La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 maggio 2017

Fine del lavoro, una notizia fortemente esagerata

di Gabriella Colarusso
Will Machines Devour Man? (“Le macchine divoreranno l’uomo?”). Era il il 1921 e il New York Times titolava così la recensione di un libro di R. Austin Freeman, ritratto degli uomini sottomessi nell’era delle macchine. Qualche anno dopo, 22 ottobre 1931, il quotidiano americano riportava gli stralci di un discorso tenuto da Albert Einsten a Berlino in cui lo scienziato metteva in guardia dall’automazione che avrebbe significato «sempre meno lavoro da parte degli individui per soddisfare i bisogni della comunità». L’incubo della «disoccupazione tecnologica» ha agitato le paure dell’Occidente fin dagli anni Venti del Novecento, al punto che nel 1939 Henry Ford, il padre dell’automazione, sentì il bisogno di un lungo editoriale sul New York Times per rassicurare gli americani sui benefici che lo sviluppo tecnologico avrebbe portato con sé.
Un secolo dopo, la fine del lavoro è di nuovo la grande paura collettiva. Società private della Silicon Valley sperimentano il reddito universale per far fronte a un futuro di disoccupazione su vasta scala. In Europa partiti e movimenti politici conquistano consensi avanzando ipotesi simili. Ma il lavoro finirà davvero o la fine del lavoro è una bolla intellettuale?
Le previsioni incerte sul futuro
Nel 2013 uno studio stracitato di Carl Benedit Frey e Michael Osborne della Oxford University fece scalpore sostenendo che nel giro di dieci/venti anni l’automazione e i robot avrebbero reso obsoleti gli umani per il 47% dei lavori negli Stati Uniti. Da allora decine di altri report hanno provato a fare previsioni precise. Nel 2016 il World Economic Forum ha ridotto la portata della disruption calcolando che nei Paesi avanzati solo il 9% dei lavori potrà essere totalmente automatizzato.
Certo gli sviluppi tecnologici e demografici stanno cambiando ogni cosa. «Molte attività che svolgeva l’uomo potranno essere facilmente automatizzate, e per gli studiosi più seri il saldo sarà comunque negativo. Ma è anche vero che le tecnologie faranno nascere nuovi mestieri. Non c’è insomma la fine del lavoro, c’è la fine di un vecchio modo di intendere il lavoro», dice a pagina99 Michele Tiraboschi, giuslavorista allievo di Marco Biagi e direttore del centro studi Adapt.
Gli orari fissi e i luoghi fisici, che siano le fabbriche o gli uffici, faranno sempre meno parte delle nostre vite così come le mansioni standardizzate. Cambieremo più spesso professione, non sempre sarà ben pagata. «Sta nascendo un’altra idea di lavoro che sicuramente dà più spazi di creatività, di tempo libero ma porta con sé nuove problematiche: meno reddito, minore qualità e più frammentazione. Di fronte a questo scenario non bisogna essere né ottusamente ottimisti né catastrofisti.
Si tratta di capire fino a che punto vogliamo spingere l’evoluzione tecnologica e di ripensare il modo di fare impresa e il welfare». Il reddito di cittadinanza può mitigare solo in parte gli effetti di questa grande trasformazione. «Saranno necessarie forme di sostegno al reddito legate all’inattività, ma non potranno mai rimpiazzare il lavoro, che non è solo salario, è relazione, realizzazione personale».
Una ripresa in chiaroscuro
Ma se quantificare la perdita futura di posti di lavoro resta una scienza incerta, i dati del presente sembrano fare a pugni con le visioni apocalittiche. Ad aprile Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, ha confermato che gli Stati Uniti sono vicini alla piena occupazione e a marzo la disoccupazione è scesa al 4,5%. Al di qua dell’Atlantico, i numeri non sono così formidabili ma la tendenza è la stessa.
Nell’Europa a 28, il tasso di occupazione è risalito oltre i livelli pre-crisi: è al 71,1% (2016) mentre era al 69,8 nel 2007. «Bastano poche ore di lavoro alla settimana per entrare nelle statistiche, un part time, un lavoro occasionale, un voucher, un tirocinio, tutto viene conteggiato. Non è più l’occupazione con piene e con robuste coperture economiche di un tempo», premette Tiraboschi. «Ma è vero che c’è una ripresa a livello globale, europea e soprattutto statunitense».
Germania, Belgio e i Paesi del Nord Europa sono i più dinamici, l’Italia invece spicca per un tasso di occupazione inchiodato al 61,6% (2016), migliore solo di quello della Grecia. Perché questo ritardo? «Molto è dovuto al lavoro nero e irregolare ma tanto anche alle scelte fatte in passato, quando si è deciso di puntare in maniera decisa sulla tecnologia».
«Negli Stati Uniti, per dire, per lo stesso lavoro impiegano più persone che da noi. E poi c’è un problema demografico che ci riguarda in modo particolare», prosegue Tiraboschi, «l’invecchiamento farà sì che avremo popolazioni aziendali fatte sempre più di anziani, con più di 50-55 anni, con minore motivazione e minora capacità fisica al lavoro, e questo graverà sulla previdenza e sul welfare».
L’esperimento francese
Due dati aiutano a capire in che direzione stiamo andando. Dal 2007 al 2014 il tasso di occupazione tra i 15 e i 29 anni è calato di 10 punti percentuali per gli uomini e 6 per le donne. Nello stesso periodo, l’occupazione per i 55-74enni è cresciuta di 10 punti. È uno tsunami demografico che sta cambiando la geografia umana, prima ancora che tecnologica, del lavoro in Italia.
Il Jobs Act e gli sgravi fiscali «hanno mitigato gli squilibri generazionali, permettendo che l’accelerato incremento della proporzione di occupati fra i lavoratori maturi non penalizzasse ancora di più gli adulti e i giovani», sostengono Gianpiero Dalla Zuanna e Anna Giraldo in un articolo apparso di recente su lavoce.info.
Per Tiraboschi invece «si sono buttati via 20 miliardi per incentivare assunzioni con posti fissi che senza l’articolo 18 non sono posti fissi», senza «fare scelte strutturali, politiche che tengano conto del fattore demografico. Bisogna lavorare sulla produttività dei lavoratori più anziani, diffondere forme di part-time e staffette generazionali, insistere sulla transizione scuola-lavoro, sulle competenze delle persone, costruire relazioni industriali più flessibili, di territorio e di prossimità». Una rivoluzione culturale con al centro il welfare, non più legato al contratto ma alla persona.
In Francia ci stanno provando. La Loi Travail approvata lo scorso anno ha avviato la sperimentazione di una sorta di dote personale, un «conto professionale con un pacchetto di ore formative e di previdenza che ciascun lavoratore si porta con sé nel passaggio da una occupazione all’altra». Lo Stato ci mette un parte delle risorse, il resto verrà da accordi tra imprese e lavoratori.

Fonte: pagina99

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