La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 maggio 2017

Dirottare l’economia

di Federico Demaria
Sotto le sembianze di un slogan provocatorio (mot-obus), la decrescita fornisce un quadro interpretativo (“frame”) per affrontare le molteplici e interconnesse crisi che l’elegante introduzione di Marco Deriu presenta (Demaria et al 2013). In altre parole, la decrescita vuol essere un’alternativa praticabile al binomio crescita-illimitatezza considerati i suoi limiti economici, sociali, ecologici, democratici ed antropologici (Latouche 2012; D’Alisa et al 2013). È quindi possibile individuare molteplici e complementari fonti intellettuali che convergono nella decrescita (come ecologia, democrazia e giustizia) per articolare una diagnosi sull’insostenibile essenza della società capitalista e offrire una prognosi per una radicale trasformazione socio-ecologica (Asara et al 2015).
Tuttavia, semplificando, possiamo dire che storicamente la decrescita nasce essenzialmente dall’incontro di due correnti di pensiero: l’ecologica politica (ad es. Andre Gorz) e la critica dello sviluppo (Latouche, 2006a; Martinez-Alier et al, 2010). Mentre la prima, la critica ecologica, appare oggi quasi una ovvietà, la seconda, è ancora spesso incompresa. Vale quindi la pena di esplorare la critica dello sviluppo, mostrando quali siano le sfide poste dalle radici culturaliste, o post-strutturaliste, della decrescita (la cosiddetta décroissance à la française) e come i saggi di questa sezione contribuiscano a fare un passo avanti.
A differenza dello sviluppo sostenibile, che è un concetto basato su un “falso consenso” (Hornborg 2009), la decrescita non aspira a essere un paradigma universalista adottato come obiettivo comune dalle Nazioni Unite, l’OCSE o la Commissione Europea. L’idea di “decrescita socialmente sostenibile” (Schneider et al. 2010), o semplicemente decrescita, nasce come proposta di cambiamento radicale. Il contesto contemporaneo del capitalismo neo-liberista appare come una condizione post-politica, ovvero una congiuntura che preclude la politica e impedisce la politicizzazione di esigenze particolari (Swyngedouw 2007). In questo contesto, la decrescita è un tentativo di ri-politicizzare il dibattito sulla trasformazione socio-ecologica, in dissidenza con le rappresentazioni dominanti del mondo attuale e a favore della ricerca di immaginari alternativi (Asara et al 2015).
In tal senso, la decrescita è una critica all’egemonia culturale dello sviluppo (Rist 2008) che si fonda sulla messa in discussione delle sue categorie discorsive. Le prime critiche alla nozione occidentale di sviluppo (inteso come universale e omogeneo) sono emerse negli anni Ottanta nei lavori di intellettuali come Cornelius Castoriadis, Wolfgang Sachs, Arturo Escobar, Gustavo Esteva, Ashish Nandy, Shiv Visvanathan, Serge Latouche, Vandana Shiva e, più recentemente, Richard Norgaard, Debal Deb e Ashish Kothari, solo per menzionare i più conosciuti. Queste riflessioni rimangono valide e sono essenziali per mettere in discussione le idee di “crescita verde” o “green economy” e, più in generale, la credenza che la crescita economica sia un percorso auspicabile in qualsiasi agenda politica.
Queste riflessioni sono state ispirate, tra gli altri, da Ivan Illich (1973, 1974, 1981) con la sua critica delle istituzioni moderne (come medicina, educazione e trasporto) che tendono a creare e moltiplicare impedimenti all’autonomia delle persone. Illich promuove una visione di “sussistenza moderna”, influenzato dal lavoro di Marshall Sahlins (1972) sulle società primitive al fine di modificare la visione comune sulla ricchezza e la scarsità. Questo sarebbe uno stile di vita che, in un’economia post-industriale, permetterebbe alle persone di essere meno dipendenti sia dal mercato che dallo Stato. In questa prospettiva la tecnologia sarebbe sviluppata per generare quello che Illich chiama “valori di uso genuini”.
La decrescita mette in discussione l’immaginario che sostiene il feticcio della crescita presente nel paradigma dominante dello sviluppo economico e che mercantilizza le relazioni tra individui e tra individui e natura. Contemporaneamente, essa propone altri ideali (o immaginari) sociali, che non siano legati allo sviluppo, come la semplicità volontaria, la frugalità o il godimento della vita (enjoyment of life). Vedremo in seguito il perché del rifiuto radicale dello sviluppo, incluso dei tentativi di ridefinizione o abbellimento come sviluppo sostenibile, che può apparire come una forzatura non necessaria. Limitiamoci ora a evidenziare che l’essenza delle radici culturaliste della decrescita è la decolonizzazione dell’immaginario, ovvero la critica della “uniformizzazione” delle culture a causa della diffusa adozione di tecnologie e modelli di produzione e consumo del Nord globale. In altre parole, il modello di sviluppo occidentale è un costrutto mentale imposto sul resto del mondo che va decostruito per lasciare spazio a un ventaglio di alternative, come, ad esempio, il post-sviluppo (Latouche, 2009). Quindi, l’obiettivo centrale della decrescita dalla prospettiva delle radici culturaliste è il cambiamento sia della struttura di valori che delle istituzioni che li articolano. In questo senso, quindi, la decrescita è una visione per proporre un nuovo immaginario che implica un cambiamento delle culture e una riscoperta dell’identità umana libera(ta) dalle rappresentazioni economiche. I due principali pilastri di questo processo di liberazione sono l’anti-utilitarismo e la critica dello sviluppo. Presentiamoli brevemente, anche se solo il secondo sarà oggetto di analisi più approfondita in questo breve contributo.
L’anti-utilitarismo si concentra nella critica dell’homo economicus, ovvero delle fondazioni antropologiche della scienza economica che vede la massimizzazione dell’utilità come motore ultimo del comportamento umano. Questa critica è stata ispirata dal lavoro sul dono dell’antropologo Marcel Mauss negli anni Venti (Mauss, 2007 [1924]), e poi ripresa negli anni ottanta da Alain Caillé edi membri (incluso Serge Latouche) del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales) (Caillé 1989). Altri autori spesso citati sono lo storico sociale ed economico Karl Polanyi (1944) e l’antropologo Marshall Sahlins (1972). La concezione degli esseri umani come agenti economici guidati dal proprio interesse personale (egoismo) e dalla massimizzazione dell’utilità è una rappresentazione del mondo, o un costrutto sociale storico, che ha meticolosamente nidificato nelle menti di molte generazioni di studenti di economia (e non solo). La decrescita, in questo senso, invita a più ampie visioni che diano importanza alla convivialità e alle relazioni sociali basate sulla condivisione, dono e reciprocità.
Esploriamo ora in profondità gli argomenti principali della critica dello sviluppo, basandoci principalmente nel lavoro dello svizzero Gilbert Rist (1996)[1] e del colombiano Arturo Escobar (1995)[2]. Il concetto di ‘Sviluppo’ è il nucleo dell’immaginario occidentale. Si fonda sulla supposizione che la crescita o il progresso dovrebbero essere in grado di continuare indefinitamente, dando per scontato che ciò renderà il futuro migliore. Pertanto, è fondamentale comprendere come lo sviluppo (in modo simile all’utilitarismo) sia un concetto costruito all’interno di una particolare storia e cultura e, di conseguenza, una costruzione sociale che deve essere decostruita. Comprendere le dinamiche legate alle categorie discorsive può offrire elementi per rispondere alla domanda: chi ha il potere di definire quali siano i problemi sociali e come possano essere risolti? In altre parole, chi e come detiene lo scettro magico per definire la diagnosi, e poi la prognosi, dei problemi delle nostre società?
Ad esempio, se la questione della povertà viene inquadrata come mancanza di reddito, allora la soluzione diventa la crescita economica (evidente, necessaria e verità universale). Semplificando all’estremo, potremmo dire che il XX secolo ha visto il passaggio dal colonialismo Europeo all’imperialismo anti-coloniale nord-americano. Le categorie discorsive sono cambiate dalla relazione colonizzatore/colonizzato a quella sviluppato/sottosviluppato. In realtà, nella sua essenza, il discorso coloniale si mantiene: il Nord come “avanzato” e “progressista”, mentre il Sud come “ritardatario”, “degenerato” e “primitivo”. La data simbolica che segna questo cambio di paradigma è il discorso inaugurale del presidente americano Harry S. Truman del 1949 nel quale il ‘sottosviluppo’ viene presentato come una mancanza, e non come una conseguenza di circostanze storiche (ad es. colonialismo e sfruttamento). Per cui, anche in questo caso, la soluzione diventa “un nuovo e coraggioso programma per rendere disponibili i benefici delle nostre scoperte scientifiche e del nostro progresso industriale, per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate”.[3]
Ci sono almeno quattro implicazioni fondamentali di questo passaggio discorsivo alle nuove categorie sviluppato/sottosviluppato. Primo, si fondano le basi di un nuovo imperialismo anti-coloniale guidato dagli Stati Uniti che, seppur traballante, domina ancora. Secondo, le diseguaglianze rimangono giustificate e la redistribuzione della ricchezza non è quindi necessaria: attraverso lo sviluppo (inteso come crescita economica) la ricchezza può essere estesa a tutti sulla terra, rendendo così l’ingiustizia solo uno stadio temporaneo. Terzo, diviene possibile andare al di là di ogni divisione ideologica, nello specifico quella tra capitalismo e comunismo. In questo senso il discorso dello sviluppo è post-ideologico. Quarto, si crea una unità di misura quantificabile che è il Prodotto Interno Lordo (PIL). Per ricapitolare, con questo passaggio discorsivo lo “sviluppo” diventa un eufemismo per “egemonia Occidentale”, ovvero l’instaurazione di un modello unico fondato su un specifico sistema di conoscenza (per l’appunto, l’occidentale).
Ora, qualcuno potrà chiedersi: ma come definire “sviluppo”? La questione è complessa, perché il concetto è diventato una somma di aspirazione virtuose (benessere, progresso, giustizia sociale…), e quindi difficile da confutare. È una parola di plastica, o un parolone (buzzword), che non significa più niente se non quello che l’oratore desidera che significhi. Gilbert Rist ha proposto una definizione critica che ci sembra utile:
“Lo “sviluppo” è costituito da un insieme di pratiche, a volte apparentemente contraddittorie le quali, per assicurare la riproduzione sociale costringono a trasformare e a distruggere, in modo generalizzato, l’ambiente naturale e i rapporti sociali, in vista di una produzione crescente di merci (beni e servizi) destinate, attraverso lo scambio, alla domanda solvibile[4]”.
Lo sviluppo è diventato una credenza, ovvero una serie di convinzioni e verità indiscutibili. Lo sviluppo è pertanto un castello inespugnabile dove il presunto ‘consenso’ sociale non accetta sfide sostanziali, mentre le critiche vengono rapidamente inghiottite con variazioni linguistiche (sviluppo umano, sviluppo sostenibile, etc). La realtà non cambia. Anche se lo sviluppo potesse essere ripulito dal suo pesante significato storico, o quando è abbellito con aggettivi come equilibrato, locale o sostenibile, rimane una parola chiave problematica. Essa, infatti, suggerisce un dispiegarsi verso un fine predeterminato. In natura, un embrione si sviluppa in un adulto maturo, che poi invecchia e muore. Invece, una premessa delle società liberali moderne è la negazione di qualsiasi fine collettivo, nonché la negazione di qualsiasi cosa che non sia l’elevazione. Lo sviluppo è permanente e non si raggiunge mai lo stadio della maturità. Senza referente esterno, lo sviluppo diventa auto-referenziale: sviluppo per il bene dello sviluppo, il dispiegarsi di una predeterminata e non questionabile freccia del progresso senza fine verso l’orizzonte (Castoriadis, 1985). Per questo motivo, recuperare la parola ‘sviluppo’ appare impossibile, nonostante svariati tentativi di riattribuirgli un significato che non sia legato alla crescita economica (ad es. miglioramenti qualitativi invece che quantitativi, come propone Herman Daly). Dobbiamo invece essere coraggiosi, sfidare i “limiti della nostra immaginazione” (come ci invita a fare Deriu) e proporre discorsi e narrazioni anti-egemoniche. Il discorso e le sue categorie (come lo sviluppo), infatti, sono diventati una garanzia sufficiente del potere sociale per intervenire, trasformare e governare. Per il potere costituito, la retorica è sempre preferibile alla violenza coercitiva, se serve al suo scopo di convincere la gente. Per cui la rilevanza del linguaggio e delle parole non va sottovalutata.
La decrescita, a nostro avviso, è quindi di un atto di détournement(francese per “deviazione” o “dirottamento”), una tecnica semantica sviluppata negli anni Cinquanta dall’Internazionale Situazionista – e successivamente ripreso dal Punk – che consiste nel trasformare espressioni linguistiche del sistema capitalista e della sua cultura mediatica contro loro stessi. Tra gli esempi più conosciuti di questa pratica, ricordiamo le immagini pubblicitarie modificate per sovvertirne il significato, come quelle pubblicate sulla rivista canadese Adbusters o la francese Casseurs de Pub. Non è casuale che uno dei progetti Situazionisti più ambiziosi fosse esattamente quello di riscrivere completamente un dizionario, come spiega l’intellettuale tunisino Mustapha Khayati nel sempre attuale testo “Parole prigioniere” (Prefazione per un dizionario situazionista)[5].
“[…] Ogni critica del vecchio mondo è stata fatta nel linguaggio di quel mondo, ma diretta contro di esso e quindi automaticamente in un linguaggio diverso. Ogni teoria rivoluzionaria ha dovuto inventarsi i suoi propri termini, per distruggere il senso dominante di altri termini e stabilire nuovi significati nel “mondo di significati” corrispondenti alla nuova realtà embrionale che hanno bisogno di essere liberati dal mucchio di spazzatura dominante. In effetti, è impossibile sbarazzarsi di un mondo senza sbarazzarsi del linguaggio che lo nasconde e protegge, senza mettere a nudo la sua vera natura. […] Ogni prassi rivoluzionaria ha sentito la necessità di un nuovo campo semantico e di esprimere una nuova verità; […] Perché il linguaggio è la casa del potere, il rifugio della sua violenza poliziesca. Qualsiasi dialogo con il potere è violenza, sia passivamente subita o provocata attivamente. Quando il potere vuole evitare di ricorrere alle sue armi materiali, si basa sul linguaggio per custodire l’ordine oppressivo. Questa collaborazione è infatti la più naturale espressione di ogni potere”.
Teoricamente, al posto di decrescita avremmo potuto parlare di “de-sviluppo” (come alcuni attivisti e intellettuali latino americani parlano di ‘des-desarrollo‘). Le motivazioni di questa nostra scelta sono molteplici e ve ne sono alcune che ci sembra importante menzionare. Primo, nei paesi industrializzati si parla più di crescita che di sviluppo. Secondo, la parola décroissance in francese ha un doppio significato; si riferisce non solo alla croissance (crescita) ma anche al croire (credere), invocando l’idea della scelta di non credere nella finzione della crescita perpetua su un pianeta finito[6]. Terzo, la parola decrescita indica chiaramente l’intenzione di voler ridurre la produzione e il consumo. Ad ogni modo, data la condizione di quasi sinonimi tra sviluppo e crescita, potremmo argomentare che decrescita significa de-sviluppo e viceversa. Si pensi che Serge Latouche, forse il divulgatore più conosciuto della decrescita, viene dalla tradizione della critica dello sviluppo, prospettiva che è quindi stata sempre presente.
In conclusione, la letteratura sulla critica dello sviluppo evidenzia la necessità tanto della decostruzione come della ricostruzione delle categorie discorsive. In altre parole, non solo mettere in discussione lo sviluppo, ma anche la colonizzazione mentale che lo accompagna. L’imperativo risiede nel decolonizzare l’immaginario e accettare la diversità di prospettive culturali. Successivamente, sussiste la necessità della ricostruzione, il cosiddetto post-sviluppo che apre a un ventaglio di alternative (ad es. decrescita, buen vivir, ubuntu ed eco-swadeshi)[7]. In parole semplici, liberare (o decolonizzare) il campo discorsivo per fare spazio a immaginare alternative.
Qualcuno potrebbe pensare che queste riflessioni sul linguaggio e le categorie discorsive in generale (e sulla critica dello sviluppo in particolare) sono mere speculazioni astratte e, per di più, poco utili nell’affrontare le molteplici e urgenti crisi. Le contribuzioni di questa sezione dimostreranno esattamente il contrario.
Ci sembra, infatti, che tra le sfide contemporanee più importanti ci sia quella di recuperare la libertà e il potere di immaginare e costruire significati e mondi diversi. La libertà inizia con la decolonizzazione dell’immaginario mentre il potere, che trova nel linguaggio la sua casa, è (con le parole di Enrico Berlinguer) “uno strumento insufficiente ma necessario per realizzare i propri ideali”[8].
Prendiamo in considerazione la crescita verde e la green economy, come ultima frontiera dello sviluppo (sostenibile). Prima di tutto, dovremo capire chi ha il potere di ridurre la complessità (ad esempio, di definire cosa sia “verde” o “sostenibile”). In secondo luogo, comprendere come il potere si riproduce. Le riflessioni qui abbozzate sulla critica dello sviluppo suggeriscono che non sia necessaria la violenza fisica per intervenire, trasformare e governare, ma che invece è sufficiente creare un consenso attorno a una egemonia culturale che sembra capace di cooptare il discorso ambientalista e contemporaneamente rafforzare lo status quo senza che la sua struttura e funzionamento vengano questionati.
Ormai, l’ha detto addirittura papa Francesco:
“Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo globale», la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e distorsioni». Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia. In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine”[9].
I contributi di questa sezione ci offrono strategie su come recuperare la libertà e il potere, dimostrando come la critica dello sviluppo possa portare ad alleanze e proposte concrete. Arturo Escobar offre una visione ampia a favore di una alleanza tra alternative allo sviluppo, decrescita e ‘proposte di transizione’. Joan Martinez-Alier mostra la potenzialità di una alleanza tra decrescita e giustizia ambientale (o ambientalismo dei poveri) mettendo in discussione sia l’idea che per essere ambientalisti dobbiamo prima diventare ricchi sia l’argomento che il Nord Globale deve decrescere per lasciar spazio alla crescita (economica) del Sud Globale. Helena Norberg-Hodge propone di cambiare l’economia attraverso la resistenza alla globalizzazione e la ricostruzione delle economie locali e delle comunità. Serge Latouche evidenzia le difficoltà di battersi contemporaneamente contro la crescita e l’austerità, e si lancia in un tentativo di Realpolitik descrivendo un possibile scenario verso la decrescita per paesi fortemente indebitati, come la Grecia.
Questi spunti offrono un buon esempio di come nel movimento della decrescita ci sia un accordo sulla diagnosi (qual è il problema e quali siano i suoi responsabili), mentre la prognosi rimane aperta a una molteplicità di proposte, strategie, attori e alleanze. L’importante è perdere la paura.
Gli Indignados spagnoli l’hanno gridato forte: “Estamos sin casa, sin trabajo, sin futuro pero no tenemos miedo!“[10] Possiamo iniziare a mettere in discussione il linguaggio, ovvero sfidare il potere con l’obiettivo di sovvertirlo.

NOTE
[1]Gilbert Rist, The History of Development: From Western Origins to Global Faith, Zed Books Ltd, London, 1996, 2008 3a ed.; trad. it., Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
[2]Arturo Escobar, Encountering Development: The Making and Unmaking of the Third World, Princeton University Press, Princeton, 1995.
[3]Si tratta questo del quarto punto del cosidetto ‘discorso dei quattro punti’. Il testo completo del discorso si trova facilmente online http://www.bartleby.com/124/pres53.html
[4] Gilbert Rist, op. cit., pp. 21-25.
[5]Nostra traduzione dall’inglese. In italiano, La critica del linguaggio come linguaggio della critica, Nautilus, Torino, 1992. Versione originale in francese: “Les mots captifs (préface à un dictionnaire situationniste)”, Internationale Situationniste n°10, Paris, Mars, 1966.
[6]Questo dettaglio è evidenziato anche da Naomi Klein nel suo nuovo libro This changes everything, Allen Lane, London, 2014, pp. 74.
[7]“La nostra sfida a crescita e capitalismo” http://comune-info.net/2015/10/la-nostra-sfida-a-crescita-e-capitalismo/
[8]http://acmos.net/2014/05/berlinguer-chi-era-2/
[9]Lettera enciclica Laudato si (art 194). http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
[10]“Siamo senza una casa, senza lavoro, senza futuro ma non abbiamo paura!”

BIBLIOGRAFIA
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Caillé Alain, Critique de la raison utilitaire. Manifeste du MAUSS, La Découverte, Paris 1989; trad. it. Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
Castoriadis Cornelius, Reflections on “Rationality” and “Development”, Thesis Eleven, No. 10/11, 1985, pp. 18-36.
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Demaria F., Schneider F., Sekulova F, Marinez-Alier J., What is Degrowth? From an Activist Slogan to a Social Movement, Environmental Values, 22 (2), pp. 191-215, 2013.
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Questo testo è un estratto dal libro Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione, curato da Marco Deriu e pubblicato nel 2016 dall’editore napoletano Marotta e Cafiero. L’articolo di Federico Demaria funge da Introduzione (pp. 57-67) alla prima parte, intitolata “Dalla critica dello sviluppo alla prospettiva della decrescita” – con interventi di Arturo Escobar, Helena Norbert-Hodge, Joan Martinez-Alier e Serge Latouche. Il testo è stato pubblicato su effimera.org che ha aperto uno spazio di discussione sui temi della decrescita.

Fonte: comune-info.net 

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