La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 19 maggio 2017

Dove va la Francia? Intervista a Nicola Genga

Intervista a Nicola Genga di Lorenzo Cattani e Matteo Rossi
A seguito delle presidenziali francesi e in vista delle elezioni legislative, il panorama politico francese è in una fase di grande cambiamento. Per questo abbiamo deciso di porre alcune domande a Nicola Genga sugli scenari che si aprono per il paese. Quali sono le prospettive di Macron e del suo En Marche alle elezioni legislative? E quali quelle dei partiti tradizionali, socialisti e gollisti? Quale sarà la strategia del Front National? Marine Le Pen sta tentando una svolta gollista con l’intento di raggiungere una convergenza con la destra repubblicana? Le presidenziali sono state una vera sconfitta o rappresentano la base di una vittoria futura? E ancora, quali sono le cause della crisi Partito Socialista? E si tratta di una crisi irreversibile? Il ruolo delle forze populiste nel panorama politico europeo è tramontato oppure manterrà ancora a lungo il centro della scena?
Nicola Genga, Dottore di ricerca in Linguaggi politici e comunicazione, è direttore del CRS-Centro per la Riforma dello Stato e collabora con le cattedre di “Scienza politica” e “Filosofia e Analisi delle Istituzioni” nel Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università Sapienza di Roma, dove partecipa al coordinamento dell’Osservatorio Mediamonitor Politica.com. Ha svolto attività di studio e ricerca nelle università René Descartes-Paris V e Paris-Est Créteil. Si occupa di linguaggio politico e analisi dei fenomeni politici in prospettiva comparata, con particolare attenzione ai temi del populismo, dei rapporti tra media e politica, della personalizzazione della leadership e dei partiti. Tra le sue pubblicazioni: Le parole dell’Eliseo. I discorsi dei presidenti francesi da Giscard d’Estaing a Sarkozy (2012) e (curato con F. Marchianò), Miti e realtà della Seconda Repubblica (2012) e Il Front National da Jean Marie a Marine Le Pen. La destra nazional-populista in Francia (2017).
Fra circa un mese verrà eletta l’Assemblea Nazionale ed è probabile che tali elezioni consegneranno alla Francia una camera divisa. Che scenari si aprono, secondo lei, di fronte al neo-presidente? Se diventasse necessaria una coabitazione, quali sarebbero le migliori opzioni coalizionali per Macron?
Alcune proiezioni attribuiscono alla lista della République En Marche la possibilità di ottenere un numero considerevole di deputati (qualche centinaio) nel caso in cui la sinistra rappresentata da Pcf, Insoumis e quel che resta dei socialisti si presentasse in ordine sparso. Lo scenario di una divisione della sinistra sembra più che verosimile, anche se potrebbe essere mitigato da desistenze al secondo turno. Un numero di seggi considerevole, per En Marche, dicevo, ma comunque inferiore alla maggioranza dell’Assemblea nazionale, che è pari a 289 unità. Si tratta di proiezioni basate sui risultati delle presidenziali, e quindi non considerano la decisiva mediazione che il notabilato eserciterà nelle legislative, meno toccate dal voto di opinione. In ogni caso, la nomina di un primo ministro dichiaratamente di destra come Edouard Philippe sancisce l’avvio di una operazione egemonica, o almeno di dialogo, nei confronti dell’area politica gollista. Se Les Républicains dovessero vincere le elezioni nettamente potrebbero ambire a esprimere un proprio governo, che configurerebbe un quinquennato di coabitazione. Nel caso in cui non ottenessero la maggioranza si profilerebbe invece lo scenario, inedito per la Quinta Repubblica, di un hung parliament e di una coalizione tra REM, gollisti e socialisti acquisiti alla causa macronista. Non bisogna dimenticare che il sistema francese non prevede una fiducia esplicita al governo, il che potrebbe favorire fluidità di sostegno all’esecutivo postelettorale e geometrie variabili parlamentari.
Parlando sempre di elezioni legislative, i partiti più tradizionali e più strutturati, soprattutto i gollisti e i socialisti, potrebbero ottenere risultati migliori rispetto a quelli del primo turno delle presidenziali, oppure bisogna aspettarsi un effetto “luna di miele” per En Marche e Front National?
Negli ultimi quindici anni il risultato delle legislative ha subito il trascinamento delle presidenziali immediatamente precedenti, a causa dell’inversione del calendario elettorale e della riduzione del mandato presidenziale a cinque anni. E anche nell’81 e nell’88, quando il presidente neoeletto ha chiesto ai francesi una maggioranza parlamentare l’ha avuta. In tutti questi casi però vi è stata la mediazione dei partiti e della loro articolazione notabilare: il presidente era chiaramente identificabile con uno schieramento e con partiti radicati territorialmente attraverso un ceto politico irreggimentato e consolidato. Stavolta potrebbe esserci un effetto luna di miele proprio perché i socialisti sono in rotta, la sinistra ancora non organizzata, mentre la destra è a rischio seduzione macronista. Potremmo metterla in questi termini: se la destra decide di vendicarsi, può vincere facilmente. Se invece accetta l’abbraccio del nuovo presidente rischia di farsi colonizzare e svuotare. Difficilmente, insomma, REM riuscirà a vincere solo con le proprie forze.
Nel corso della campagna elettorale è emerso un tentativo da parte di Marine Le Pen di appropriarsi della figura di De Gaulle, continuamente citato e preso a modello. A suo parere la “svolta gollista” di Marine Le Pen è meramente tattica o rappresenta una direzione strategica con l’obiettivo di occupare lo spazio politico della destra moderata?
La carta gollista era stata già giocata in maniera folkloristica, alla fine degli anni ’90, candidando il nipote del Generale alle elezioni europee. Quella che Marine Le Pen ha provato e sta provando a perseguire è una “captazione” dell’eredità gollista, ricomponendo la frattura storica tra il gollismo antifascista e l’estrema destra che non perdona al Generale la questione algerina. L’obiettivo di occupare lo spazio della destra conservatrice è un tentativo che, anch’esso era stato ipotizzato da Bruno Mégret, sempre negli anni ’90, e passava per una strategia delle alleanze che ricalcasse lo schema italiano post Fiuggi. Nel Front national di Marine Le Pen (e Florian Philippot) il richiamo al lascito di De Gaulle serve a dare una patina più rispettabile alle posizioni sovraniste ed eurocritiche da sempre sostenute dal partito, che oggi tornano di attualità vista l’impasse della costruzione europea e si rivestono di preoccupazioni protezioniste, colbertiste.
A suo parere come si evolveranno i rapporti tra FN (o come si chiamerà dopo l’eventuale cambio di nome) e destra gollista? Esistono margini per una convergenza?
Les patriotes, come forse si chiamerà il nuovo FN, non cercheranno ufficialmente e a livello nazionale una convergenza, perché non possono ammettere una compromissione con il “sistema” a lungo vituperato. È interessante notare tuttavia come Marion Maréchal Le Pen, prima di ritirarsi dalla vita politica con una mossa tanto sorprendente quanto sospetta di tatticismo, non avesse invece escluso una riflessione in questo senso. I gollisti, dal canto loro, dovranno guardarsi allo specchio dopo le legislative. Se dovessero vincere potrebbero resistere facilmente alle lusinghe radicali. Se invece si innescasse una dinamica centripeta di grande coalizione, le frange più oltranziste che si riconoscono nella corrente della droite populaire potrebbero avere interesse a staccarsi per iniziare un dialogo con i lepenisti.
In queste elezioni presidenziali, nonostante la sonora sconfitta del secondo turno, Marine Le Pen ha ottenuto due importanti risultati: un sostanziale riconoscimento come attore legittimo del sistema politico e un importante aumento di voti (avendo ottenuto 11 milioni di voti al ballottaggio). A suo parere questa è davvero una sconfitta per Le Pen o può rappresentare una base su cui costruire una vittoria futura?
Come al solito Marine Le Pen è stata sopravvalutata alla vigilia e viene sottovalutata dopo. Dieci milioni e 600mila voti sono un bottino elettorale enorme e che potrà essere capitalizzato da un’azione politica lungimirante. Alle legislative conterà soprattutto il comportamento altrui, ossia la tenuta del barrage repubblicano al cospetto dell’irrigidimento multipolare dei candidati macronisti, gollisti, insoumis e socialisti allettati dalla prospettiva di ottenere la maggioranza relativa nelle competizioni tri e quadrangolari del secondo turno. Ma in prospettiva Les Patriotes possono essere il punto di riferimento della ricostruzione a destra, se anche i gollisti vengono svuotati da Macron e se i governi dei prossimi anni non riusciranno a incidere sulla politica economica del Paese.
Marine Le Pen ha tenuto una posizione protezionista su molti temi, soprattutto quelli maggiormente legati ad aspetti “internazionalisti” ed europei, ma su molti altri ha invece optato per una postura decisamente liberista, basti pensare alle sue posizioni sulla tassa di successione e alla possibilità di donare soldi a figli e nipoti ogni cinque anni senza alcuna tassazione, ma anche al regime di detassazione previsto per le imprese. L’idea alla base di queste proposte è quella, tipicamente neo-liberista, di far ripartire l’economia stimolando la crescita, a fronte di un minore impegno della mano pubblica. Questo dovrebbe far capire che il Front National non sia molto interessato alle tematiche distributive e alle disuguaglianze, eppure Marine Le Pen ha preso molti voti dalle classi meno abbienti, che dovrebbero teoricamente essere più interessate a temi del genere. Lei come spiega questo dato? La sinistra francese cosa può imparare da questa realtà?
Si può partire dalla constatazione banale per cui la realtà sociale, e sociologica, non si traduce automaticamente in consenso politico-elettorale. Gli operai, gli impiegati e il lavoro dipendente in genere non hanno sempre automaticamente, e in blocco, votato per la sinistra. Né in Francia né altrove. Negli anni ’70 c’era un trenta per cento di elettori che non votata né per il Ps né per il Pcf. Le presidenziali del ’95 rappresentano uno spartiacque storico nella “destrizzazione” del voto operaio: da allora la maggioranza assoluta dell’elettorato operaio preferisce i partiti gollisti, liberali e di destra radicale. E ovviamente solo chi subisce la fascinazione del mito dell’elettore razionale può pensare che lo facciano a fronte di una lettura attenta delle proposte programmatiche di questi partiti. In ogni caso, il Front national è stato sempre guidato da una prospettiva iper-liberista, soprattutto negli anni ’80. Poi negli anni ’90 ha cercato di appropriarsi dei temi sociali: “Le social, c’est le Front national”, recitava uno slogan. Nello stesso periodo si è cominciato a parlare di “gaucho-lepenismo” e di “lepenismo operaio”. Oggi c’è un riorientamento programmatico verso temi statalisti e di welfare chauvinista, conseguenza dell’iniziativa di Philippot, che proviene dal sovranismo di sinistra di Chevènement. Ma resta alta l’attenzione per la concorrenza, l’impresa e la tutela dei patrimoni privati. Tutto ciò si correla con un crescente consenso degli operai per i Le Pen alle presidenziali: 21% nel 1995, 23% nel 2002, 28,5% nel 2012, 37% nel 2017. Ma bisogna considerare che solo il 60% degli operai oggi vota. E se si conteggiano anche i non iscritti alle liste elettorali, come alcuni studiosi francesi del Front hanno fatto (ad esempio Alexandre Dézé) solo un operaio su sette vota per il FN. Tanti o pochi, perché lo fanno? La spiegazione non è dissimile da quella evocata nei casi della Brexit e di Trump: forgotten men, individui che si sentono marginalizzati, sconfitti dalla globalizzazione, persone meno istruite e abbienti, mai socializzate alla politica o disilluse, che esprimono il proprio risentimento sostenendo chi dichiara di sfidare il sistema e le caste varie. Alla sinistra di tutte le latitudini servirebbe la politica. Vasto programma.
Nonostante diversi punti su cui il Front National abbia chiaramente mostrato una postura che potrebbe essere definita “anti establishment”, si può dire che le ideologie di fondo tanto del programma di Macron quanto di quello di Le Pen non abbiano messo in discussione l’apparato di pensiero che vede nel mercato uno spazio governato da leggi naturali e che, pertanto, il compito dell’agenda pubblica sia solo quello di rimuovere le barriere al funzionamento di tali leggi. In Francia un’azione progressista mirata a mettere in discussione questo assunto, proteggendo al tempo stesso quanto di buono l’integrazione europea e l’internazionalizzazione hanno creato potrebbe raccogliere importanti successi alle elezioni oppure questo spazio è stato interamente coperto dal Front National? Che significato ha il risultato di Mélenchon?
Nel mio piccolo aderisco alla corrente di studi politologici che individua nel populismo di destra radicale la versione politicamente scorretta del mainstream neoliberale, in termini di inegualitarismo, di sostegno al mercato, di visione antropologica dell’uomo. E ritengo che tra destra radicale e destra conservatrice-moderata ci sia una differenza più di grado che di natura. Ma mi rento conto che sono posizioni che ormai suonano demodé. D’altronde Le Pen dice che non c’è più una contrapposizione tra destra e sinistra ma tra patrioti e globalisti, dunque perché non crederle? Ironia a parte, sostenere l’internazionalizzazione e l’integrazione europea da sinistra è un’operazione che diventa sempre più ardua e indicibile. In Francia la sinistra comunista e socialista ha potuto fare a meno di sbandierare queste parole d’ordine anche quando esse non erano ancora compromesse altrove, non so se avranno voglia di farlo proprio ora. Certo, Mitterrand e Delors si sono battuti molto per l’integrazione europea, è storia. Ma oggi lo spazio dell’europeismo è occupato saldamente da Macron. Bisogna al tempo stesso dire che Mélenchon non esprime un antieuropeismo pregiudiziale. Forse in questo sopravvive un pizzico di internazionalismo.
Quali sono le cause della crisi del Partito Socialista? Si tratta di una crisi storica irreversibile o esistono margini per un recupero di consenso, magari attraverso un ripensamento della propria identità e della propria proposta politica? Quali sono, nell’immediato e nel medio periodo, le prospettive dei socialisti?
Il Partito Socialista viene rifondato nel 1971, all’apogeo del socialismo europeo, negli ultimi anni di gloria dei partiti di massa (cosa che il Ps in realtà non è mai diventato), in una fase di crescente dialogo tra socialisti e comunisti, a sostegno di una leadership come quella di François Mitterrand. Condizioni che oggi non sussistono: il socialismo europeo è in agonia, i partiti sono sempre più evanescenti, quella famiglia politica ha bruciato tutti i propri potenziali dirigenti di spicco, con la sinistra radicale c’è lotta senza quartiere. Nell’immediato più che di prospettive parlerei di macerie, nel medio periodo ci sono possibilità di ricostruzione, ma rivedendo completamente il ruolo, le forme e il blocco sociale del socialismo prossimo venturo, o almeno eventuale.
Da un punto di vista più teorico, potrebbe essere utile costruire un dibattito, a livello di élite ma anche di opinione pubblica, sul ruolo di quello che Piketty chiama “capitalismo senza capitalisti” tipico della Francia dei Trente Gloriouses e quali sono le probabilità che ciò possa avvenire durante la presidenza di Macron, anche in virtù di un’Assemblea Nazionale molto probabilmente frammentata?
Credo che Macron sia persona culturalmente raffinata, e che quindi potrebbe dare spazio a una discussione di questo tipo, quantomeno nell’empito di concedere una sorta di “diritto di tribuna intellettuale”.
Dopo le ultime tornate elettorali in Olanda, Austria e Francia cosa resta dei movimenti populisti? Possiamo ritenere sconfitti questi soggetti politici oppure dobbiamo considerarli ancora pericolosi nonostante le sconfitte elettorali? Ancora più importante, i candidati che sono usciti vincitori da queste elezioni sapranno farsi carico di quei contesti e quelle problematiche da cui i partiti populisti hanno tratto linfa vitale o dobbiamo aspettarci ancora molte altre sfide elettorali preoccupanti?
Penso che i movimenti populisti resteranno al centro della scena ancora per molto tempo. Intanto perché non credo che il cosiddetto establishment abbia gli strumenti per offrire al popolo, qualunque cosa si intenda con questa parola, un miglioramento sostanziale delle sue condizioni materiali nel breve. E poi perché la retorica del populismo è in grado di alzare costantemente l’asticella delle rivendicazioni e di alimentare il risentimento, prospettando soluzioni tanto radicali quanto impraticabili. Una parte consistente dell’elettorato ha bisogno di incanalare la propria soddisfazione in proposte di rottura, e i populisti, per il fatto di essere costantemente all’opposizione e quindi di proporre ricette virtuali ma mai testabili, restano i migliori venditori di accattivanti promesse di rigenerazione.

Fonte: pandorarivista.it 

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