La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 7 aprile 2017

L’ascesa sanguinosa del populismo globale

di Alfred W. McCoy  
Nel 2016 è successo qualcosa di straordinario nella politica di diversi paesi in giro per il mondo. Con rapidità e simultaneità sorprendenti dai margini di nazioni nominalmente democratiche è emersa a conquistare il potere una nuova generazione di leader populisti. Nel far ciò essi hanno dato voce, spesso in modo virulento, a preoccupazioni del pubblico a proposito dei costi sociali della globalizzazione. Persino in società tanto diverse quanto i ricchi Stati Uniti e le impoverite Filippine, correnti parallelamente violente di retorica populista hanno portato dai margini politici alla presidenza due candidati improbabili. Sulle sponde opposte del Pacifico queste campagne di outsider sono state caratterizzate da raccapriccianti appelli alla violenza e persino all’assassinio.
Con la sua campagna ribelle che guadagnava vigore il miliardario Donald Trump è andato oltre le sue ripetute promesse di combattere il terrorismo islamico ricorrendo alla tortura e a bombardamenti brutali propugnando anche l’assassinio di donne e bambini. “L’altra cosa riguardo ai terroristi è che si devono far fuori le loro famiglie; quando si prendono questi terroristi si devono far fuori le loro famiglie”, ha dichiarato a Fox News. “Gli importa della loro vita, non prendiamoci in giro. Quando dicono che non gli importa della loro vota, si devono far fuori le loro famiglie”.
Al tempo stesso, conducendo la sua campagna su un proprio programma di legge e ordine nelle Filippine, Rodrigo Duterte, allora sindaco di una remota città di provincia, ha giurato che avrebbe ucciso i trafficanti di droga nell’intera nazione, non risparmiando nulla quanto a immagini violente. “Se per caso Dio mi mettesse [alla presidenza]”, ha promesso nel lanciare la sua campagna, “state attenti, perché i 1.000 [giustiziati mentre era sindaco] diventeranno 100.000. Vedrete ingrassare i pesci della baia di Manila. E’ li che vi scaricherò”.
L’ascesa di queste anime politiche gemelle e uomini forti populisti non solo ha trovato eco nelle loro culture politiche, ma è stata anche un riflesso di tendenze globali che hanno atto della loro retorica sanguinaria un paradigma del nostro momento presente. Dopo un quarto di secolo post guerra fredda di globalizzazione, lavoratori cacciati di tutto il mondo hanno cominciato a mobilitarsi rabbiosamente per opporsi all’ordine economico che aveva reso la vita così buona per le imprese transnazionali e per le élite sociali.
Tra il 1999 e il 2011, ad esempio, le importazioni cinesi avevano eliminato 2.4 milioni di posti di lavoro statunitensi, chiudendo fabbriche di mobili nella Carolina del Nord, fabbriche che producevano vetro in Ohio e società di componenti automobilistiche e della siderurgia in tutto il Midwest. Mentre una serie di nazioni in tutto il mondo reagiva a tali realtà imponendo un totale di 2.100 limiti alle importazioni per tamponare simili perdite di posti di lavoro, il commercio mondiale ha di fatto cominciato a rallentare senza una grande recessione per la prima volta dal 1945.
La storia sanguinosa del populismo
In tutta Europa partiti iper-nazionalisti di destra come il Fronte Nazionale francese, la tedesca Alternativa per la Germania, e il britannico Partito dell’Indipendenza hanno conquistato elettori coltivando reazioni nativiste, in special modo anti-islamiche, alla globalizzazione. Contemporaneamente una generazione di demagoghi populisti ha detenuto, conquistato o minacciato di conquistare il potere in democrazie di tutto il mondo: tra gli altri Marine Le Pen in Francia, Geert Wilders in Olanda, Viktor Orban in Ungheria, Vladimir Putin in Russia, Recep Erdogan in Turchia, Donald Trump negli USA, Narendra Modi in India, Prabowo Subianto in Indonesia e Rodrigo Duterte nelle Filippine.
Il saggista indiano Pankaj Mishra ha recentemente sintetizzato in questo modo i loro successi: “Demagoghi continuano a emergere, in occidente e fuori di esso, mentre la promessa di prosperità si scontra con grandi disparità di ricchezza, potere, istruzione e status”. L’economia delle Filippine ha offerto solitamente notizie sinistre su questa linea. E’ cresciuta di un impressionante 6 per cento annuo nei sei anni che hanno preceduto il lancio della sua campagna presidenziale da parte di Duterte, pur mentre lo sconcertante numero di 26 milioni di filippini poveri lottava per sopravvivere con un dollaro al giorno. In quegli anni solo 40 famiglie dell’élite filippina si appropriava di uno stimato 76 per cento di tutta la ricchezza prodotta da tale crescita.
Lo studioso Michael Lee suggerisce che un leader populista ha successo definendo retoricamente la propria comunità nazionale sia mediante le sue supposte “caratteristiche condivise” sia mediante il suo inevitabile “nemico” comune, che si tratti di “stupratori” messicani o di profughi mussulmani, in larga misura così come i nazisti crearono un potente senso di identità nazionale escludendo, per “sangue”, determinati gruppi. Inoltre, sostiene, tali movimenti condividono il desiderio di uno “scontro apocalittico” in una “battaglia mitica” finale come “veicolo del cambiamento rivoluzionario”.
Anche se studiosi come Lee sottolineano i modi in cui i demagoghi populisti si affidano alla retorica violenta per il loro successo, tendono a concentrarsi meno su un altro aspetto cruciale di tali populisti globalmente: la violenza reale. Questi movimenti potrebbero essere ancora nella loro fase (relativamente) benigna negli Stati Uniti e in Europa, ma in democrazie meno sviluppate in giro per il mondo leader populisti non hanno esitato a incidere il loro novello potere nei corpi martoriati delle loro vittime.
Per più di un decennio, ad esempio, il presidente russo Vladimir Putin, un ragionevole candidato ad avviatore di questa ondata di populismo, ha dimostrato la sua pettoruta versione della politica del potere assicurando che oppositori e critici subiscano fini sinistre in circostanze “misteriose”. Tra esse lo spruzzo letale di polonio 210 che ha ucciso il disertore della polizia politica russa Alexander Litvinenko a Londra nel 2006; l’uccisione mediante armi da fuoco della giornalista e critica di Putin Anna Politkovskaya fuori dal suo appartamento di Mosca lo stesso anno; una dosa di veleno di una rara pianta himalayana per il banchiere e nemesi di Putin Alexander Perepilichny a Londra nel 2012; una raffica che ha abbattuto il leader dell’opposizione Boris Nemtsov nel centro di Mosca nel 2015 e quattro pallottole fatali lo scorso marzo per il profugo talpa Denis Voronenkov su un marciapiede di Kiev che l’Ucraina ha denunciato come “un atto di terrorismo di stato”.
Da populista islamista il presidente turco Recep Erdogan ha proiettato il suo potere attraverso una repressione sanguinaria e una nuova guerra contro la minoranza curda del paese. Egli dipinge i curdi come un cancro nel corpo politico del paese la cui identità va cancellata, in larga misura allo stesso modo in cui i suoi antenati si liberarono degli armeni. Inoltre, dalla metà del 2016 egli è stato a capo di una purga generale di 50.000 dirigenti, giornalisti, insegnanti e ufficiali militari dopo un fallito colpo di stato e in una tornata brutale di torture e sequestri ha riempito fino all’orlo le carceri turche.
Nel 2014 il generale in pensione Prabowo Subianto ha quasi conquistato la presidenza dell’Indonesia con una campagna populista di “forza e ordine”. Di fatto la carriera militare di Prabowo era stata a lungo immersa in tale violenza. Nel 1998, quando l’autoritario regime di suo suocero Suharto era sull’orlo del crollo, Prabowo, allora comandante dei Kopassus Rangers, inscenò il rapimento/sparizione di una dozzina di attivisti studenteschi, lo stupro brutale di 168 donne cinesi (atti intesi a eccitare violenze razziali) e l’incendio di 43 centri commerciali e di 5.109 edifici a Giacarta, la capitale del paese, che lasciò più di 1.000 morti.
Nel corso dei suoi primi mesi al potere, il neoeletto presidente delle Filippine Duterte ha avviato la sua molto pubblicizzata guerra al traffico di droghe nei bassifondi cittadini scatenando polizia e vigilantes in una campagna già contrassegnata, nei suoi primi sei mesi, da almeno 7.000 omicidi extragiudiziali. I cadaveri delle sue vittime sono stati regolarmente scaricati nelle strade di Manila come avvertimenti agli altri e come anticipazione della promessa di Duterte di un paese nuovo e ordinato.
E non è stato neppure il primo populista asiatico a intraprendere tale percorso. Nel 2003 il primo ministro tailandese Thaksin Shinawatra lanciò il suo movimento delle “camicie rosse” come guerra contro il rampante abuso di metamfetamine del suo paese. In soli tre mesi sotto il governo di Thaksin la polizia attuò 2.275 uccisioni extragiudiziali di sospetti trafficanti e consumatori di droga, spesso lasciando i corpi dove cadevano come una specie di contorto tributo al suo potere.
Tali esempi di carneficine politiche populiste e la probabilità di altre a venire – compreso ciò che potrebbe avere in serbo la presidenza di Donald Trump – suscitano certe domande: quale dinamica sta dietro l’urgenza di violenza che sembra muovere tali movimenti? Perché la virulenta retorica elettorale di movimenti politici populisti si traduce così spesso in violenza reale una volta che un populista conquista il potere? E com’è che tale violenza è invariabilmente diretta contro nemici ritenuti minacciare l’immaginaria integrità della comunità nazionale?
Nella loro compulsione a “proteggere” la nazione da quelle che considerano perniciose influenze straniere, tali movimenti populisti sono definiti dalla loro necessità di nemici. Tale necessità, a sua volta, infonde in loro una compulsione quasi incontrollabile a conflitti che trascendono le minacce reali o programmi politici razionali.
Per dare il dovuto politico a questa inquietante tendenza è necessario comprendere come, in un particolare momento della storia, forze globali abbiano prodotto una generazione di leader populisti con tali compulsioni potenziali. E al momento non c’è esempio migliore delle Filippine cui guardare.
Nel corso delle sanguinose elezioni dell’ultimo mezzo secolo due populisti, Ferdinand Marcos e Rodrigo Duterte, hanno conquistato un potere eccezionale sommando l’alta politica della diplomazia con la bassa politica della violenza performativa, sparpagliare cadaveri sfigurati dalla loro brutalità firmata come se fossero tanti volantini politici. Un rapido sguardo a questa storia ci offre un’inquietante occhiata al possibile futuro politico degli Stati Uniti.
Populismo nelle Filippine: l’era Marcos
Anche se oggi principalmente ricordato come un “cleptocrate” che ha saccheggiato il suo paese e si è arricchito con un abbandono svergognato (esemplificato dalla scoperta che sua moglie possedeva 3.000 paia di scarpe) Ferdinand Marco è stato, in realtà, un brillante populista, del tutto competente nel suo uso simbolico della violenza.
Quando il suo mandato legale da presidente giunse al termine nel 1972 Marcos – che come molti populisti si considerava scelto dal destino per salvare il suo paese dalla perdizione – usò l’esercito per dichiarare la legge marziale. Poi incarcerò 50.000 oppositori, compresi i senatori che avevano bloccato le sue leggi preferite e i giornalisti di pettegolezzi che avevano deriso le vanità di sua moglie.
I primi mesi della sua dittatura furono in realtà privi di violenze ufficiali. Poi, appena prima dell’alba del 15 gennaio 1973, agenti di polizia lessero un decreto presidenziale e condussero a forza Lim Seng, un fabbricante straniero cinese di eroina, in una postazione di un accampamento militare di Manila. Alla presenza di una batteria di fotografi della stampa un plotone d’esecuzione di otto uomini sollevò i fucili. Replicata interminabilmente in televisione e nei cinema, la drammatica ripresa delle pallottole che squarciavano il petto della vittima fu chiaramente intesa a essere una vivida manifestazione del nuovo potere del dittatore, nonché un appello al radicato razzismo anticinese del paese. Lim Seng sarebbe stato la sola vittima giustiziata legalmente nei 14 anni della dittatura di Marcos. Le uccisioni extragiudiziali, tuttavia, furono un’altra faccenda.
Marcos fece un uso intelligente delle grandi basi militari statunitensi vicino a Manila per ottenere un continuo sostegno al suo dominio autoritario (e sempre più sanguinario) da tre successive amministrazioni statunitensi, persino neutralizzando efficacemente la politica per i diritti umani del presidente Jimmy Carter. Dopo un decennio di dittatura, tuttavia, l’economia cominciò a crollare per una dose eccessiva di “capitalismo clientelare” e l’opposizione politica cominciò a contestare l’autoimmagine di Marcos di scelto dal destino.
Per saziare o sottomettere una popolazione sempre più insofferente egli presto ricorse all’intensificazione della violenza grezza. Le sue squadre di sicurezza condussero quelli che furono chiamati “salvataggi”, più di 2.500 di essi (o il 77 per cento delle 3.257 esecuzioni extragiudiziali dei suoi 14 anni di dittatura). Corpi martoriati dalle torture erano regolarmente abbandonati in piazze pubbliche o in incroci trafficati in modo che i passanti potessero leggere la trascrizione del terrore nelle loro stimmate. Nella capitale, Manila, con solo 4.000 poliziotti per sei milioni di residenti, il regime di Marcos incaricò centinaia di “sceriffi segreti”, responsabili di più di 30 vittime dello “sparare a vista” nel solo corso del maggio 1985, il primo mese del programma.
Tuttavia l’impatto della versione di Marcos della violenza populista si dimostrò mutevole: efficace all’inizio della legge marziale, quando la gente agognava all’ordine, e controproducente alla sua fine quando i filippini aspiravano nuovamente alla libertà. Tale svolta del sentimento condusse presto alla sua caduta nella prima delle drammatiche rivoluzioni del “potere popolare” che avrebbero sfidato i regimi autocratici da Pechino a Berlino.
Populismo nelle Filippine: la violenza di Duterte
Rodrigo Duterte, figlio di un governatore di provincia, inizialmente ha perseguito la carriera di sindaco di Davao City, un luogo di violenza endemica che ha lasciato un’impronta duratura sulla sua personalità politica.
Nel 1984, dopo che il Nuovo Esercito Popolare, comunista, aveva fatto di Davao il suo campo di prova della guerriglia urbana, gli assassini nella città erano esplosi, raddoppiando a 800, compreso l’assassinio di 150 poliziotti. Per controllare i comunisti, che si erano impossessati di parte della città, l’esercito mobilitò criminali ed ex comunisti come squadroni della morte di vigilantes in una letale campagna antiterrorismo. Quando visitai Davao nel 1987 per un’inchiesta sugli assassinii degli squadroni della morte quella remota città meridionale aveva già un’indimenticabile aria di desolazione e disperazione.
E’ stato nel contesto di crescenti massacri extragiudiziari nazionali e locali che il trentatreenne Rodrigo Duterte ha lanciato la sua carriera politica come sindaco eletto di Davao City. E’ stato nel 1988, il primo di sette mandati che lo avrebbero mantenuto in carica, a fasi alterne, per altri ventun anni fino a quando ha conquistato la presidenza del paese nel 2016. La sua prima campagna è stata vivacemente combattuta ed egli ha battuto di poco i suoi rivali, ottenendo soltanto il 26 per cento dei voti.
Intorno al 1996 risulta aver mobilitato il proprio gruppo di vigilantes, lo Squadrone della Morte Davao. Sarebbe responsabile di molte delle 814 esecuzioni extragiudiziali della città nel decennio successivo, con le vittime scaricate nelle strade cittadine con i volti bizzarramente avvolti in nastro adesivo da pacchi. Lo stesso Duterte può aver ucciso una o più delle vittime dello squadrone. A parte liquidare criminali lo Squadrone della Morte Davao ha anche convenientemente eliminato i rivali politici del sindaco.
Nella sua campagna per la presidenza del 2016 Duterte ha segnalato con orgoglio le esecuzioni di Davao City e ha promesso una guerra alla droga che avrebbe ucciso 100.000 filippini, se necessario. Nel far ciò egli attingeva anche a echi storici dell’era Marcos che davano una certa profondità politica alla sua retorica violenta. Elogiando specificamente Marcos, promettendo di seppellire finalmente il suo corpo nel Cimitero Nazionale degli Eroi a Manila e sostenendo Ferdinand Marcos Jr alla vicepresidenza Duterte si identificava con un lignaggio politico di uomini forti populisti incarnato dal vecchio dittatore in un periodo in cui filippini disperati cercavano una nuova speranza di una vita decente.
Assumendo la carica il presidente Duterte ha prontamente avviato la sua promessa campagna contro la droga e cadaveri sono diventati una vista comune nelle strade cittadine di tutta la nazione, a volte accompagnati da un crudo cartello di cartone con la scritta “Sono uno spacciatore” o semplicemente con i volti avvolti con il nastro adesivo da pacchi, diventato ormai un marchio di fabbrica, usato dallo Squadrone della Morte Davao. Anche se Human Rights Watch dichiara la sua guerra alla droga una “calamità” un sonoro 85 per cento filippini si è detto “soddisfatto” nei sondaggi, apparentemente vedendo in ciascun corpo disteso su una strada cittadina un ulteriore testimonianza della promessa di ordine del presidente.
Al tempo stesso, come Marcos, Duterte ha impiegato un nuovo stile di diplomazia come parte della sua ricerca populista di un potere illimitato. Nel mezzo di crescenti tensioni nel Mar Cinese meridionale tra Pechino e Washington egli ha migliorato la posizione negoziale del suo paese prendendo le distanze dalla classica alleanza delle Filippine con gli Stati Uniti. Alla conferenza dell’ASEAN del 2016, reagendo alle critiche di Barack Obama alla sua guerra alla droga, ha detto a muso duro del presidente statunitense: “Tua madre è una puttana”.
Un mese dopo, nel corso di una visita di stato a Pechino, Duterte ha proclamato pubblicamente la “separazione dagli Stati Uniti”. Mettendo da parte la sua vittoria schiacciante sulla Cina presso la Corte di Arbitrato dell’Aia in una vertenza legale a proposito di rivendicazioni contrastanti sul Mar Cinese meridionale, Duterte è tornato in patria con 24 miliardi di dollari di accordi commerciali con la Cina e con la sensazione che stava contribuendo a stabilire un nuovo ordine mondiale.
A gennaio, dopo che la sua polizia aveva torturato e ucciso un uomo d’affari sudcoreano con il pretesto di un blitz antidroga, è stato costretto a sollecitare un improvviso freno alla frenesia omicida a livello nazionale. Come il suo modello Marcos, tuttavia, il populismo di Duterte sembra contenere un appetito insaziabile per la violenza e così non c’è voluto molto prima che corpi fossero nuovamente scaricati nelle strade di Manila, spingendo il conto delle vittime a oltre 8.000.
Il successo e l’uomo forte
Le storie di questi uomini forti filippini, passati e presenti, rivelano due aspetti trascurati del fenomeno mal definito del populismo globale: il ruolo di quella che potrebbe essere definita violenza performativa nel proiettare una forza in patria e una complementare necessità di successi diplomatici per mostrare influenza internazionale. La misura della competenza con cui questi poli critici del potere sono equilibrati può offrire una chiave per elaborare delle ipotesi sul destino degli uomini forti in parti disparate del globo.
Nel caso della Russia la proiezione di forza di Putin attraverso l’assassinio di selezionati oppositori nazionali si è accompagnata a un’aggressione incontrollata in Georgia e Ucraina: un riuscito atto di bilanciamento che ha fatto sembrare il suo paese, con la sua traballante economia delle dimensioni di quella italiana, nuovamente una grande potenza ed è probabile che estenda il suo dominio autocratico nel futuro prevedibile.
In Turchia la dura repressione da parte di Erdogan di nemici etnici e politici ha essenzialmente affondato la sua richiesta di ingresso nell’Unione Europea, lo ha precipitato una guerra che non può vincere contro i ribelli curdi e ha complicato la sua alleanza con gli Stati Uniti contro il fondamentalismo islamico, tutte potenziali barriere alla riuscita della sua ricerca di un potere incontrollato.
In Indonesia Prabowo Subianto ha fallito il suo cruciale primo passo: costruire una base nazionale sufficientemente vasta per portarlo alla presidenza, in parte perché il suo appello all’ordine ha trovato un’eco discordante presso un pubblico ancora capace di ricordare la sua precedente ricerca di potere mediante una violenza mortale che ha intorbidito Giacarta con centinaia di sequestri, incendi e morti.
Senza il sostegno popolare generato dal suo locale spettacolo di violenza, l’abrogazione di fatto da parte del presidente Duterte delle rivendicazioni del suo paese sui ricchi banchi di pesca e riserve di petrolio del Mar Cinese meridionale nella sua ricerca di sostegno cinese rischia un contraccolpo popolare, un colpo di stato militare, o entrambi. Attualmente, tuttavia, l’abile giustapposizione da parte di Duterte di manovre internazionali e di bagni di sangue locali lo ha reso un uomo forte delle Filippine con, a oggi, pochi apparenti contrappesi al suo potere.
Mentre l’essenziale debolezza dell’esercito filippino limita i mezzi di Duterte per la violenza populista alle uccisioni poliziesche di poveri trafficanti di droga di strada, Donald Trump non subisce simili restrizioni. Se il Congresso e i tribunali limitassero la virulenza dei suoi attacchi nazionali contro mussulmani, messicani o altri immaginati nemici e nel caso la sua presidenza incorresse in altri contrattempi quali la recente umiliazione della revoca dell’Obamacare, egli potrebbe prontamente ricorrere ad avventure militari violenze non solo in Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan e Libia, ma persino in Iran, per non parlare della Corea del Nord, nel tentativo di recuperare la sua aura populista di potere smodato. In questo modo, diversamente da altri potenziali politici populisti del pianeta, egli ha nelle sue discusse mani il destino di innumerevoli milioni di persone.
Se il bisogno del populismo di quello che lo studioso Michael Lee chiama uno “scontro apocalittico” e una “battaglia mitica” si dimostrerà corretto, potrebbe, alla fine, portare i “rivoluzionari sistemici” dell’amministrazione Trump ben oltre persino la loro retorica più estrema in un ciclo interminabile di violenza contro nemici stranieri, usando qualsiasi arma sia disponibile, si tratti di droni, forze delle operazioni speciali, caccia bombardieri, flotte navali o persino armi nucleari.

Questo articolo è apparso inizialmente su TomDispatch.com, un blog del Nation Institue, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative da Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars, and a Global Security State in a Single-Superpower World’ (Haymarket Books).

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: TomDispatch.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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