La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 8 aprile 2017

Judith Butler e la scommessa del popolo

di Ida Dominijanni
Se il populismo è oggi, a detta di tutti, lo spettro che si aggira - e si materializza - per l’Occidente, il popolo è a sua volta e paradossalmente lo spettro che ossessiona - senza materializzarsi - la teoria politica occidentale. Che sia naturalizzato – da destra – come un’identità razziale o nazionale da racchiudere e presidiare dentro confini certi, o che sia considerato – da sinistra, alla Laclau - come una costruzione del politico (se non del leader politico), il popolo resta un oggetto sconosciuto e “introvabile”, come direbbe Rosanvallon, nella sua costituzione eventuale, contingente, storica, e nella sua irriducibile eccedenza rispetto alla rappresentanza e alla rappresentazione. Come nasce, un popolo? Come si forma? Come vive, come parla, che cosa vuole? Con quale autorità e con quale autorizzazione si presenta sulla scena come “il” popolo, rinnovando la pretesa e la scommessa della sovranità popolare?
È solo un prodotto del politico, o viceversa produce politica, anzi si costituisce precisamente – e performativamente - nella pratica politica? L’ultimo libro di Judith Butler si può leggere, come tutti i suoi libri, da varie angolature, ciascuna carica di promesse nonché delle premesse delineate nei suoi precedenti testi. Ma certamente si può leggere anche come un suo intervento – puntuale, tempista e dove occorre polemico, come sempre sono i suoi interventi – su questa materia oggi tanto pressante quanto scivolosa: un intervento dettato dall’urgenza di dare forma, dignità, possibilità a quel periodico emergere di popoli dal basso delle piazze e delle strade che poco o nulla hanno in comune con i popoli costruiti e manipolati dall’alto dei populismi di governo e di opposizione.
Così, se Wendy Brown ci aveva spiegato, nel suo ultimo libro intitolato Undoing the Demos, come il neoliberalismo ha disfatto il popolo della tradizione politica moderna, qui Judith Butler (l’una lavora spesso nella scia o nel rovescio dell’altra) ci spiega come un popolo si può invece ri-fare, contro il neoliberalismo e riappropriandosi di parole come autodeterminazione, responsabilità, libertà, obbligazione, che il neoliberalismo ha piegato ai suoi fini o reso impronunciabili. Il punto di partenza, come altre volte nel percorso di Butler, è esperienziale: se Gender Trouble nasceva dalla frequentazione delle comunità gay e lesbiche di New York, e Vite precarie dalla catastrofe dell’11 settembre, L’alleanza dei corpi nasce dalla partecipazione a Occupy Wall Street e ai movimenti californiani contro la privatizzazione dell’università. Come altre volte, dunque, c’è un contesto di vita americano interpretato in dialogo con il contesto intellettuale americano (Wendy Brown, Lauren Berlant, Donna Haraway, Jason Frank) ed europeo (francese soprattutto, ma non solo: Rancière, Balibar, Laclau, Cavarero e, con mira critica, Agamben): il che rende come al solito il discorso di Butler singolare e, al tempo stesso, ricco di risonanze riconoscibili e di sfasature spiazzanti.
Ci sono popoli in azione, dunque, nei movimenti che da un decennio a questa parte occupano piazze e protestano per strada negli Usa, in Turchia, in Grecia, in Egitto e altrove, con intenti locali e globali, obiettivi diversi e simili, composizioni plurali e interconnesse. Butler li osserva da dentro e attraverso le immagini (i media assumono stavolta nel suo ragionamento un ruolo centrale, sono “il terreno stesso dell’autocostituzione del popolo, il luogo della lotta egemonica su ‘chi siamo noi’ ”), ed è come se attivasse tutti i suoi sensi per entrare in sintonia con i loro: ne ascolta le voci, ne guarda i gesti, ne segue i ritmi, ne scandisce gli slogan, ne com-patisce la precarietà e la vulnerabilità, ne vede il visibile e l’invisibile, ne “tocca” le possibilità e i limiti. Non uso il termine “sensi” a caso: i “corpi che contano”, stavolta, sono proprio corpi sensoriali, colti nella loro sensibilità e valorizzati nella loro potenzialità di fare senso comune: come se non nominare il corpo, ma provare a restituirne la sensorialità, fosse la pratica performativa di scrittura cui Butler affida la possibilità di mostrare la performatività politica dell’azione corporea.
Che è il nocciolo della scommessa teorica del libro: aprire il politico al corporeo, e aprire il discorso politico al pre-verbale. Con e contro Hannah Arendt, Butler gioca la sua scommessa sulla scena della comparizione plurale e relazionale nella sfera pubblica, ma aprendo la sfera pubblica all’irruzione degli invisibili e dei senza-voce e alla politicizzazione del privato e del personale che Arendt non contempla, e l’atto politico della presa di parola a quei significati che i corpi assemblati esprimono al di là delle parole. Per articolare questa scommessa, Butler riconvoca qui tutti i tasselli della costellazione teorica che va elaborando da anni: la vulnerabilità come esposizione umana alla contingenza (dunque alla violenza che ci insidia, ma anche all’imprevisto che ci trasforma); la precarietà come condizione sociale prodotta e gerarchicamente distribuita dalle politiche neoliberali; l’interdipendenza come ontologia del mondo globale, e l’etica della coabitazione come sua necessaria conseguenza; la non violenza come capacità di “confrontarsi con la violenza di questo mondo senza riprodurla”; l’eguaglianza come condizione di un agire politico che, per essere credibile, nel rivendicarla deve al contempo praticarla; la performatività del genere come paradigma della politica del performativo (ma anche dei suoi fraintendimenti e dei suoi rischi: non aggiungo nulla su questo punto a quanto scrive qui a fianco Luisa Muraro).
Il perno del discorso, rimasto invariato – e sovente incompreso – da Gender trouble in poi, è l’elaborazione teorica e pratica di una politica anti-identitaria, tanto più cruciale nel contesto del radicalismo americano che dalla rivendicazione identitaria, e dalla concezione delle coalizioni socio-politiche come assemblaggio di differenti identità, riesce raramente a uscire. L’uso del termine “assembly” – assemblea, ma anche assemblaggio -, che compare nel titolo originario del libro, è perciò tutt’altro che casuale: per Butler non si tratta di assemblare identità plurime, ma di partire dal fatto che ogni identità, ogni “io”, ogni corpo è a sua volta un assemblaggio non unitario e non proprietario: l’identità, diremmo nel femminismo italiano con un lessico diverso ma consonante con quello di Butler, è sempre fratturata, aperta, tagliata dalla differenza. Ne derivano svariate conseguenze: ad esempio, una certa diffidenza per la politica del riconoscimento quando diventa certificazione identitaria, e una certa cautela per la politica dei diritti quando diventa presidio di privilegi esclusivi (magari, come sta avvenendo in Europa, delle minoranze queer “indigene” giocate contro le minoranze etniche e religiose “straniere”).
Non sono gli unici ammonimenti che Butler dissemina nelle sue pagine per chi abbia orecchie per intendere. Nel libro si parla molto di vita, ad esempio, ma di una vita che non è mai nuda, bensì sempre rivestita dalla dimensione sociale e politica, sia che ne subisca le ingiunzioni sia che vi si ribelli. E parlando di popolo in termini post-classisti e post-nazionali si parla ovviamente di moltitudine, ma senza mai cadere nell’illusione di una sua immediatezza politica che non faccia i conti con la complessità della rappresentazione politica e mediatica. Non tutti gli assembramenti che compaiono sulla scena del mondo, infine, possono legittimamente aspirare a intestarsi l’aspirazione all’universalità che è costitutiva dell’enunciato “we, the people” o “noi, il popolo”. Quell’aspirazione comporta oggi una posizione di lotta contro-egemonica rispetto all’egemonia globale neoliberale, alle sue gerarchie escludenti, alla sua etica competitiva e auto-imprenditoriale, alle sue politiche di privatizzazione degli spazi pubblici e di precarizzazione delle vite. Dire “noi, il popolo” è sempre una scommessa, “una dichiarazione di egemonia che non sempre va a segno”. Perché vada a segno, deve saper lottare contro altre pretese egemoniche di popoli identitari, nazionalisti, suprematisti, consegnati all’identificazione con leader impotenti truccati di onnipotenza. L’Europa ne sa qualche cosa, e l’America anche, da quando un mattino di novembre si è svegliata trumpiana.

Fonte: Alfabeta2

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