La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 7 giugno 2017

Ceto medio in crisi di mediazione. Intervista a Giovanni Semi

Intervista a Giovanni Semi di Antonio Alia 
Romano Alquati in “Università di ceto medio” scriveva – così come sostiene in questa intervista Giovanni Semi, sociologo dell’università di Torino – che il ceto medio è una costruzione politica con la specifica funzione di stabilizzare il conflitto sociale tra le “due grandi classi storiche del sistema capitalistico”, costituisce una “diga protettiva al blocco capitalistico contro la solida forza d’attacco della classe operaia e contro la sua forte pressione ricompositiva e sempre unificante”.
Nelle stesse pagine di quell’utilissimo testo Alquati – tra il ’77 e il ’78, quindi in un momento di fortissima tensione sociale e sul finire di un lungo ciclo di lotta – parlava di “ceto medio in crisi di mediazione”, indicando con questa categoria gli effetti politici della capacità attrattiva che la classe operaia dell’epoca esercitava sulle classi medie. Allora la forza della lotta di classe aveva determinato lo spostamento di una parte del ceto medio verso il blocco politico operaio rompendo la sua funzione di mediazione e di stabilizzazione.
Oggi, dopo 9 anni di crisi economica, la questione del ceto medio è di nuovo di estrema attualità politica ma, a differenza della fine degli anni ’70, la sua crisi è determinata dall’alto nel segno dell’impoverimento e del declassamento. Nell’intervista Giovanni Semi ci indica alcuni dei nodi sociali e politici che articolano la questione del ceto medio, sui quali sarebbe utile sperimentare delle forme di organizzazione: la frattura generazionale, l’erosione del welfare famigliare, la fine delle promesse di ricchezza della finanziarizzazione e del capitalismo cognitivo su cui, negli ultimi trent’anni, è stata costruita la legittimità del neoliberismo, la crisi della riproduzione sociale che assume la forma della spoliazione del risparmio.
Queste epocali trasformazioni della stratificazione sociale ci consegnano una fase di profonda instabilità e volatilità politica. Fanno saltare – in maniera speculare a quanto accadeva ai tempi di Alquati – la funzione di mediazione della classe media, innescando processi politici che sono caratterizzati da un’estrema reversibilità, presi tra spinte progressive e reazioni conservatrici. Producono quella che nell'intervista viene chiamata la “crisi di rappresentanza del ceto medio”, su cui si fonda in buona parte il successo elettorale dei cosiddetti “populismi”.
Questa intervista a Giovanni Semi è un ottimo esempio di analisi della composizione di classe. Rimanda in una certa misura al metodo di Romano Alquati e dell'operaismo, ancora oggi indispensabile per assumere un corretto posizionamento politico in questo presente così gravido di problemi. Senza di esso infatti non si riesce a capire che l’ondata “populista” che sta investendo l’Europa è alimentata da sconquassi sociali di portata epocale che disegnano il nostro nuovo spazio di azione. Senza uno sguardo ai movimenti della composizione di classe si finisce per sostenere il Macron o il Renzi di turno contro la deriva “populista” e fascista invece di tentare di agire politicamente – e cioè in termini antagonisti – quelle stesse trasformazioni della composizione di classe che aprono possibilità inedite ancorché contraddittorie di soggettivazione politica.
Lo scenario sociale che si dischiude davanti a noi è sicuramente problematico e carico di fortissime ambivalenze, ma nondimeno risulta promettente da un punto di vista di parte e antagonista come il nostro: se è vero infatti che molti dei soggetti provenienti dallo sfaccettato ceto medio si mobilitano o potrebbero mobilitarsi per tornare alla situazione ex ante, cosa può succedere se quella situazione non può più essere ottenuta? Cosa succederà quando anche gli ultimi scampoli del welfare famigliare si saranno esauriti? Queste sono, per noi, solo alcune delle importantissime domande a cui sarà necessario offrire una risposta in termini di organizzazione politica se vogliamo battere i “populismi” sul loro terreno. Per farlo è necessario abbandonare i porti sicuri della cultura di sinistra ed immergersi nel mare della realtà. Fare i conti – come ci insegnano gli studi post-coloniali – con il fatto che non sempre i soggetti parlano come vorremmo.
Con le dovute differenze nazionali, il ceto medio è stato il prodotto politico di specifici assetti capitalistici regolati dallo Stato. Puoi illustrarci quali sono stati alcuni dei processi politici e sociali che stanno all’origine della sua formazione e quali sono state le figure sociali che lo hanno storicamente costituito?
“La domanda richiede una risposta molto lunga. Il ceto medio è una costruzione politica, a differenza delle classi popolari che sono molto di più una costruzione economica o del mercato. Il ceto medio è invece il frutto di una serie di accordi politici che vengono presi in epoche diverse tra Ottocento e Novecento. A seconda dei paesi che analizzi, la Germania bismarckiana, la Francia del primo dopoguerra, l’Italia del secondo dopoguerra, a livelli diversi di industrializzazione e di sviluppo dello Stato, emerge la volontà politica di creare una classe intermedia, un corpo intermedio che sia in qualche misura dipendente dallo Stato. È quindi il frutto di un complesso insieme di accordi politici che impiegano diversi decenni ad essere costituiti. Per cui se tu guardi il ceto medio, storicamente e nei diversi paesi occidentali, hai delle configurazioni di classi medie che sono tutte diverse tra di loro, che hanno dei pesi politici diversi, che hanno storie di formazione diverse, che hanno epoche di formazione molto diverse. Per cui se prendi il caso francese troviamo uno Stato forte, accentratore, burocratico, che si dota di una rete estesa e capillare e ricca di funzionari, che ha bisogno di un apparato di produzione di impiegati, di funzionari che devono far funzionare la macchina statale che è molto pesante. Quell’assetto lì, in Francia, genera un ceto medio dipendente dalla politica, molto legato in maniera strettissima ai sistemi scolastici e di accreditamento. Questa cosa in Italia non ce l’abbiamo. In Italia gli accordi politici sono piuttosto stati con delle categorie, penso per esempio alla costruzione politica del ceto medio dei commercianti, del piccolo artigianato e successivamente delle partite iva. C'è stata una lunga fase di accordo con alcune categorie produttive che sono state l’ossatura conservatrice del ceto medio nostrano e dello Stato. Abbiamo avuto anche noi i funzionari ma non in modo paragonabile alla Francia. È un lavoro di ricostruzione storiografica molto importante che è stato fatto solo parzialmente, perché a seconda del paese che prendi in considerazione hai costellazioni di ceto medio davvero diverse, per cui già parlare di un ceto medio europeo non è sostenibile, cioè non tiene da un punto di vista di un’analisi di classe o storica.”
La funzione politica di questo ceto medio è quella della stabilizzazione, all’interno di un sistema capitalistico in cui il conflitto tra capitale e lavoro è potenzialmente esplosivo…
“Sì, la funzione del ceto medio è questa. Soprattutto in alcuni periodi storici importanti – qui le temporalità della formazione del ceto medio contano parecchio –, penso al secondo dopoguerra, sono stati fatti dei patti in tutti i paesi occidentali di riduzione costante del conflitto sociale attraverso il consolidarsi di diversi ceti medi che garantissero in forme diverse la stabilità politica. In questo senso la Democrazia Cristiana è stato un partito che ha avuto la capacità di comprendere che aveva bisogno di dotarsi di una struttura interclassista che però doveva trovare degli accordi molto forti con la parte mediana della stratificazione sociale. Quindi sì, il ceto medio ha avuto un ruolo di stabilizzazione sociale e di creazione di un’arena politica filo-governativa. È stato anche una specie di camera di compensazione per una serie di categorie che potevano sperimentare qualche forma di mobilità sociale, in particolare nei trenta gloriosi, senza farsi venire la tentazione di girare quella mobilità sociale in una prospettiva, non dico rivoluzionaria ma quanto meno critica. È stato un patto che è servito ad evitare che tutti quelli che stavano sperimentando la mobilità sociale, la crescita del benessere, potessero usarla contro lo Stato.”
Nel dibattito pubblico e scientifico è ormai da tempo emersa la questione del ceto medio. Fenomeni come la precarizzazione del lavoro e la dequalificazione dei titoli di studio – per nominarne solo due a titolo di esempio – hanno eroso le basi materiali della sua riproduzione e di riflesso, mi pare, hanno fatto esplodere la stessa categoria di ceto medio che forse meriterebbe di essere maggiormente articolata. Puoi illustrarci più nel dettaglio questa epocale fragilizzazione delle classi medie?
“Riprendo l’idea utilizzata nella prima risposta. Il ceto medio è sempre una costruzione politica. Per esempio il meccanismo delle credenziali educative, dei titoli di studio è evidentemente una protezione politica che si dà ad alcune categorie, quindi dietro c’è sempre una scelta politica molto forte. Se c’è una crisi del ceto medio, cioè se nel dibattito pubblico il tema ritorna è perché c’è una crisi di rappresentanza del ceto medio. È successo qualcosa nel meccanismo di raccolta ed espressione degli interessi che ha rotto il patto che c’era stato. Tanto è vero che nel secondo dopoguerra si era parlato di patti sociali, che erano proprio fondati sull’idea di far crescere questa pancia mediana della società. Questo meccanismo si inceppa ovunque, dagli anni ’70 in poi, perché le promesse di sviluppo dei trenta gloriosi cominciano a segnare il passo. La mobilità sociale che era stata fortissima per almeno un paio di generazioni, si capisce che non durerà in eterno ed era stata anche un po’ fittizia. Questo è un discorso un po’ da sociologi, ma molte di quelle persone che avevano avuto accesso a occupazioni di ceto medio, penso in particolare agli impiegati pubblici, si erano illusi che quelle fossero solo il primo gradino che avrebbe portato loro o i loro figli a posizioni dirigenziali, invece si è trattato semplicemente di una sostituzione di una vecchia classe, quella contadina, con una nuova, il ceto medio, ma che non dava accesso a posizioni più alte. Questa scoperta che avviene negli anni ’80 e ’90 è una scoperta molto amara per moltissime generazioni europee e darà luogo ad una lunga ondata di insoddisfazione e di perdita di contatto con un’offerta politica che non è più in grado di garantire nulla a questi figli di ascesi al ceto medio. Questa è una prima disillusione forte e quindi una prima rottura di un patto. Dentro questa rottura del patto ci sono tutte le dinamiche che raccontavi prima: il fatto che non si voglia più garantire mobilità sociale al sistema, il fatto che il sistema economico è mutato radicalmente, siamo passati ad una fase post (aggiungici quello che ti pare); i nostri sistemi economici non producono più come in passato e c’è un eccesso di popolazione che non può vedersi garantito un miglioramento delle condizioni. Questa galassia, numerosa, di figli di, che non si sentono più rappresentati, fa saltare il ceto medio: se tu interroghi le persone molte di loro non si sentono di appartenere al ceto medio, il ceto medio è in crisi perché le persone dicono ‘io non sono classe media’ e addirittura rifiutano una definizione di classe, dicono ‘io sono un individuo’; questa cosa tradisce il fatto che non hanno più un raccordo con un futuro garantito con la politica. Questo secondo me è molto importante: le persone non pensano di appartenere ad un ceto o ad una classe, perché non hanno più una rappresentanza politica, dopodiché se guardiamo alla struttura sociale, cioè alla distribuzione di proprietà, reddito, di beni, le cose sono più complicate perché il ceto medio non è che sia scomparso. Questo si lega molto al discorso che faceva ‘il compianto’ Silvio Berlusconi qualche anno fa, che diceva ‘gli italiani sono ricchi, i ristoranti sono pieni’. Diceva una cosa molto intelligente e in parte vera: è vero che le giovani generazioni sono molto a rischio, sono più povere delle precedenti e soprattutto hanno delle chance future molto ridotte, però è vero che le loro famiglie hanno messo in pancia negli anni ’70 e ’80 una quantità di risorse che non si era mai vista nel nostro paese. Esiste una fascia media di popolazione che per esempio ha avuto accesso alla proprietà della casa. Non è un caso unico ma molto particolare, esemplificato da questo famoso 75% di italiani proprietari di casa. In molti casi soprattutto nella classe media, la casa non era nemmeno una, c’era la seconda casa, la casa dei nonni. In un gioco di riduzione demografica, di generazioni sempre più sottili, in realtà per molti italiani giovani il reddito disponibile è bassissimo e le chance di vederlo crescere sono molto diminuite, però paradossalmente ereditano proprietà o nella famiglia hanno a disposizione asset proprietari che non li fanno assimilare alle classi popolari. C’è un ceto medio impoverito, soprattutto di futuro e di speranza, di mobilità sociale. È un ceto medio che ha ancora molte sostanze, ma ciò non vuol dire che stia bene. Siamo in una situazione strana, in cui il dibattito è molto incentrato sull’impoverimento, ma è un impoverimento molto relativo. È soprattutto un impoverimento di opzioni future. Non ci si chiede come mai, dopo quasi dieci anni di crisi economica conclamata, non si siano prodotte nel nostro paese conflittualità sociali rilevanti. Una delle risposte è probabilmente che molte famiglie sono attente a lanciarsi in forme di conflitto perché hanno ancora molto da perdere, anche se stanno relativamente peggiorando la propria situazione economica e sociale.”
Su Commonware abbiamo dedicato molto spazio alla crisi bancaria: se guardiamo a questo fenomeno dal punto di vista del risparmio emerge con estrema chiarezza il tentativo di attaccare alcuni asset del welfare famigliare che consente alla generazione precaria dei figli e delle figlie di resistere ai processi di declassamento. In che misura questa crisi bancaria approfondisce la crisi del ceto medio?
“L’impressione è che il sistema bancario stia passando all’incasso, dopo gli anni ’90. E che sia passato all’incasso attraverso la finanziarizzazione delle famiglie, proprio per andare a mordere laddove c’era della carne: c’erano risparmi, c’erano bot, c’erano da convertire molte risorse messe in pancia dal ceto medio. La finanziarizzazione è un attacco a questo risparmio. Poi tutta la politica fatta sulla casa è stata una manovra neoliberale classica. Il pubblico ha smesso di produrre case, si è orientato a produrre case private e ha spinto i nuovi nuclei famigliari all’acquisto della casa. Molte la possedevano già, però c’erano moltissimi giovani le cui famiglie non avevano quel bene, e magari i genitori sono ancora in vita. E allora è stato finanziarizzato quel settore, questo è sicuramente servito a spogliare molte famiglie italiane da risorse che erano disponibili, perché potevano indebitarsi o avevano del capitale disponibile. Quel fenomeno lì c’è sicuramente stato e la fase di spoliazione c’è sicuramente stata. Però se guardiamo il numero di famiglie indebitate rispetto ad altri paesi europei, gli italiani per il fatto di aver intrapreso la corsa al mattone molti decenni prima, in realtà e paradossalmente sono molto meno esposti dei loro corrispettivi europei che si sono lanciati peggio e tardi sul mattone. Quindi la finanziarizzazione c’è stata e c’è ancora, però ha rosicchiato un ceto medio che era un pochino più saldo dei corrispettivi europei, perché aveva risparmiato un po’ di più. La crisi abitativa italiana c’è ed è importante, però è considerevolmente meno acuta delle crisi abitative che si trovano nel resto d’Europa. Io torno da Berlino, e sono rimasto colpito dall’ampiezza della crisi abitativa. Si parte da livelli molto diversi di proprietà e di beni e di indebitamento. Una spiegazione forte per cui c’è una scarsa conflittualità in Italia è che il problema abitativo è relativamente marginale, riguarda le classi popolari ma non direttamente il ceto medio. Mentre in altri paesi europei la questione è esplosiva perché ha colpito il ceto medio.”
Dopo 9 anni di crisi qual è la fotografia del ceto medio? Come si è stratificato?
“Una frattura che è evidente e molto violenta in questo momento è quella generazionale. È una frattura che investe il ceto medio, anche se ha attraversato le classi popolari che però per la scarsa rappresentanza politica sono molto silenti. Non hanno una grande voce, non sono ascoltati, spazzati via dalla crisi già degli anni ’80, non sono oggetto di interesse politico. Se guardi dentro la crisi di occupazione dei giovani italiani ci trovi sicuramente le classi popolari, però cominci a vedere chiaramente pezzi di ceto medio che cominciano ad avere molte difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro. C’è un caso quindi molto interessante di impoverimento del ceto medio, istruito e in molti casi sovra-istruito rispetto alle richieste del mercato del lavoro. E quindi, in tutto il dibattito sul brain-drain, sulla fuga dei cervelli, ci vedi l’ultima generazione del ceto medio italiano che sta lasciando la nave che affonda. È un dibattito interessante perché tace su chi rimane, su chi non ha nemmeno le risorse per lasciare il paese, che sono molto silenti e inascoltati. Questo è un fenomeno del ceto medio, che si manifesta sia nella fuga, sia nelle difficoltà che ha questa generazione sovra-istruita ad uscire dal nucleo famigliare, e ad accedere all’indipendenza economica e abitativa. Ci sono molti ritorni a casa che non dipendono dall’essere choosy o bamboccioni, ma perché ci sono condizioni strutturali che riducono le chance di cavarsela in maniera autonoma a costi contenuti. Questi sono campi in cui tu vedi chiaramente la crisi di una parte delle famiglie del ceto medio.
Un fenomeno su cui sto lavorando sono le strategie di sopravvivenza che adottano queste giovani generazioni per resistere alla crisi. Una è l’utilizzo che molti giovani, figli di classe media tradizionale, quindi professionisti, commercianti che hanno avuto un’istruzione simile o superiore a quella dei genitori, usano i risparmi, i beni immobiliari dei genitori, affittandoli, con airbnb o altri canali di questo tipo per integrare redditi da lavoro precari o temporanei che sicuramente non crescono. Uno degli aspetti interessanti, uno dei fattori che hanno le economie cosiddette dell’innovazione, o sharing economy, cognitive o culturali, è proprio l’uso che ne stanno cercando di fare per integrare redditi che sono crollati rispetto a quelli della generazione precedente.”
A questo proposito c’è stata negli ultimi anni una sovrabbondante produzione ideologica sulla sharing economy. Queste nuove forme di economia e di lavoro quanto offrono in termini di mobilità sociale e di emancipazione dal lavoro salariato e quanto invece sono delle strategie di mera sopravvivenza che di fronte ai colpi della crisi difficilmente riusciranno a tutelare i livelli di ricchezza?
“Dal punto di vista occupazionale mi sembra abbastanza evidente, i numeri sono impietosi. Non c'è stata sostituzione in termini netti, tra i numeri di occupati che offriva il mondo precedente con il mondo attuale. Allora è chiaro che quasi nessuno della generazione che aveva avuto i genitori operai, ma anche impiegati nei livelli più bassi dell’amministrazione statale, avevano intenzione di fare i lavori che facevano i genitori, però è chiaro che tutto quello che è stato offerto dopo, in termini numerici non è paragonabile. Questo ha creato una disoccupazione giovanile di massa, di cui vediamo i numeri. E sembra assurdo che ci si stupisca del 40% di disoccupazione giovanile quando questa era una sciagura che si vedeva arrivare. Non si sostituisce il lavoro operaio o impiegatizio con le start-up o imprese creative di mille tipi, o auto-imprenditorialità più o meno posticcia. Questo è evidente. Poi che una parte delle competenze cognitive che sono state fornite dall’università sia stata orientata a produrre lavoratori più creativi, o comunque più votati ad un’ascesa individuale e imprenditoriale e che questa cosa in qualche misura abbia generato una qualche parvenza di attività economica, autonoma di terza o quarta generazione sì, però i numeri sono troppi bassi. Ha generato soprattutto delle attese, tutto sommato ingiustificate rispetto alla necessità di avere 100, 200 o 300mila posti di lavoro, in attività in cui si potessero utilizzare le competenze apprese nelle facoltà. È la storia di un’illusione clamorosa, che era anche affascinante, perché l’idea di abbandonare l’aspetto alienante del lavoro salariato è da perseguire. Il problema è che la sostituzione con forme auto-imprenditoriali non ha dato minimamente la possibilità di affrancarsi dal lavoro. Lavorano più di quanto lavorasse la generazione precedente, con aspettative di miglioramento della condizione salariale assolutamente ridotte, e alla fine con livelli di alienazione e di frustrazione che sono peggiori di quelli dei genitori. Rimando a quel piccolo capolavoro degli anni ’90 che è L’uomo flessibile di Richard Sennett, che descriveva molto bene questo passaggio: caricare su individui dotati di competenze probabilmente più elevate o meglio certificate i guasti del nuovo capitalismo. Questa cosa ha funzionato dal punto di vista del capitalismo…”
Sembra che da un lato l’impoverimento e la fine di questa illusione progressiva del capitalismo cognitivo possa innescare dinamiche conflittuali, dall’altro sembra che questa narrazione ideologica funzioni molto bene, tanto è vero che molti precari sono anche disposti ad accettare salari da fame se non lavoro gratuito pur di sentirsi realizzati...
“Si vede molto bene dall’osservatorio accademico. Il livello di distruzione della solidarietà tra lavoratori esclusi dal sistema è tale per cui ognuno segretamente pensa che con ancora 6 mesi a pane e acqua riuscirà comunque ad ottenere un piccolo vantaggio sul collega che gli consentirà poi tra sei mesi o un anno un assegno di ricerca che poi magari diventerà una posizione di ricercatore a tempo indeterminato che poi magari si trasformerà ancora. Nel settore cognitivo che conosco io è evidente come questo meccanismo abbia distrutto le solidarietà tra lavoratori e abbia innescato delle dinamiche di competizione individuale. Con tutto un portato psichico negativo: il consumo di psicofarmaci cresce, l’idea di non essere adeguati a sostenere la complessità del sistema cresce. Il sistema è fatto apposta per produrre atomi insicuri, che devono essere disposti anche a lavorare gratuitamente. Quindi il meccanismo è condiviso e vale per tutti i settori. Non ha generato come alcune profezie marxiane d’antan prevedevano, nuove forme di risposta collettiva. Invece ha schiacciato i lavoratori ed ha innescato anche delle dinamiche di disprezzo, di odio, di lotta tra generazione che sono totalmente cieche. Questo è quello che vedo dal mio particolare punto di osservazione.”
Vorrei ritornare sul concetto di ceto medio come costruzione politica. Nella misura in cui è stato un fattore di stabilizzazione ora di fronte ai processi di fragilizzazione e impoverimento di cui abbiamo parlato prima, può essere in potenza un fattore di destabilizzazione? Dietro i “populismi” non c’è forse il tentativo da parte di questo ceto medio trovare una nuova rappresentanza politica? Quanto è stabile questa rappresentanza? A noi di Commonware sembra invece che ci siano forti ambivalenze, delle instabilità in questa domanda di rappresentanza che non debbano necessariamente risolversi nel sostegno ai “populismi”, ma possono anche risolversi in forme politiche antagoniste o più apertamente conflittuali.
“Secondo me la risposta è davvero molto nazionale e quindi nazionalista. È evidente che l’offerta politica ha a che fare con delle costellazioni di interessi che sono state costruite su scala nazionale quindi per esempio i 5 Stelle che sono sicuramente un osservatorio molto di classe media, poi ci sono anche propaggini di classe popolare, ma c’è una predominanza di popolazione istruita e di ceto medio, è anche il frutto di collasso dei partiti precedenti di imbrigliare quel tipo di classe a cui non avevano più nulla da offrire. Allora questo può dare degli esiti differenti. Può essere raccolto in maniera molto ambigua come nel nostro caso, in cui si orienta dall’estrema destra a certe piccole venature dell’estrema sinistra passando per i 5 stelle, come può essere raccolto temporaneamente da Podemos in spagna oppure può slittare verso scelte più conservatrici o autoritarie come in Francia, Germania, Stati Uniti. La situazione quindi è molto diversa a seconda dei contesti, però sembra evidente che l’attuale fase di crisi e incertezza politica sia legata al fatto che il sistema non è in grado di dare risposte a disastri che ha esso stesso generato. Prima ha distrutto un sistema economico, poi ha cercato di spogliare quello che restava, adesso si trova comunque a dover rispondere a delle reazioni e allora a questo punto guarda caso il dibattito va sulla riduzione del diritto di voto per controllare o imbrigliare questi nuovi barbari che votano contro il sistema – e bisognerebbe chiedersi come mai votano contro il sistema – oppure e di nuovo guarda caso temi che sono stati di una certa sinistra, come il reddito minimo, ritornano in forza non solo in una certa sinistra ma addirittura portati da partiti di centro e di destra perché molti si stanno chiedendo se questo tipo di crisi sistemica non sia solo temporanea ma irreversibile. È una fase che da analista è assolutamente interessante. Da cittadino è drammatica. Storicamente c’è stato molto interesse per le classi medie in Europa, non a caso negli anni ’20 e ’30, quando in una situazione molto diversa ma per certi versi anche simile a quella attuale, quando lo spostamento dei ceti medi nazionali su posizioni estremiste, ha sostenuto quel tipo di conflittualità politica che ha portato ai fascismi. Adesso la situazione non è esattamente la stessa ma molti degli elementi che erano sul tappeto negli anni ’30 lo sono anche oggi.”
È vero che dietro ai fascismi c’è una spinta che viene dalla pancia mediana della società. E però questi processi politici non sono già determinati. Non è detto che la crisi del ceto medio debba risolversi in un nuovo fascismo. Potrebbe anche risolversi in forme di conflittualità più radicali...
“Questo è un auspicio che condivido. Però in questo momento all’orizzonte quella presa di consapevolezza, di elaborazione di una qualche connessione a sinistra mi sembra molto più debole delle prese di consapevolezza che ci sono a destra. Mi sembrano molto più organizzate, e storicamente più solide e che sappiano interpretare meglio – non vuol dire in modo condivisibile – questo fenomeno. Continuerei a mettere nel gioco gli interessi che sono uno dei motori principali dell’essere umano nel capitalismo. Quanto uno è disposto realmente a rovesciare la macchina, se si è proprietari di un pezzo di quella macchina? Quanto si è disposti a rompere un meccanismo se da quel meccanismo si recupera qualcosa? Ad esempio avere generato più del 70% di cittadini proprietari di casa, chiaramente ha ridotto il livello della conflittualità. Dal punto di vista del sistema è stato un ottimo calmiere sociale. Queste stesse persone quanto sono disposte a mandare tutto all’aria? Questa è la domanda che dobbiamo porci. In questo momento i paesi che avevano distribuito meno asset proprietari, possono essere più progressisti di paesi come il nostro che hanno fatto scelte conservatrici molto prima garantendo che il sistema in qualche misura tenesse. L’Italia non ha generato né Alba Dorata né Podemos, ha generato i 5 stelle. E come mai ha generato i 5 stelle? Non è solo la capacità imprenditoriale di Grillo. Grillo e la Casaleggio associati hanno capito bene che c’era un humus di rabbia, c’era una popolazione arrabbiata che tutto sommato ha interessi molto forti che non è disposta a mollare facilmente.
Negli anni ’50 e ’60 il ceto medio è stato funzionale ma adesso comincia ad essere un pochino meno utile, allora ci si può consentire addirittura un 40% di disoccupazione giovanile. Io su questa cosa torno in maniera ossessiva perché è una contraddizione che se ci fosse stata negli anni ’70 avrebbe portato ad una conflittualità politica inimmaginabile. Invece nei ’70 c’era molta conflittualità, ma con livelli di disoccupazione assolutamente frizionali. E tutti possiamo pensare che se ci fosse stato un livello di disoccupazione del 40% negli anni ’70 sarebbe successo di tutto. In Italia oggi abbiamo il 40% dei giovani che non hanno lavoro, che non lo cercano e che stanno lì fermi. Questa cosa è una novità e dobbiamo chiederci che cosa significa, o quanto terrà. Probabilmente non succede niente perché le famiglie stanno tamponando la situazione, gli garantiscono dei minimi vitali, gli garantiscono la casa, qualche forma di speranza futura. E se questa cosa salta? Quella è la vera polveriera.”
Fonte: commonware.org 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.