La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 10 giugno 2017

Storie d’erranza e di speranza. Georges Perec e i migranti europei

di Laura Barile
1. Perec morì a 46 anni nel 1982, e da allora la sua fama è andata continuamente aumentando, con la pubblicazione postuma di molti inediti, anche giovanili. Nel 2016 avrebbe compiuto ottant’ anni: in questi giorni Gallimard manda in libreria due volumi in un cofanetto nella prestigiosa collana della “Pléiade”, con le opere di questo autore che è ormai una vera e propria icona della letteratura francese contemporanea, in cui l’umorismo elabora la disperazione, come scrive Marie Darieussecq presentandolo in due pagine su “Le Monde des Livres” il 12 maggio 2017.
I volumi sono editi sotto la direzione di Christelle Reggiani, studiosa di Perec e autrice di un testo che ci interessa: Georges Perec: une poétique de la photographie 1. Esce contemporaneamente anche un Album Perec curato con amore e divertimento da uno dei suoi massimi studiosi, Claude Burgelin.
Ma in Italia manca un suo libro fondamentale, che è anche l’ultimo da lui portato a termine: il libro misto di testi e fotografie che lui stesso volle fare, dopo aver girato nel 1979 il film Récits d’Ellis Island con il regista Robert Bober (trasmesso nel 1980 da TF1 e oggi su Youtube). Perec pubblicò il libro nelle edizioni parigine du Sorbier nel 1980. Ristampato da P.O.L. nel 1994 col supporto dell’INA (Institut National de l’Audiovisuel) che aveva commissionato il film, il libro è ampliato nella parte fotografica (su menabò di Jean Larrigue). È questo il libro che non è arrivato da noi, il libro voluto da Perec a film finito 2 : Georges Perec con Robert Bober, Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir. Il solo testo scritto, mutilato dal rapporto con le foto e privo della seconda parte con le interviste di Perec ai sopravvissuti ebrei e italiani transitati nell’isola prima di approdare in America e diventare americani, o venirne respinti, uscì tradotto da Maria Sebregondi in un volumetto verde della collana “Gli aquiloni” di Rosellina Archinto nel 1996.
Ma il pregio di questo libro, che abbandona i funamboleschi intrecci e i virtuosismi delle regole oulipiane, consiste proprio nella ibridazione delle due arti, fotografia e scrittura: e mescolando foto, cartoline, pagine manoscritte dal diario delle riprese del film, diventa una terza cosa, un testo nuovo che termina con le conversazioni a voce con persone che hanno individualmente provato quella esperienza. Un libro di grande bellezza e di assoluta attualità oggi per l’Europa, che dalla condizione di migrante è passata a quella di controllore dei nuovi migranti.
Una sola grande contrainte, restrizione o regola, presiede a questo libro: quella dell’infraordinario, che è in realtà il segno più forte della scrittura di Perec, imperterrito ricercatore dell’infraordinario anche all’interno dello stra-ordinario, catastrofe o miracolo che sia. Come raccontare davvero, come interrogare la vita quotidiana, non i momenti straordinari ma quelli ordinari, di quel periodo di permanenza sull’isola di tanti milioni di persone mosse dalla necessità e dalla speranza? Come e perché cercare le briciole, quello che resta della loro permanenza nell’ottocentesca struttura di accoglienza via via trasformata fra il 1892 e il 1924 in struttura di controllo, poi di recinzione e infine dal 1954 chiusa definitivamente e abbandonata al saccheggio per anni prima di diventare un museo?
L’infraordinario è un progetto di lunga data per Perec, collegato alla rivista “Cause commune”. Lo abbiamo concepito tutti e tre insieme, ricorda Jean Duvignaud, suo prof di filosofia al liceo, Perec, Virilio e io. Pensavamo che dopo il ’68 fosse necessario seguire la vita ordinaria, “dopo che Henri Lefevbre aveva fatto del quotidiano un campo di esplorazione sociologico e di riflessione filosofica […] Come parlare di quello che accade tutti i giorni, come descrivere il banale, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infraordinario, l’abituale? […] come uscire dall’anestesia che ci impedisce di vederlo?” 3 . Ecco il senso delle liste, la contrainte delle descrizioni, della lentezza, della precisione, dei paragoni fra le cose. Non cosa sono le cose, ma come sono fatte. Non cos’è la poesia ma come è fatto un sonetto … Occorre spogliarsi di se stessi per ascoltare, per guardare agli altri: per arrivare alla prossimità con le persone e le cose del mondo reale bisogna guardarle spogliandosi del proprio stile, “imparare a balbettare”: si pensi al bellissimoProgramma balbettio ristampato nel “Cahier de l’Herne”Perec del 2016 4 . Ma Perec è un vero campione nel tentativo di far parlare il quotidiano della vita che non esiste più, elaborando i minimi residui di memoria, nella descrizione ostinata, piatta, banale, al limite della tiritera infantile, delle briciole di quello che resta delle vite e della memoria di esse.
Credo che non sia possibile diventare uno scrittore senza possedere, dentro di sé, la propria infanzia, felice o infelice che sia stata: un’infanzia nella quale si fondano le sensazioni prime, la freschezza e la meraviglia del mondo, il vaso di Pandora che con la sua infinita memoria nutre la scrittura per tutta la vita. “Perché quella verità che cerco”, scrive Nabokov, “non l’ho conosciuta che nell’infanzia, e quel poco di bene che si trova nei miei libri non ne è che il riflesso” (Mademoiselle O). Ma il libro più bello di Perec, W ou le souvenir d’enfance, inizia con questa frase: “Non ho ricordi d’infanzia”. Frase che, fino a un certo punto della sua esistenza, cioè l’adolescenza e la prima gioventù immerse nell’impegno sociologico e sociale con il progetto della rivista “La Ligne générale”, veniva pronunciata con una sorta di spensieratezza, quasi di sfida, prima che acquistasse il suo vero e drammatico significato al momento della scrittura di W.
In questo vuoto della memoria – l’infanzia! – infatti è inscritta la mancanza, il vuoto del suo destino di figlio della guerra: mancano i genitori (lui morto in guerra, lei a Auschwitz). Manca anche, però, l’educazione ebraica: che non gli viene data nella famiglia adottiva della zia paterna Ela Benenfield, famiglia di ebrei assimilati e dunque più francesi che ebrei. Manca il riconoscimento della sua tribù, la tribù di suo padre e di sua madre finita in gran parte nei campi di sterminio, e che oltre a tutto è una realtà di cultura e tradizioni che lui stesso non possiede, che non è sua e che conosce pochissimo, nemmeno la lingua dei suoi. Manca la base per la costruzione della sua identità, nel suo doppio significato: come senso di sé e come uguaglianza con gli altri. E non solo con gli altri francesi ma anche con gli altri ebrei. Lui, insomma, è sempre “differente”: e nella sua differenza risiede a ben vedere, proprio l’assenza dei ricordi d’infanzia.
Sono temi, la memoria e la differenza, che molti pensatori del Novecento hanno trattato, da Derrida a Jabès. Ma Perec è scrittore, ha sempre saputo e voluto essere scrittore, con una consapevole determinazione mista a un forte senso dell’umorismo: e questo lo ha spinto a sfruttare ogni possibile escamotage per aggirare il problema, e far emergere quel nulla, non ontologico ma esistenziale, quello stato di esilio, di assenza, di non appartenenza, di non presenza che è inscritto nel suo destino e nella sua scrittura. Si tratta di una scissione, una frattura iniziale collegata “intimamente… e molto confusamente al fatto stesso di essere ebreo” 5 . E in un’intervista a Jean Marie Le Sidaner uscita su “l’Arc” nel 1979: “Credo di aver cominciato a sentirmi ebreo quando ho cominciato a raccontare la storia della mia infanzia” 6 .
Invece dunque di lasciarla affondare irresistibilmente in un oblio inconsapevole, Perec sceglie di esprimere la mancanza in modo obliquo, per frammenti, attraverso il gioco (per citare due bei titoli di Philippe Lejeune, La mémoire et l’oblique e La règle du Je). L’oblio si trasforma in un dire obliquo, i pozzi vuoti si esprimono dagli orli dei pozzi come indica il segno grafico di tre puntini racchiusi fra parentesi, «(…)», che si trova al centro di W ou le souvenir d’enfance. “Questa nebbia insensata dove si agitano ombre, come potrò diradarla?” si chiede in esergo l’epigrafe di Queneau.
Tutto quello che ho scritto, dice Perec, è sotto il segno dell’autobiografia, o meglio della ricerca di sé attraverso tracce, residui, e ricordi comuni con gli altri che hanno vissuto le loro storie individuali dentro la stessa Storia, l’Histoire con la sua grande Hache. Acca, o Ascia (come diceva anche Amelia Rosselli).
In W i pochissimi ricordi, vecchie foto e atti ufficiali, misere testimonianze della propria storia infantile minuziosamente guardate e descritte, vengono messe in parallelo con lo svolgimento di un suo progetto infantile di un romanzo su una società basata sulla competizione ginnica. I suoi libri, sempre diversi e scritti via via sotto differenti regole, o contraintes, le restrizioni che inventavano gli adepti dell’Ouvroire de Littérature Potentielle (OULIPO) di cui fu parte dal 1967, sono invenzioni sempre nuove e non si ripetono mai. Prima fra tutte, la più classica, la restrizione di natura linguistica, il lipogramma – ovvero il fare a meno di una lettera dell’alfabeto. Questo esercizio linguistico ascetico (nel senso di fare a meno di qualcosa) nel caso della Disparition (1968) traspone e distanzia brechtianamente una memoria irricevibile e al tempo stesso necessaria, trasformando l’assenza in una formicolante presenza, evocandola insomma senza mai dirla. Si tratta di un documento del 1947: un Acte de disparition de Perec née Szulewicz Cyrla, madre del piccolo Georges, deportata nel febbraio 1943 “en direction d’Auschwitz (Pologne)”. Documento che solo nel 1958 si trasforma in un Atto di morte ufficiale nel 1943 a Drancy7 . A La disparition, testo molto precoce all’interno dei romanzi sulla Shoah secondo lo storico-scrittore-sociologo Ivan Jablonka 8 seguirà, ironico, il libro Les revenentes, dove non si possono usare altre vocali che le “e” mute…
Con vero interesse si leggono ora le intelligenti pagine di Burgelin nell’ Album Perec, che mette in rilievo il libro su Ellis Island, pubblicandone molte foto pur nella dimensione esigua della Pléiade, e lo segnala fra i suoi testi più significativi nella ricerca di se stesso da parte di Perec, dove l’enumerazione dei poveri resti rimasti sull’isola si trasformano in un abbozzo di prosa poetica ritmata.
2. Ellis Island come è noto è una breve striscia di sabbia alla foce dell’Hudson a un passo da Manhattan, detta isola delle lacrime “in tutte le lingue d’Europa”: vedi, p. 23 di Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir – a fronte di una vecchia foto in bianco e nero di gente ammassata in poveri scialli con l’indicazione manoscritta da Perec “À bord du Westerland (1890?)” – la lista in verticale di tale denominazione nelle varie lingue: tränen insel - wispa łez - island of tears - isola delle lagrime -το νισσι τον’ ζακριον – ОСТОВ ϹϺЁЗ – … È l’isola che apriva o chiudeva per sempre ai migranti europei la strada per la Terra promessa. Dopo un periodo di assoluta libertà, il Centro di accoglienza di Ellis Island entrò in funzione nel 1892: da allora al 1924 transitarono dall’isola 16 milioni di proletari da tutta l’ Europa, cioè fra 5.000 e 10.000 al giorno.
Il libro è diviso in cinque parti (L’isola delle lacrime;Descrizione di un cammino; Album; Sopralluoghi; Memorie), più all’inizio un primo piano su due pagine di Perec e Bober con aria perplessa nella baia di New York nel 1979 con sopra due lunghe frasi manoscritte da Perec che si interrogano sul senso dell’operazione, e alla fine una foto in bianco e nero con la troupe che posiziona le fotografie da usare nelle riprese del film. Le foto sono per la maggior parte quelle del grande Lewis Hine, mescolate ad altre scattate durante le riprese e a cartoline d’epoca.
Una speranza straordinaria e unica scuote l’Europa a partire dalla prima metà dell’Ottocento; così inizia il testo di Perec, a fronte dell’ingrandimento fotografico a tutta pagina di una cartolina dipinta dai bordi smangiati, con la Statua della Libertà che emana il suo fascio di luce dalla torcia, stagliandosi contro un cielo corrusco dove spunta la luna fra le nubi: “… per i contadini irlandesi i cui raccolti erano stati devastati, per i liberali tedeschi braccati dal 1848, per i nazionalisti polacchi schiacciati nel 1830, per gli armeni, per i greci, per i turchi, per tutti gli ebrei russi e austroungarici, per gli italiani del sud che morivano a centinaia di migliaia di colera di miseria, l’America divenne il simbolo della nuova vita, dell’occasione finalmente arrivata, e a decine di milioni, a famiglie intere, a interi paesi da Amburgo o da Brema, da le Havre, da Napoli o da Liverpool, gli immigranti s’imbarcarono per questo viaggio senza ritorno” 9 .
Cosa significhi essere migrante, disse Perec a proposito del loro film (in Description d’un projet) 10 , lo indicano bene queste parole di Kafka in America: “La statua della Libertà, che osservava da un po’, gli apparve in un soprassalto di luce. Il braccio che brandiva la spada pareva si fosse levato in quel momento, e l’aria libera soffiava intorno a quel grande corpo”. Essere migrante è per l’appunto “vedere una spada là dove lo scultore ha creduto in perfetta buona fede, di mettere una lampada, e non avere del tutto torto”. Nonostante i versetti di Emma Lazarus incisi nello zoccolo della celebre statua infatti ( Vengano a me quelli che sono stanchi, quelli che sono poveri, / Le vostre folle ammassate assetate d’aria pura, / I miserabili rifiuti delle vostre terre sovrappopolate … ), la Porta d’Oro ben presto non fu più tale. Nelle prime pagine si racconta questa specie di fabbrica, che trasforma gli emigranti in immigrati, con una metamorfosi rapida ed efficace, come in una macelleria di Chicago in un film di Charlot: “a un capo della catena un Irlandese, un Ebreo ucraino o un Italiano pugliese, all’altro capo – previa ispezione degli occhi, ispezione delle tasche, vaccinazione, disinfezione – esce un Americano”. Ma se allora veniva rifiutato il 2 o 3%, (che fa pur sempre duecentocinquantamila persone!, nota Perec) per malattie o handicap con un segno sulle spalle (una croce bianca significa respinto, tremila suicidi), ben presto in nome dell’igiene e della razionalità le condizioni per l’ammissione divennero sempre più gravose. La guerra prima, il Literacy act poi, infine le quote impedirono sempre più l’ingresso ai “miserabili rifiuti” dell’Europa, per dirla con Emma Lazarus. La Porta d’oro si richiudeva: finché nel 1924 le formalità per l’immigrazione furono affidate ai consolati americani in Europa. Ellis Island diventa un Centro di Detenzione per gli irregolari, e dopo la seconda guerra, rivelando la sua “implicita vocazione”, è infine una prigione per individui sospetti di attività antiamericane. Chiusa e abbandonata al saccheggio nel 1954, oggi è un Museo. Perec e Bober la visitano nel 1978 e girano il film l’anno seguente.
Fin da queste poche pagine del primo capitolo la vitalità del libro sta nel movimento fra testo e foto, nel loro muto dialogo con l’elenco del questionario, ogni domanda scritta in verticale come in poesia. I passeggeri di prima e seconda classe passano subito, gli altri devono avere soldi, essere sani, e poi saper leggere e conoscere qualcuno. Attenderanno il verdetto sull’isola, il loro cammino non è finito anche se dopo la traversata dell’Atlantico l’America sembra a portata di mano.
Nel capitolo seguente, Descrizione di un cammino, il movimento raddoppia, si fa anche movimento temporale fra il momento storico e quello attuale. I dati già letti ritornano nello spazio intermittente del libro, fra testo e fotografie, le cifre si ripropongono spezzettate in frammenti, spazio e testo vengono frattalizzati. La descrizione delle foto di ciò che resta del luogo e dei dati è come una cinepresa che si muove lentamente per cogliere l’infraordinario: cinque milioni d’emigranti dall’Italia, quattro milioni d’emigranti dall’Irlanda, e così via fino a 16 milioni, in una sorta di litania poetica che avvicina il quadro, e fa sì che cominciamo davvero a guardare con tutti i nostri occhi le foto di Lewis Hine con sopra, manoscritti da Perec, i nomi dei battelli. E poi la lista dei nomi delle compagnie di navigazione di tutta Europa, e poi la lista dei nomi dei battelli a vapore, e la lista dei porti di tutta Europa da cui partivano… non conosciamo forse il sonetto del Petrarca fatto di nomi di fiumi? “Non Tesin, Po, Varo, Adige e Tebro / Eufrate, Tigre, Nilo, Ermo, Indo e Gange, / Tana, Istro, Alfeo, Garona e ’l mar che frange, / Rodano, Ibero, Ren, Sena, Albia, Era, Ebro...”.
Una foto a colori a tutta pagina, la prima a colori, ritrae il luogo come si presenta all’arrivo di Bober e Perec: abbandonato e disastrato, con un cavalletto che sostiene la foto di Hine per le riprese del film, con la famiglia povera, di schiena in controluce, che guarda verso la Statua della Libertà di là dal braccio di mare.
Qui si ripropone la domanda manoscritta all’inizio: oltre a ascoltare e immaginare il luogo, dobbiamo capire anche il motivo del nostro cammino fino a qui. Infatti, si chiedono gli autori, perché proprio noi?, in che cosa questo luogo ci riguarda? “Bisognerà”, concludeva il manoscritto iniziale, “che le immagini che seguono rispondano a queste due domande e descrivano non solo un luogo unico, ma il cammino che ci ha condotti fin qui”.
Ha inizio la parte centrale. Come descrivere, come raccontare, come ricostituire ciò che fu, come leggere queste tracce? come cogliere ciò che non si vede, come ritrovare ciò che era piatto, banale, quotidiano, ciò che accadeva ogni giorno? Grandi foto del Luogo come appare ai due amici, descrizione manoscritta, racconto delle visite per corridoi e sale e gabinetti e cucine cercando di immaginare come era allora, come facevano tutte quelle persone a nutrirsi, lavarsi, dormire, vestirsi… Il gioco fra testi e foto, fra liste e oggetti mostrati nelle grandi fotografie a colori, si fa serrato, ritorna il racconto sempre più dettagliato dei rifiutati, con la lettera di gesso dell’alfabeto sulla schiena: tubercolosi, occhi, viso, cuore, ernia, tracoma… Il bisnonno di Bober, la cui foto è bellissima, fu respinto perché aveva preso il tracoma nel viaggio. E Bober, per questo motivo, non è un americano.
Anche Perec avrebbe potuto essere un americano, se i genitori fossero partiti prima, o i nonni: questa dunque, in mezzo alla sua gente, in mezzo a tutta la gente, questa è anche la sua storia, un possibile futuro del suo passato. Raramente un libro esprime in maniera totale e riflessiva al tempo stesso un’apertura così profonda e fraterna per l’Altro, riconoscendo in lui se stesso e la propria storia: in sedici milioni di storie individuali dei migranti europei passati per Ellis Island fra il 1896 e il 1924. Perché “Ellis Island non è un luogo riservato agli ebrei / appartiene a tutti coloro che dall’intolleranza e dalla miseria / sono stati cacciati via / e ancora vengono cacciati / via dalla terra dove sono cresciuti” (p. 63).
È nel dialogo tra foto e testo, e perfino “nella necessità di girare la pagina”, che Perec, appassionato percorritore di Luoghi nello scorrere implacabile del tempo, riesce a far emergere dall’oblio il luogo inafferrabile del passare del tempo e della scomparsa del passato 11 , devastato dal saccheggio, anch’esso minutamente descritto. Il luogo vuoto di una memoria virtuale, che è anche la sua, dove furono vissute storie di erranza e di speranza, e dove lo vediamo fotografato in piedi, le mani in tasca, appena un indecifrabile sorriso. Infatti, è stato osservato, qui – contrariamente alla sua abitudine nei libri precedenti – Perec usa spesso l’io, o il noi, con Bober, per questa loro comune autobiografia probabile, che parte da una frattura del suo tempo di bambino, il tempo di un’infanzia che non riesce a ricordare.
Molti dei suoi lavori, tutti lavori di ricerca al limite della sociologia, dell’enciclopedia o del dizionario, sono realizzati in collaborazione con amici: Marcel Bénabou ricorda il suo vero e proprio culto votato all’amicizia, il suo senso dell’accoglienza, le riunioni mensili con gli amici dell’Oulipo e i dibattiti sulle contraintes su oggetti linguistici o piuttosto le contraintes semantiche. La sua caratteristica insomma di scrittore amichevole, cioè fraterno, che aiuta a vincere i complessi di fronte al foglio bianco perché “la scrittura è un gioco che si gioca in due” 12 .
È questo il carattere che si coglie nella terza sezione, Album, con le belle foto di Lewis Hine (e sotto a una foto con l’ispezione agli occhi, una poesia di Avrom Reisen recita: “Uno sconosciuto che ci accoglie / Duro, ci chiede: ‘E la salute?’ / Ci esamina. Il suo occhio / come cani ci ha scrutato. // Studia in profondità / gli occhi e la bocca. A colpo sicuro / Se avesse potuto sondare i nostri cuori / Vi avrebbe visto – la ferita”. Ma anche nella quarta, Sopralluoghi, fra telefonate, stressanti deambulazioni, confusione e incertezza nella grande Mela, fatta di elenchi: Gente che abbiamo visto (nomi), Gente che non abbiamo visto ma che avremmo potuto o dovuto vedere (altri nomi), Luoghi (l’aeroporto Kennedy, appartamenti, biblioteche, la Statua della Libertà, torri gemelle, musei …), Manifestazioni varie, Ristoranti, Caffè, Cibo (tortellini fettuccine …) negozi, acquisti (dentifricio francobolli …).
Infine soprattutto nella quinta sezione, l’ultima, Memorie: con un’Introduzione che spiega perché le interviste, fatte da Perec che non le sa fare e dunque a volte inutilizzabili, riguardano soltanto ebrei e italiani: “Ci siamo limitati a due comunità, gli Italiani e gli Ebrei, perché sono loro che furono più massicciamente coinvolte in Ellis Island, e perché è a loro che, personalmente, ci sentivamo più vicini” (p. 103).
Le interviste e le fotografie sono straordinarie, proprio perché Perec non le sa fare: le sue domande vanno dritte al cuore, fanno ridere, stimolano ricordi inaspettati legati a un dettaglio: sarti, ebanisti, dissidenti politici più volte messi in galera, con le mogli che li correggono, contabili, americani fieri delle libertà conquistata e del passaporto americano, ricamatrici, alta moda, tutti arrivati da bambini o da giovani , alcuni che ancora parlano lo Yiddish (un signora canta una vecchia ninna nanna), una che è contenta di aver potuto visitare lo Schtetl da cui proveniva... Ma per tutti l’Isola delle lacrime è un ricordo amaro; gli italiani ricordano il cibo pessimo e scarso, la chiusura soffocante, il non poter uscire, e poi una volta sbarcati il problema dei soldi (tre dollari la settimana per una sartina a tempo pieno), l’orrore della traversata nella stiva, provenendo da Genova, mangiare per terra, e infine ecco una signora austriaca rifiutata: perché allora, quindicenne e sola, troppo piccola. Finita a Parigi dove ancora però non riesce a farsi naturalizzare ...
Chiudiamo qui questo discorso-invito agli editori a non perdere l’ultimo libro di Perec, che tanto direttamente ci riguarda – anche proprio in quanto italiani –, limitandoci a sottolineare il suo senso profondo e affabile di connivenza con l’altro, il suo senso di partecipazione al presente e insieme alla grande tradizione, ai libri “la cui lettura ha messo in moto e nutrito il mio desiderio di scrivere”: quella sorta di Scrittura da cui proliferano tutte le scritture successive.

1 “Littérature” 129, 2003, pp. 77-106.
2 Cfr. Cécile de Bary, Des récits contestés, “Cahiers de narratologie”, 16, 2009,http://narratologie .revues. org./pdf/942
3 Cit. in Andrea Borsari, Le cause comuni. Una rassegna e tre conversazioni intorno a Georges Perec , “Nuova corrente”, 108, 1991, numero dedicato a Perec, p. 257.
4 Georges Perec, Apprendre à bredouiller. Programme-bredouille, in “L’Herne”, Perec, a cura di Claude Burgelin, Maryline Heck e Christelle Reggiani, Paris, Centre National du Livre, 2016, p. 127.
5 Cfr. M. Bénabou, Perec et la judéité, in “Cahiers Georges Perec”, 1, atti del convegno di Cérisy, luglio 1984, Paris, P.O.L. 1985, p. 92.
6 L’intervista, tradotta da Elio Grazioli, è nel numero di “Riga” dedicato a Perec, a cura di Andrea Borsari, Milano, Marcos y Marcos, 1993.
7 Cfr. Images de Georges Perec, a cura di Jacques Néefs e Hans Hartije, Paris, Seuil 1993. Ora a p. 28 di Claude Bourgelin, Album Perec.
8 Ivan Jablonka lecteur de Georges Perec , intervista di Claude Burgelin, in“L’Herne”, Perec, cit., p. 118.
9 Traduzione di Maria Sebregondi, curatrice del volumetto Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, cit.
10 Col sottotitolo redazionale E comme Emigration nel Catalogue pour des Juifs de maintenant, in “Recherches”, 38, settembre 1979, pp. 51-4. Poi in Georges Perec, Je suis né, Paris, Seuil 1990, pp. 95-103.
11 Cfr. Marie-Pascale Huglo, Mémoires de la disparition: Récits d’Ellis Island, l’album, in “Protée”, XXXII, 2004, 1, p. 7.
12 Cfr. Marcel Bénabou, Un regard amical sur Georges Perec, in “L’Herne” Perec, cit., pp. 186-191.

Fonte: alfabeta2 

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