La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 7 giugno 2017

Connettersi con il popolo per sconfiggere il populismo. Intervista a Michael Sandel

Intervista a Michael Sandel di Giancarlo Bosetti 
Per Michael Sandel l'idea che l'ondata populista dipenda solo da immigrazione ed economia è sbagliata. "Chi pensa così non vede che ci sono prima di tutto ragioni morali e culturali. E la mia preoccupazione - ripete - è che le élite liberali non riescono a capirlo ". Questo filosofo americano della politica, 64 anni, autore del classico "Il liberalismo e i limiti della giustizia" e del recente "Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato" (Feltrinelli), tiene lezioni ad Harvard con una leggendaria chiarezza. Un suo corso sulla giustizia è stato cliccato su Youtube sette milioni e mezzo di volte.
Protagonista della sfida filosofica tra i liberal come John Rawls e i communitarian come Macintyre e Taylor, ha contribuito a uno spostamento della filosofia politica verso posizioni più accoglienti per le differenze culturali e le tradizioni dei cittadini nella sfera pubblica. Al Forum di Davos ha usato la metafora dello sky- box (il nome delle cabine di lusso negli stadi di baseball). Un abisso separa chi sta in cima dalla gente comune: appunto la sky- boxification della società.
A Davos non c'erano studenti, ma lo sky-box di politica ed economia. Che gli ha detto?
"Che non hanno capito qual è il senso della protesta populista. Il malessere non nasce solo da disoccupazione e paura dei migranti, ma dalla perdita di stima e dagli slittamenti progressivi dell'identità sociale e politica. La protesta ha aspetti orribili e pericolosi, ma è basata su legittime rimostranze da parte di chi si sente indebolito da tre decenni di globalizzazione neoliberale. La passione e il risentimento che animano il populismo riguardano la perdita di status, il disprezzo subito dalla classe media, dai lavoratori, dalla gente".
Lo hanno raccolto?
"Non mi faccio illusioni".
Le sue critiche ai limiti del liberalismo hanno una storia lunga, cominciano negli anni Ottanta. Ma quale liberalismo?
"Scrivevo da critico del liberalismo, ma da critico amichevole contro la tesi che il discorso pubblico liberale non deve impegnarsi su questioni sostantive circa che cosa sia una vita buona, che governo e legge dovrebbero rimanere neutrali rispetto a concezioni in competizione tra loro sul modo di intendere il bene".
Quali erano le obiezioni principali?
"Erano due: la prima che non è possibile decidere fondamentali questioni di giustizia senza affrontare concezioni diverse della vita buona, la seconda che tenere fuori dal discorso pubblico la discussione su che cosa sia bene crea un vuoto rispetto a quel che preme ai cittadini, il che taglia fuori la loro voce nelle questioni importanti. Questa esclusione provoca uno sgradevole contraccolpo: c'è chi riempie il vuoto con concezioni intolleranti".
È quello che vediamo oggi?
"Esattamente: una rivolta populista contro un discorso pubblico di tipo puramente tecnocratico e manageriale, che si identifica con una fede trionfalista nel mercato e che al mercato ha consegnato in outsourcing il giudizio politico e morale. Questo processo è cominciato negli anni Ottanta con Reagan e Thatcher, ma è continuato con i partiti di centrosinistra: Clinton, Blair, Schroeder hanno da una parte certo moderato la fede nel mercato, ma dall'altra l'hanno consolidata. Non è stata mai messa in discussione la promessa che i meccanismi del mercato siano strumenti primari per realizzare il bene pubblico".
Ma una certa neutralità nella concezione del bene tiene al riparo dagli autoritarismi.
"È dagli anni Ottanta che naturalmente devo affrontare questa obiezione e ho sempre risposto che se ho ragione nella mia tesi che un discorso pubblico neutrale non ci può fornire i principi per una società giusta, allora questa insistenza è percepita come una richiesta oppressiva, e anche disonesta, perché la gente sa che le decisioni che si prenderanno non accoglieranno la loro voce".
Questa protesta prende forme molto poco liberali.
"L'effetto paradossale è che il liberalismo della neutralità, che nasce soprattutto dalla intenzione di evitare il rischio dell'autoritarismo, crea di fatto la condizione per una politica autoritaria, perché genera una reazione contro le élite liberali che ha preso due forme: il fondamentalismo religioso e il nazionalismo populista di destra, un altro modo di vestire una sfera pubblica nuda".
Nelle righe finali del suo "Democracy's Discontent" ormai vent'anni fa lei diceva che "gli esseri umani sono fatti per lo storytelling" e dunque si ribellano alla tendenza liberale a cancellare le narrazioni. Ma come conciliare le narrazioni e libertà?
"È la sfida del nostro tempo. Il tema centrale della politica è l'appartenenza alla comunità e il suo significato. Come cittadini democratici di società pluraliste noi abitiamo dentro una pluralità di comunità e le nostre identità sono definite in modi molteplici. Questo significa che dobbiamo deliberare insieme sui racconti e le tradizioni da cui possiamo trarre un significato".
Ma in una società tollerante come può questo confronto onorare il pluralismo?
"Ci sono due diversi modi di affrontare il tema del rispetto reciproco. Uno è quello dell'"evitar- si". L'altro è quello basato sull'impegno. Questo ci spinge a trovare modi di ragionare apertamente sulle differenze e incoraggia tutti i cittadini non a lasciar fuori dalla sfera pubblica le convinzioni morali e spirituali, ma a entrarci per come sono, pienamente "abbigliati" delle loro tradizioni, culture, convinzioni morali".
Perché la rivolta populista colpisce di più i partiti progressisti?
"Perché sono sentiti come più collegati alle élite professionali e tecnocratiche che alla gente comune, che rappresentava la loro base. Per rivitalizzare il progetto socialdemocratico bisogna in primo luogo re-immaginare il significato, lo scopo e la dignità del lavoro. In secondo luogo bisogna valorizzare il significato della comunità nazionale, senza lasciare che il patriottismo diventi monopolio dei populisti".
La sua chiarezza nelle lezioni è un mito. Come ci è riuscito?
"Mi sono innamorato tardi della filosofia, dopo la laurea. Molti filosofi si rivolgono essenzialmente ad altri filosofi; io invece cerco di collegare la filosofia alla vita. Socrate camminava per le strade di Atene conversando con gente comune: cominciava con domande elementari e li portava ad affrontare questioni fondamentali della giustizia e del bene. Io cerco di imitare quel modello, a modo mio".

Fonte: La Repubblica 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.