degli infanticidi. La popolazione rurale si era mostrata riluttante di fronte alla limitazione delle nascite, sia per ragioni economiche - necessità di disporre di forza lavoro per i campi - sia per fedeltà ai valori tradizionali. Nella Cina rurale, nel 1983, tra le donne sposate in età fertile, le madri di un figlio unico rappresentavano solo la minoranza, il 13%. Molte erano le donne che partorivano di nascosto con la complicità della cerchia familiare. Di fronte a queste resistenze, i metodi delle autorità furono brutali. Secondo alcune fonti, nel 1984, si registrarono 9 milioni di aborti, contro 18 milioni di nascite[1]. La forza dell’intervento delle autorità si era dimostrata proporzionata rispetto alla posta in gioco: se la crescita demografica non fosse stata messa sotto controllo, la scommessa delle “quattro modernizzazioni” sarebbe andata perduta. Se si tiene conto delle statistiche ufficiali che registrarono nei primi anni Cinquanta un tasso di fecondità totale della popolazione (numero medio di figli per donna) di oltre 6 figli, a fronte di uno stesso tasso di 2,6 figli negli anni Ottanta, si può certo dire che il potere cinese uscì vittorioso da quella battaglia demografica. 
Il livello di fecondità totale della popolazione aveva già mostrato una sensibile diminuzione alla fine degli anni Cinquanta-inizio anni Sessanta (5,4 figli), quando la Cina si apprestò a compiere il “grande balzo in avanti”, durante il quale il paese fu colpito da una gravissima carestia. Dalla seconda metà degli anni Sessanta sino all’inizio del 1970, il tasso di fertilità decollò sin quasi al livello dei primi anni Cinquanta (mediamente quasi 6 figli per donna). Mao Tse-tung perseguì all’epoca una politica di incremento demografico nella convinzione che l’aumento della popolazione si traducesse in un potenziamento della capacità produttiva e, all’occorrenza, militare del paese. In realtà, furono gli anni Settanta che segnarono un’inversione di tendenza del trend demografico, ancora prima che fosse varata la legge sul figlio unico obbligatorio (1978). All’interno di quel decennio, il tasso di fecondità era sceso di oltre la metà: da 5,8 nel 1970 a 2,8 nel 1979. Tra i fattori che determinarono quel ribasso vi furono il crollo della mortalità infantile, la scolarizzazione su larga scala, le migliori opportunità d’impiego per le donne, l’urbanizzazione. Ma proprio in quell’arco di tempo, lo squilibrio evidente tra risorse disponibili e capacità di soddisfare una sempre maggiore crescita demografica aveva sollecitato lo stato cinese a intraprendere una rigida pianificazione delle nascite. Con l’introduzione della politica del figlio unico, centinaia di milioni di donne ridussero ulteriormente il numero di figli, provocando già nei primi anni Novanta il calo dell’indice di fecondità sotto il livello di riproduzione. 


Numero medio di figli per donna in Cina, Europa, Usa, India, dal 1950 al 2100, Fonte: United Nations (2011): World Population Prospects, the 2010 Revision. Contiene la previsione delle Nazioni Unite pubblicata nel 2011, non l’ultima, uscita nel 2015. Viene riportata la proiezione fino al 2100.

Lo Statistical Yearbook 1996 dello Shanghai Statistical Bureau (SSB), a fine Ottobre 1995, a p. 69, mostrava che il 26,7% della popolazione si collocava nella fascia d’età 0-14, il 66,6% nella fascia 15-64 e il 6,7% nella fascia oltre i 65 anni. Che cosa indicavano queste cifre? Che la percentuale degli individui in età lavorativa era pari a quella dei paesi capitalistici avanzati, ma che la percentuale degli ultra 65enni era circa la metà di quella registrata in Europa occidentale, Stati Uniti e Giappone. In più, il rapporto tra popolazione maschile e popolazione totale era del 51,9% nel 1952 e del 51,0% nel 1994. Era un dato certamente inconsueto, poiché in quasi tutti i paesi del mondo gli uomini sono meno delle donne, godendo quest’ultime di una maggiore speranza di vita. Il rapporto maschi/femmine in Cina lasciava pensare a una quota di infanticidi o di aborti selettivi a danno delle bambine. In effetti, in campagna, molte famiglie furono costrette a rinunciare non solo al secondo o terzo figlio, ma a interrompere la gravidanza, qualora il feto fosse stato di sesso femminile, o a praticare l’infanticidio femminile. Ciò avrebbe consentito ai genitori di tentare altre gravidanze finalizzate ad avere un figlio maschio, poiché questo era da preferire alla figlia femmina, laddove la forza lavoro, intesa come forza fisica, era auspicabile per il supporto all’economia familiare. 
Negli ultimi decenni, in Cina, il progresso economico, pur ricco di contrasti sociali e iniquità, è stato notevole. In particolare, l’industrializzazione ha segnato l’economia del paese grazie allo sviluppo della manifattura, che ha prodotto un abnorme inurbamento con città affollatissime e campagne deserte. Il paese ha potuto contare su un’elevata quantità di manodopera a basso costo e non specializzata proveniente in gran parte dalle zone rurali. Tuttavia, il mercato del lavoro cinese si sta modificando con una manodopera sempre più preparata, ma sempre meno disponibile in termini numerici. Il National Bureau of Statistics of China aveva reso noto che la popolazione in età lavorativa (16-59 anni) era di 920 milioni nel 2013, in calo di 2,4 milioni rispetto all’anno precedente e pari al 67,6% della popolazione totale. La forza lavoro del paese mostrava per la prima volta una contrazione, dopo decenni, sollevando preoccupazioni per le prospettive di crescita economica. Nello stesso tempo, aumentava la quota delle persone anziane con più di 65 anni: 9,4% nel 2012 e 9,7% (2013). Un migliore tenore di vita, frutto del boom economico, aveva determinato un allungamento della speranza di vita. 
In più, come abbiamo visto, la Cina, con la sua politica del figlio unico, aveva avuto successo nel ridurre il tasso di fecondità, tale però da spingerlo nel tempo sotto la soglia di sostituzione (ovvero, sotto quel livello che garantisce la sostituzione paritaria della popolazione esistente, a crescita zero). Attualmente, nel paese, anche grazie alle eccezioni via via consentite, il numero medio di figli per donna è di 1,6 (un valore riscontrabile in molti paesi sviluppati e un po’ superiore a quello italiano, di 1,4). Come sappiamo, per mantenere stabile la propria popolazione, una nazione ha bisogno di un tasso di fecondità di almeno 2,1 bambini per donna. 
Contestualmente, il paese sta sperimentando un “grave squilibrio di genere” (48,7% di donne e 51,2% di uomini sulla popolazione totale secondo quanto riportato dal China Statistical Yearbook 2014), conseguenza degli aborti eugenetici e degli infanticidi di neonate indotti per decenni dal governo cinese, squilibrio che a sua volta ha prodotto traffici di donne e schiavismo sessuale. 
In breve, l’invecchiamento della popolazione in età lavorativa spiega la necessità della riforma effettuata in tema di controllo delle nascite. La prolungata riduzione della fecondità oltre il limite necessario ad assicurare un adeguato ricambio della popolazione rappresenta una preoccupazione per l’economia futura del paese. Il senso di questa riforma va logicamente compreso sul lungo periodo. La Cina è ancora una nazione relativamente giovane. La rigorosa politica di controllo delle nascite non ha per il momento cancellato del tutto la sovrappopolazione.


Continuare con la politica del “figlio unico” non aveva più alcun senso.Decenni di pianificazione familiare avrebbero potuto trasformare in realtà, se non si fosse cambiata rotta per tempo, tre incubi demografici: troppo pochi giovani, troppe poche donne e troppi anziani. Entro il 2030, la popolazione della Cina dovrebbe raggiungere un picco di poco superiore a 1,4 miliardi di individui, per poi cominciare un lungo declino. In base a una stima sulla popolazione cinese, riportata dal New York Times[2], anche nella migliore delle ipotesi, e cioè nel caso in cui la maggior parte delle donne abbia due figli dal 2016, la popolazione cinese inizierà comunque a diminuire dal 2034. Nel 2050 un cinese su tre avrà più di sessant’anni, con la difficoltà di sostenere in futuro il sistema pensionistico e di mantenere la base produttiva del paese, e con essa il vantaggio competitivo derivante dall’abbondanza di forza lavoro. 
Ma la Cina è interessata da un fenomeno che ha preceduto le fasi di maggiore crescita dei paesi occidentali: la progressiva affermazione della classe media. Quest’ultima è il motore di uno sviluppo economico stabile nel tempo. Nel paese del Dragone, la classe media si presenta come una forza nuova, necessaria alla rigenerazione e al rafforzamento delle forze produttive. E la Cina è tra i paesi in via di sviluppo quello con il maggior numero di lavoratrici: nel 2012 per 100 lavoratori di sesso maschile vi erano 81,4 donne lavoratrici (Statistical Yearbook for Asia and the Pacific, 2013). Dati numericamente incoraggianti in quanto ci dicono che le cinesi sono al mondo tra le più attive economicamente. Certo, rappresentano ancora l’anello debole della catena, in una cultura tradizionalmente maschilista, che le relega di fatto in lavori a bassa qualifica. Ma si stanno sempre più affermando come manager di grandi aziende, molte di loro avviano imprese nuove a tassi record e oltre un terzo dei lavoratori autonomi sono di sesso femminile. È una rivoluzione che si sta compiendo silenziosamente, senza marce e senza manifesti, dettata dalla situazione economica, non dall’ideologia. La chiave di volta dello sviluppo è nelle loro mani. Ecco perché non sono in pochi a scommettere che nel corso del XXI secolo il "celeste impero" si colorerà sempre più di rosa. 

NOTE
[1] Marie-Claire Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, Il Mulino, 2000, p. 264.
[2] Chris Buckley, China Ends One-Child Policy, Allowing Families Two Children, “The New York Times”, Oct. 29, 2015.

Fonte: ingenere.it

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