La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 20 maggio 2017

Le classi non sono fotografie photoshoppate

di Felice Mometti
Volendo fare una sintesi approssimativa del Rapporto Annuale 2017 dell’Istat sulla situazione del Paese si potrebbe dire che la crisi del modo di produzione capitalistico alimenta all’inverosimile le diseguaglianze sociali, fa esplodere la precarietà lavorativa ed esistenziale, blocca la mobilità sociale e accentua le gerarchie sociali e territoriali.  Quest’anno però l’Istituto Nazionale di Statistica deborda, va oltre la raccolta e la classificazione dei dati (cosa di per sé non neutrale) e si improvvisa Istituto di Sociologia applicata.
Lasciamo stare i titoli sparati sui media mainstream sulla scomparsa delle classi e sull’affermazione di una società composta da gruppi trasversali, in fondo è una litania che ripetono da anni ad ogni rapporto del Censis.
Andiamo invece a vedere come l’Istat arriva a costruire una vera e propria teoria della società.
Il punto di partenza si trova a pagina 73 del Rapporto che vale la pena riportare integralmente: “Per la costruzione dei gruppi sociali è stata adottata una tecnica non parametrica a segmentazione gerarchica, che ha permesso di tralasciare qualsiasi ipotesi sulla distribuzione delle variabili di interesse a priori, e che ha agito in termini di associazione tra le variabili in modo da rispecchiare la pluralità di significati attribuibili al concetto di gruppo sociale, suddividendo le famiglie in funzione del loro benessere economico”. Il linguaggio è criptico e la sintassi barocca ed esigono una piccola opera di traduzione. La mossa teorica iniziale assume come valida a prescindere la statistica non parametrica, cioè quella che non prevede ipotesi apriori, e però al tempo stesso si individua una “segmentazione gerarchica”. In che modo? Non è dato sapere. Il concetto di gruppo sociale, contrapposto a quello di classe sociale, deriva da un’associazione di variabili - a discrezione dell’Istat – che magicamente rispecchiano la pluralità di significati attribuiti al concetto stesso. Come dire? C’è il concetto di gruppo sociale sempre presente sottotraccia ma che non si esplicita. Si porta alla luce solo alla fine mediante un’associazione libera di variabili. Il tutto è tenuto insieme da una ricognizione sul benessere economico di un aggregato sociale, dato per naturale, come la famiglia. Non serve scomodare il Marx dell’Introduzione ai Grundrisse, quello che parla del metodo dell’economia politica, per dimostrare le velleità ideologiche di una tale costruzione.
Ma l’Istat non di ferma qui, va oltre. Quasi posseduta da un’entità soprannaturale va a ritroso nel tempo per confermare la propria teoria cercando il supporto nel “Saggio sulle classi sociali” del 1974 di Sylos Labini e sui lavori Schizzerotto di una trentina d’anni fa. E qui il Rapporto dell’Istat raggiunge livelli di confusione e contorsione argomentativa difficilmente prevedibili. Senza entrare nel merito, Sylos Labini e Schizzerotto adottano due metodi diversi per definire le classi sociali. In Sylos Labini c’è ancora un vago riferimento alla collocazione delle classi tenendo conto dei rapporti di produzione e in Schizzerotto le classi di declinano per settori di attività. Entrambi gli autori, e le loro classificazioni, sono considerati dall’Istat dei punti di riferimento rilevanti. A questo punto sorge una domanda: come si fa a combinare due autori che adottano metodi e sostengono teorie diverse con un altro metodo e un’altra teoria completamente diversi? Domanda senza risposta a meno di pensare che la statistica e la sociologia dell’Istat frequenti i territori delle pratiche voodoo. Il dubbio rimane scorrendo il Rapporto che in molte parti, dopo aver operato una netta distinzione tra gruppi e classi sociali, usa spesso i due termini quasi fossero sinonimi.
In altri termini quella dell’Istat è una teoria letteralmente costruita sulla sabbia in cui gli unici parametri di riferimento, andando alla radice, sono la categoria (non spiegata e contestualizzata) di famiglia e una distribuzione del reddito che avverrebbe delle modalità, anche qui, quasi naturali. La distanza con i lavori sulle classi sociali ad esempio di Thompson, di Bensaid, di Meiksins Wood è siderale. Di certo non bisogna pensare e aspettarsi che l’Istat stanzi fondi per una ricerca sulle classi sociali non intese come cose o fatti ma come rapporti storici e relazioni politiche.
Ciò che però si dovrebbe possibilmente evitare è che difronte alle fotografie photoshoppate dell’Istat ci si faccia dei selfie autoconsolatori.

Fonte: communianet.org 

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