La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 7 giugno 2017

Lo spettro atomico

di Aldo Tortorella
Avevamo dimenticato gli allarmi, che risuonarono a lungo durante la guerra fredda, per un possibile conflitto nucleare. La guerra fredda si svolse e si concluse con l’implosione di uno dei contendenti senza alcuno scontro militare tra le due grandi potenze di allora. Lo sforzo per essere armati fino ai denti aveva contribuito a stremare i sovietici già inviluppati in un sistema insostenibile. Ci siamo abituati a considerare gli arsenali nucleari come manifestazione di potenza, come “deterrenza” non usabile. Sembrava – sembra – impensabile l’idea che ci possano essere degli uomini di Stato così dementi da generare un conflitto di inimmaginabile devastazione.
Ma ora non è solo Noam Chomsky a dirci che con Trump il pericolo è tornato, per l’impossibilità di costui di tener fede alle proprie mirabolanti promesse elettorali e per l’estrema facilità di manipolare l’opinione pubblica inventando inesistenti minacce agli Stati Uniti. Da tutte le parti, infatti, si dice che nell’amministrazione americana infuria più che mai lo scontro tra i conservatori prudenti e gli estremisti avventurosi e si sa che questi fautori del pugno duro, dopo i disastri combinati con la guerra all’Iraq ai tempi di Bush, sono ora tornati prevalenti, cosa che conferma i timori e gli allarmi. 
Va anche ricordato che il rinnovamento dell’arsenale nucleare americano non è un’iniziativa di Trump, ma la prosecuzione di una decisione di Obama – passata in un ampio silenzio – che stabilì per l’ammodernamento atomico statunitense un programma di mille miliardi di dollari per un trentennio di cui trecento trentacinque nel decennio già in corso. Nel programma annunciato: 12 nuovi sottomarini nucleari, 100 nuovi bombardieri atomici, 400 nuovi silos per il lancio di missili atomici intercontinentali. In questo lieto menu rientra, naturalmente, anche l’aggiornamento dei missili atomici americani situati nelle basi americane ospitate in Italia. C’è una continuità impressionante, dunque, nella condotta militaresca degli Stati Uniti e nei suoi risvolti economici. 
Fu un vittorioso generale divenuto presidente (repubblicano) degli Stati Uniti negli anni Cinquanta del secolo scorso – Dwight Eisenhower – ad ammonire, al termine del suo mandato, contro le eccessive pretese, pericolose per gli stessi Stati Uniti, di quello che chiamò il “complesso militare-industriale”, autorevolmente definendo, così, uno dei cancri del suo paese e del mondo. È certo possibile, com’è avvenuto, pensare e dire che il Papa Bergoglio pecchi di ingenuità quando, con linguaggio antico, accusa i mercanti d’armi di essere i fautori di guerra a scopo di lucro. Ma non si tratta di ingenuità. Fabbricare armi serve a sostenere il sistema produttivo, a rianimarlo in caso di crisi e ad accumulare potere spaventando la gente: nel caso degli Stati Uniti, accumulando un potere imperiale.
Un accumulo che può dare alla testa, può suscitare deliri di onnipotenza. Chi credeva che Trump dicesse “America first” pensando a una linea isolazionista, ora vede che quella primazia americana riguardava il mondo intero. 
C’è nella linea di Trump anche la rappresentazione di una frustrazione nazionale. Gli Stati Uniti seppure ancora considerati paese guida hanno da tempo perso il ruolo economico dominante che detenevano nel secondo dopoguerra quando, come informano gli esperti della materia, il loro prodotto valeva la metà di quello mondiale mentre ora ne rappresenta il 22% contro il 15% della Cina. E, in più, il loro debito cresce e in buona parte (non lontana dal 50%) sta all’estero, compresa la Cina che ha ceduto al Giappone, anche se di poco, il titolo di primo creditore e comunque ne possiede più di mille miliardi di dollari. L’egemonia non è fatta solo di potenza economica, ma di capacità di determinare la cultura diffusa, i desideri, le speranze, attraverso la parola e le immagini, cioè attraverso gli strumenti della comunicazione di massa e attraverso la rete. In questo campo il primato degli Stati Uniti è indubbio. Ma l’uso egemonico di questo immenso potere è condizionato dall’immagine che gli Stati Uniti danno di se stessi. Con la guerra di Bush – le scoperte bugie, il disastro nel Medio Oriente, l’incremento del terrorismo – questa immagine si era appannata. Obama aveva cercato di restaurarla, Trump lo accusa di aver fallito. L’idea dell’egemonia non lo sfiora. Torna la nota idea che bisogna comandare e per comandare bisogna mostrare i muscoli e, forse, adoperarli. 
La radicalizzazione espressa da Trump corrisponde, come è stato detto su queste colonne, a un “lato oscuro” degli Stati Uniti ben occultato e spesso ignorato dall’opinione comune, generalmente sorpresa, infatti, dalla vittoria, seppure con una minoranza di consensi, di chi appariva ai più negli Stati Uniti e in Europa quasi un elemento estraneo all’immagine tradizionale della democrazia americana. Persino Bush, per aprire la guerra irakena, pensò che fosse necessario coprire quell’aggressione non solo con il manto ideologico della esportazione della democrazia, ma anche con l’avallo dell’Onu attraverso l’invenzione, poi smascherata, dell’accertamento del possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam.
Erano, ovviamente, diversivi, ma erano l’indizio di una vaga coscienza. Ora, Trump bombarda la Siria senza neppure l’ombra di un accertamento – per quanto di comodo – da parte di una qualche organizzazione neutra sull’uso di armi chimiche da parte di Assad.
E fa buttare la superbomba in Afghanistan per intimidire la Cina, avendo come schermo – trasparente – la Corea del Nord, con il suo tiranno. La monarchia ereditaria coreana è un esempio di megalomania certamente inaccettabile, ma tra l’inaccettabilità e la minaccia di guerra con rischio nucleare c’è un abisso che non fu varcato in passato e non avrebbe dovuto essere varcato. 
Ciò che, ora, mi pare particolarmente preoccupante è che i missili gettati sulla Siria con decisione unilaterale e senza alcuna copertura internazionale neppure meramente formale hanno avuto la generale approvazione dei gruppi dirigenti statunitensi e dei governi europei oltre che suscitare l’entusiastico consenso delle formazioni scioviniste e razziste che imperversano nel nostro continente. E la superbomba sull’Afghanistan è stata presentata dai media quasi come una impresa sportiva, degna di essere iscritta nel libro del Guinness dei primati. Il pericolo tremendo è che ci si abitui all’idea della guerra preventiva come soluzione ed è perciò che suona attuale la verità lapalissiana ricordata dal Papa Bergoglio, sempre di più una voce che pare parlare nel deserto: la guerra non è mai una soluzione, ma solo la creazione di terrificanti tragedie. 
L’assuefazione all’idea della guerra come prevenzione nasce dalla presunzione della superiorità assoluta da parte di qualcuno. Ricordo benissimo, data la mia età, la vigilia della seconda guerra mondiale e l’ingresso in guerra dell’Italia fascista al fianco della Germania nazista. Il mito che allora veniva diffuso era quello della guerra lampo. I tedeschi erano dilagati in Europa e arrivati a Parigi in pochi mesi. Andare in guerra pareva una passeggiata. Non siamo adesso allo stesso punto. Il mondo è radicalmente cambiato da ogni punto di vista. Ma sarebbe bene vedere i sintomi dell’infezione prima che diventi cancrena. La voglia di menare le mani, come si diceva una volta, era comparsa apertamente nella campagna elettorale di Trump. Contro i musulmani in generale, contro i messicani «drogati e delinquenti», contro Hillary («chi ha le armi la fermi»), contro la stampa e a favore di tutti i dittatori possibili e immaginabili. Sembravano le esagerazioni di un uomo grossolano ed eccessivo, fatte per galvanizzare lo spirito settario. Non era solo spettacolo. Dietro e oltre c’era il fanatismo integralista bianco, il militarismo, la reviviscenza dei sentimenti peggiori. 
Anche io ho ricordato che a causare la sua vittoria (così come l’avanzata del razzismo e dello sciovinismo in Europa) aveva influito l’indifferenza dei governanti considerati progressisti verso le conseguenze materiali della mondializzazione – e della crisi economica – ormai ben note (la disoccupazione per decentramento produttivo in aggiunta a quella dovuta alla crisi e all’innovazione tecnologica, le diminuzioni salariali per la concorrenza internazionale e dell’immigrazione, la relativa svalutazione dei risparmi e delle piccole proprietà immobiliari ecc.). E la globalizzazione economica unitamente alla diffusione mondiale della rete di comunicazione interpersonale globale implicava necessariamente una diversa cultura di massa. Il trittico antico (“Dio, patria e famiglia”) non veniva rinnegato dal moderatismo ma lasciato sullo sfondo, come l’immagine degli avi appesa alla parete o, meglio, come il vestito buono che si ripone in guardaroba. L’accento ideologico anche dei moderati cadeva, ora, sul cosmopolitismo (sfumando l’idea di patria) e sui diritti della persona (rileggendo, almeno in parte, l’idea di famiglia). Ora che emergono le conseguenze negative per molti della globalizzazione, non mi parrebbe giusto ignorare le ricadute anche positive portate da queste modificazioni della cultura diffusa nella vita individuale e nei costumi sociali. Innanzitutto, l’estensione dei diritti civili almeno nell’occidente e una maggiore consapevolezza della loro possibile utilità altrove. 
Tutto questo, però, aveva poco da dire a chi, invece, nella nuova realtà produttiva e sociale trovava solo motivi di sofferenza. E dunque il disagio, il timore per il domani, la disperazione di molti hanno generato una ripulsa dei nuovi costumi e delle nuove idee e si sono incontrati con i sedimenti di culture antiche e, talora, ancestrali. La paura dello straniero, il razzismo, il nazionalismo esasperato, il culto del proprio cantuccio, la religione come superstizione, il rifiuto della liberazione femminile, l’avversione per i gay, l’odio per l’esattore delle imposte e per chi le mette, sono giacimenti delle coscienze simili alle miniere di carbone in alcuni casi sepolte nel profondo, in altri coperte da sottili strati di terra, in altri ancora esposte a cielo aperto. Quello che si chiama il “populismo di destra” non inventa i pessimi sentimenti che predica, li trova pronti o li dissotterra, li fomenta e li usa sino a farne materia esplosiva. L’antisemitismo non fu inventato dal nazismo, stava nell’antica predicazione contro i deicidi, e nell’uso dei pogrom come sfogo dell’ira popolare. I nazisti lo spinsero sino all’estremo del genocidio, mostrando fin dove può arrivare l’infamia di uomini detti civilizzati, e lo usarono non solo ai fini del loro potere ma al fine dello scatenamento della guerra.
Non so, e credo che nessuno sappia, dove può portare l’amministrazione Trump per di più a confronto con le folate di follia che spirano dalle caserme della Corea del Nord. Il fatto che ci sia uno scontro all’interno dell’amministrazione prova che c’è chi, sia pure su posizioni ultraconservatrici, resiste al peggio. Ed è visibile che una parte rilevante del potere economico americano non è incline ai rischi di avventura. In Europa non è avvenuta finora la saldatura tra il cosiddetto populismo di destra e il conservatorismo di impronta liberale, cioè l’incontro che favorì l’avvento dei fascismi europei del secolo scorso unitamente alle divisioni fratricide a sinistra. Ma è paradossale che si debba sperare nella tenuta dei centristi destrorsi rispetto al richiamo delle destre estreme. Questa tenuta deriva talora da posizioni di principio, ma assai di più dal timore di perdere le proprie posizioni di potere e, dunque, è un fragile riparo. 
L’argine in difesa della democrazia e della pace dovrebbe essere costituito dalla sinistra politica e sociale. Ma la sua parte più moderata mostra di non aver capito i guasti generati dalla mondializzazione dominata dalla finanza. Smarritasi dietro il liberismo ha perso il rapporto con il suo popolo e non intende la lezione dei Corbyn e dei Sanders (o dei Malenchon) giudicandoli dei perdenti. Ma è vero, al contrario, che la loro resistenza giova anche ai democratici non socialisti. Se non c’è chi dà battaglia in nome della giustizia sociale e della pace, dei principi di libertà ed uguaglianza, se chi predica libertà ed eguaglianza non dà l’esempio di una pratica politica vicina ai bisogni popolari, fatalmente passerà il richiamo alle antiche culture subalterne o al ribellismo inconcludente. È stato un errore grave dimenticare che all’origine delle posizioni di sinistra c’è ci deve essere, una rivolta morale contro un mondo d’ingiustizia, di sopraffazioni e di guerre. Ma non è mai troppo tardi per rimediare.

Fonte: criticamarxista.net 

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