La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 20 maggio 2017

Sulla Democrazia senza popolo di Carlo Galli

di Luca Timponelli
In Democrazia senza popolo Carlo Galli offre una ricostruzione delle vicende dell’ultima legislatura, a partire dalle elezioni del febbraio 2013 con il fallimento del tentativo di Bersani di formare un governo fino alla vittoria del no al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La cronaca dei principali momenti della legislatura, che l’autore ha vissuto in prima persona come deputato del PD poi confluito, nel novembre 2015, nel gruppo Sinistra Italiana – Sel, si fonde con la volontà di offrirne un’interpretazione alla luce delle trasformazioni in senso post-democratico della politica italiana a seguito del trionfo del modello sociale neoliberale.
Tale svolta ha privato le istituzioni del loro ruolo di rappresentanza popolare e di scontro e compromesso fra interessi per farne il luogo della competizione tra comitati elettorali e della governance, l’implementazione di politiche definite da tecnici che sotto la maschera dell’efficienza e della neutralità nascondono gli interessi dell’élite economica.
La necessità di un’analisi teorica del genere si offre nel momento in cui la classe politica italiana, del tutto imbevuta di questo modello tanto nelle sue forme di “responsabile” difesa del sistema quanto nelle contestazioni che ne vengono fatte da destra e dal Movimento 5 stelle, non è in grado di comprendere la società, di interpretare il suo rifiuto e il suo disagio nei confronti delle formule politiche che le vengono proposte che si manifesta nella sua crescente spoliticizzazione. La democrazia, donde il titolo, pare funzionare senza voler tener conto del popolo, al quale si limita a domandare di tanto in tanto un plebiscitario assenso che sancisca le proprie decisioni o a porre la scelta tra una rosa di candidati, ma al quale si ostina a negare tutte quelle forme di coinvolgimento nelle istituzioni e nell’elaborazione delle politiche pubbliche, dal finanziamento pubblico ai partiti a una proporzionalità nella rappresentanza e alla centralità del Parlamento e dei corpi intermedi, in primis i sindacati, che invece persevera ad aggredire, bollandoli ora col marchio dell’inefficienza, ora della corruzione.
Soltanto uno sguardo teorico è in grado, leggendo la cronaca in prospettiva, di mettere in luce tanto le criticità di questo modello quanto la necessità di invertire la rotta per evitare che le trasformazioni in corso portino non, come spesso si dice, alla fine di un modello “obsoleto e inefficiente”, sostituito da uno più adatto alle “sfide della globalizzazione”, ma della stessa democrazia per come si è affermata in Europa dopo la seconda guerra mondiale con l’apertura delle istituzioni del liberalismo borghese alla partecipazione di massa e con una costituzione economica che si proponeva a tal fine, mediante la centralità del ruolo dello Stato, la rimozione delle disuguaglianze, il diritto al lavoro e il vincolo che l’iniziativa privata dovesse essere compatibile con l’utilità sociale. Senza tale operazione l’elaborazione di un’alternativa efficace risulta preclusa, e ogni forma di resistenza all’esistente degenera facilmente, malgrado le intenzioni, in un tatticismo (“togliattismo senza Togliatti”) incapace di strategia poiché privo tanto degli strumenti di diagnosi quanto di una visione della società da contrapporre a quella che si vuole attaccare. Ed è proprio con un manifesto, volto al recupero dell’identità socialdemocratica (in senso forte) della sinistra, che il libro si conclude. Sinistra che, per l’autore, si identifica con quel filone della modernità che ritiene sia possibile dare un ordine al caos e alla contingenza e controllare i processi sociali di modo che siano al servizio della collettività e della persona umana. La sinistra non va quindi confusa né con un mito del progresso privo di finalità che altro non è capace di fare se non di idolatrare il “nuovo” o presunto tale, senza volerne vagliare i contenuti, né con un generico sentimento di vicinanza ai più deboli che può sfumare velocemente nel paternalismo o nel romanticismo, e nemmeno con un vago catalogo di valori in cui tutti o quasi potrebbero ritrovarsi, ma consiste in “un’interpretazione intellettuale della società volta a rilevarne le contraddizioni strategiche, a identificarne l’origine, e a porvi rimedio con azioni politiche” (p. 181), nella convinzione che la contraddizione principale è ancora quella che oppone capitale e lavoro, da un lato la ricerca anarchica e conflittuale del profitto che asservisce a sé tutte le sfere della società umana, politica inclusa, e dall’altro l’esigenza che la produzione di ricchezza sia messa al servizio della felicità generale. Finché tale è lo stato di cose l’opposizione tra destra e sinistra rimane fondamentale e non può essere sostituita da altre che, forse più spendibili e capaci di aggregazione nel breve periodo, mancano tuttavia della radicalità necessaria per cogliere l’origine del conflitto (come può essere il caso per l’opposizione tra “alto” e “basso”, “casta” e “popolo”, ecc.), o intenzionalmente la occultano in una operazione di depistaggio cognitivo, sostenendo che il vero cleavage della società sia da cercarsi nell’opposizione tra open-minded e retrogradi, giovani senza opportunità e vecchi privilegiati, e così via. Questo non significa ignorare le “contraddizioni secondarie”, come ad esempio tra centro e periferia, tra stanziali e migranti, tra élite e popolo, né rifiutarsi di prendere posizione, ma saperle leggere alla luce della principale dalla quale originano.
Galli e l’ultima legislatura
Delineate le linee generali in cui si muovono tanto l’analisi che Galli sviluppa quanto l’idea di sinistra che propone, passiamo alla lettura che della legislatura viene fatta. Questa viene vista da Galli come il tentativo di codificare e definitivamente sancire mediante le tanto celebrate riforme la trasformazione in senso neoliberale della società che, cominciata negli anni ’80, aveva fortemente accelerato, con l’avvallo delle forze di centro-sinistra, negli anni ’90 con l’adesione ai vincoli di bilancio stabiliti dal trattato di Maastricht, la trasformazione dei partiti in macchine del consenso a vocazione maggioritaria, il ritirarsi dello Stato dalla vita economica del paese, l’introduzione dei primi contratti atipici, ecc., per poi culminare, di nuovo con la complicità del centro-sinistra, nei tagli e nelle riforme del governo Monti, tra le quali spicca l’inserimento del pareggio di bilancio nell’art. 81 della Costituzione. Rimanevano da compiersi durante la legislatura la definitiva subordinazione del potere legislativo, sede della rappresentanza, all’esecutivo, in modo da permettere, senza interferenze, l’amministrazione delle cose in accordo alle politiche neoliberali e una legge elettorale che assicurasse al “vincitore” (tale in virtù delle nuove regole) una maggioranza ben definita (che questa fosse in realtà una minoranza in termini di voti poco importava) e il controllo del Parlamento, potendosi così sottrarre alla dialettica democratica intesa come scontro di interessi e degradando la sovranità del popolo a semplice scelta tra opzioni già definite. Del resto il dibattito sulla riforma costituzionale, come Galli giustamente ricorda, si era avviato proprio in concomitanza con le trasformazioni sociali di cui stiamo parlando. L’opera di disintermediazione andava inoltre compiuta con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, l’indebolimento del sindacato mediante l’abolizione dell’articolo 18, la conformazione alle logiche d’impresa della scuola e della pubblica amministrazione.
Trascurando questi elementi non risulta comprensibile l’ascesa di Renzi, al quale il campo era stato preparato proprio da quella generazione che lui ambiva a rottamare, né si spiega l’incapacità del Pd a dare una lettura non mainstream della crisi economica, vedendo invece nel debito pubblico il principale responsabile, e, ovviamente, la cura nei tagli alla spesa, difendendo a spada tratta la costituzione economica europea anziché individuarne le criticità, a fare proprie l’ossessione per la responsabilità (non verso i cittadini, ma verso gli investitori internazionali e i mercati finanziari), per la governabilità e per il “governismo” (facendo del fine ultimo della politica la conquista del governo, senza più interrogarsi sugli obiettivi da perseguire), e non sapendo prendere le distanze, come fu il caso di Bersani, dall’agenda Monti. La sinistra del Pd è per Galli tuttora nella medesima situazione: non volendo o non sapendo produrre una critica radicale dell’esistente, né emanciparsi dal proprio passato recente, è completamente subordinata alla medesima visione della società proposta da Renzi. Confondendo la lotta alla disuguaglianza con l’opposizione, molto più liberale, alle “rendite di posizione”, essa non può altro che promuovere un livellamento delle condizioni generali verso il basso, anziché esigere la pienezza dei diritti sociali per tutta la cittadinanza.
Se così non fosse, parimenti non si spiegherebbe la facilità con cui Bersani fu abbandonato, al momento della sua “non sconfitta”, quando Napolitano impose come linea la prosecuzione delle larghe intese con centristi e Pdl (ovvero con quanti, nota Galli, le elezioni le avevano effettivamente perse), di contro al “governo di cambiamento”, per quanto teoricamente flebile, auspicato dall’allora segretario del Pd, al quale fu negata la possibilità di tentare un governo di minoranza. Di contro all’impossibilità di formare una maggioranza parlamentare, e ostile all’ipotesi prospettata da Bersani, il Presidente della Repubblica rifiutò l’ipotesi, difesa da Galli, di un governo tecnico finalizzato all’elaborazione di una legge elettorale che sostituisse il Porcellum al quale avrebbero dovuto fare seguito nuove elezioni e, dunque, una soluzione politica all’impasse verificatosi. Al contrario, Napolitano, interprete delle pressioni europee, decise di salvare la vita della legislatura in nome delle riforme da compiersi affidando l’incarico a Enrico Letta.
Di quest’ultimo, sotto il quale si compì la già ricordata abolizione al finanziamento pubblico ai partiti, Galli non manca di rilevare come, rivolgendosi alla Camera, avesse dichiarato che non avrebbe “fatto politica”, bensì “implementato politiche”: alla politica viene completamente disconosciuta la capacità di formulare qualsiasi visione della società, ed essa viene confinata al compito di tradurre in legge riforme formulate, almeno come canovaccio, per via extraparlamentare, a cominciare dalla riforma costituzionale, che fu preparata da una “commissione di saggi” su nomina presidenziale, e che non superò però l’iter parlamentare a causa del dissenso di Forza Italia.
Altro elemento che è mancato alla sinistra è stata la capacità di analisi del processo di integrazione europea, condotto sotto l’egida dell’ordoliberalismo, variante del pensiero liberale nata in Germania tra le due guerre (e ivi divenuta egemonica dopo il secondo conflitto mondiale) che vede nello Stato non più un potenziale nemico da confinare a funzioni minime, ma il garante, attraverso la creazione di un adeguato framework legale, del corretto funzionamento del mercato, assicurando il mantenimento della concorrenza e la mobilità di capitale e lavoro come pilastri della creazione del benessere. Alla sovranità propria dello Stato moderno, fondamentale per tradurre in realtà i fini che la politica si propone, si sostituisce il governo come mantenimento di un ordine i cui principi sono però estranei alla politica stessa e che risiedono nel mercato, a cui immagine va riplasmata l’intera società perché questo possa operare senza ostacoli. Da questa prospettiva ogni concezione non organicistica della società, in cui può esistere una diversità di interessi tra le classi sociali risulta incomprensibile. All’ideale moderno di un controllo dei processi sociali (quella che Röpke condanna come “economia di piano”) si sostituisce un pregiudizio anticostruttivistico per cui invece lo Stato deve salvaguardare un criterio d’ordine già proprio della società civile (“la concorrenza”), che però andrebbe presto perso senza l’afflato ordinativo, esteso e capillare, delle norme giuridiche.
Galli non manca, giustamente, di sottolineare come questa concezione sia alla base dei trattati europei almeno da Maastricht, riflettendosi perfettamente anche negli accordi successivi. Il potere d’azione dei singoli Stati attraverso la politica fiscale viene limitato attraverso vincoli di bilancio, il controllo della politica monetaria viene affidato a un’autorità indipendente, il cui obiettivo principale è il solo mantenimento della stabilità dei prezzi, al quale l’obiettivo del mantenimento dell’occupazione risulta in tutto subordinato, al rifiuto, più in generale, di ogni politica discrezionale di contro all’astratta e apparentemente neutrale produzione di norme.
In presenza di paesi a vocazione mercantilista, la Germania in primis, il cui modello di crescita riposa sull’accumulazione di un surplus commerciale con l’estero praticata mantenendo alta la forbice tra crescita della produttività e aumenti dei salari (tanto investendo sulla prima quanto non incrementando proporzionalmente, se non proprio contraendo questi ultimi, come fatto dalle riforme Hartz con la creazione dei mini-jobs), un impianto del genere costringe gli altri paesi, nel momento in cui la leva monetaria è loro preclusa e quella fiscale è fortemente limitata, ad adoperare politiche di svalutazione salariale (non potendo ricorrere a quella monetaria, né a una politica industriale a mezzo di investimenti che incrementi la produttività, non resta come opzione che ridurre i salari, liberalizzando il mercato del lavoro) e di compressione della domanda interna per riequilibrare i conti con il paese in surplus, alimentando così una spirale di tagli e di repressione dei diritti sociali che danneggia tanto l’uguaglianza quanto la crescita. L’euro, lungi dall’essere un semplice mezzo di pagamento o un simbolo della volontà di cooperazione tra i paesi europei, si mostra così essere un dispositivo di governance che costringe, sotto la minaccia dello spread e della fuga degli investitori internazionali, ad adottare tanto l’impianto ordoliberale quanto il mercantilismo del paese diventato così egemone. L’assenza di una politica fiscale comune, e l’inverosimilità che questa si realizzi senza un rafforzamento dell’impianto ordoliberale, ponendo forti vincoli di azione a un eventuale governo federale, portano Galli a uno scetticismo non solo verso lo status quo, ma anche verso un proseguimento dell’integrazione, date le convinzioni in materia di politica economica di chi se ne fa promotore che rendono ingenua la prospettiva che un’Europa federale possa ripristinare a un livello più alto la sovranità che sta smantellando nei livelli inferiori. Un eventuale “super-stato”, andando oltre l’ipotesi federalista, rischierebbe inoltre di essere completamente egemonizzato dai paesi del centro. Al cleavage economico dell’eurozona si aggiungono inoltre fratture legate alle diverse politiche estere dei paesi dell’Unione, molto ostili alla Russia nei paesi dell’est-europeo, più concilianti nel caso di Francia, Germania e Italia, e alle diverse reazioni ai fenomeni migratori, che portano alla capillare rinascita di quelle barriere che invece non si ha certo intenzione di porre ai movimenti dei capitali.
La soluzione ideale è probabilmente un ritorno all’Europa pre-Maastricht, all’insegna della collaborazione tra Stati sovrani anziché della spirale di competizione innestata dalle comuni regole adottate. È in ogni caso necessaria la consapevolezza che l’Europa, per come è oggi, “non risolve i problemi, ma ne è parte” (p. 97). La critica alle sue istituzioni, così come la difesa della sovranità come conditio sine qua non per controllare i processi economici e assicurare i diritti sociali dei cittadini, non può essere lasciata alla destra. La difesa a tutti i costi dell’Unione Europea, e l’aver conseguentemente sposato la falsa narrazione per cui responsabilità della crisi fosse il debito pubblico dato dall’aver voluto “vivere al di sopra delle proprie possibilità”, “scialacquando” in pensioni e servizi pubblici, e non lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti delle periferie determinato dall’acquisto con credito tedesco di merci tedesche, che ha portato a una sovraccumulazione di debito privato poi socializzato per evitare il tracollo del sistema creditizio, è parte integrante del suicidio politico della sinistra e della subalternità che le ha fatto prima appoggiare supinamente Monti e poi non sapersene distanziare.
Galli: post-democrazia e pseudo-democrazia
Seguono poi un’analisi delle altre forze politiche oltre il Pd, della personalità di Renzi e delle riforme da lui promosse, lette secondo la chiave che abbiamo qui delineato. È importante, di questi passaggi, sottolineare tanto come Galli reputi la politica e la retorica dei populisti di destra e del Movimento 5 stelle come fondamentalmente organica al pensiero neoliberale, quanto come lo stesso Pd renziano non possa fare a meno, in un quadro del genere, di adottare stilemi populisti. Incapacitati a cogliere la contraddizione principale, i “populismi” non possono che appellarsi a una critica moralistica e individualistica contro la “disonestà” o la “corruzione” che fomenta il medesimo odio per i luoghi di mediazione, compromesso (che diventa automaticamente “inciucio”) e rappresentanza di chi li vorrebbe sopprimere in quanto ostacoli all’egemonia dei poteri economici e finanziari. Il rifiuto di mediazione e compromesso porta Renzi a cercare un rapporto diretto tra lui e “il popolo”, di cui si dichiara “in ascolto”, ma senza aprire ad alcuna contrattazione con rappresentanti delle diverse parti e categorie sociali (eccezion fatta per i grandi imprenditori nei cui confronti non manca mai di esprimere ammirazione). L’attacco alle “poltrone” è stato inoltre parte integrante della campagna referendaria in difesa del sì, come il disprezzo nei confronti degli intellettuali bollati come “professoroni”. L’idea assolutamente impolitica che Renzi ha della politica si condensa nella sua volontà di renderla “facile e bella come l’iPhone”: un oggetto apparentemente semplice per l’utilizzatore finale, che non conosce né la complessità dei meccanismi che lo rendono funzionante né i processi che ne hanno reso possibile la realizzazione. Il cittadino è così degradato a consumatore di soluzioni dalla cui formulazione deve però essere tenuto il più lontano possibile, nella convinzione che siano oggetto non di volontà politica, ma di esclusiva competenza tecnica.
La vittoria del no al referendum sulla riforma costituzionale, con cui si conclude la cronaca, è interpretata come il rifiuto del modello di società che Renzi, promettendo di cambiare, sta in realtà soltanto rafforzando e ulteriormente sancendo. Se tale vittoria non è un risultato di cui la sinistra può automaticamente appropriarsi, è comunque la conditio sine qua non di qualsiasi inversione di rotta di cui essa deve riuscire a farsi portavoce, dando forma all’insofferenza e all’esasperazione verso le conseguenze delle politiche neoliberali prima che sia la destra a farlo.
Soltanto impegnandosi apertamente a ribilanciare i rapporti tra capitale e lavoro, a distruggere le narrazioni che sono state proposte dal liberalismo sulla crisi, sulla governance europea, sul mito della sempre maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico e dell’esistenza di un trade-off tra uguaglianza ed efficienza, sull’idea che l’occupazione è possibile soltanto in un mercato del lavoro flessibile, e rinnegando le scelte fatte nell’ultimo trentennio, la sinistra può recuperare terreno e riconquistare la fiducia di quelle masse ora rancorose e spoliticizzate che ha abbandonato. Operazione difficile, e che richiederà non poche accortezze, inclusa la capacità di trovare un linguaggio adeguato che tenga conto della “diffidenza dei cittadini verso uno stile politico più tradizionale di quello corrente, leaderistico” (p. 190), ma necessaria per chiunque ritenga non derogabile la trasformazione dello stato di cose esistente.
Essa potrà essere condotta soltanto difendendo e reclamando quegli spazi di partecipazione alla sovranità, a cominciare dal Parlamento, contro l’imperante concezione schumpeteriana della democrazia, e difendendo il ruolo dello Stato tanto come luogo di democrazia e autodeterminazione, quanto di controllo della vita economica in nome dell’abbattimento delle disuguaglianze materiali, previsto dall’articolo 3 della Costituzione, e della tutela dei diritti sociali.
Il libro di Galli è un testo prezioso, e alla sua denuncia degli uomini della pratica di molta sinistra di non voler fare i conti con la teoria (per poi risultare, come notava già Keynes e come l’autore ampiamente dimostra, inevitabilmente prigionieri di visioni del mondo) non ci si può che accodare. Difficile potersi dire di sinistra, anche moderata, senza sottoscrivere le sue proposte di riabilitazione del ruolo dello Stato, del Parlamento e dei corpi intermedi, della democratizzazione della vita politica ed economica, di un ritorno degli investimenti pubblici, della denuncia dell’ideologia liberale. Se è vero che le operazioni culturali hanno tempi più lunghi della cronaca politica, è anche vero, e la costruzione dell’egemonia neoliberale lo mostra, che possono rivelarsi incredibilmente efficaci e durevoli, specie quando come ora non manca un fertile terreno di esclusi e svantaggiati dove queste idee potrebbero germogliare. Non si può dunque non sperare che la sinistra faccia tesoro delle preziose indicazioni offerte dall’autore, sconfessando il modello di società di cui finora è stata succube e trovando il coraggio di prendere le distanze da quanti invece fanno orgogliosa professione di liberalismo. Che non si tratti di un atteggiamento velleitario, adolescenziale o senile, sembrano mostrarlo tanto le pessime performance elettorali delle sinistre in cui questa riflessione è mancata, in tutto o in parte, quanto il buon risultato conseguito in Francia da Jean-Luc Mélenchon che, pur non vincendo, è stato comunque capace di mobilitare quelle fasce a cui la sinistra deve ricominciare a parlare.

Fonte: pandorarivista.it 

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