La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 18 dicembre 2015

The day after (Fed): conto da dieci trilioni per i debitori in dollari

di Maurizio Sgroi
Sicché la Fed, per una volta, non ha deluso gli osservatori, anzi ha fatto esattamente quello che si aspettavano. Ha alzato di 25 punti base i tassi, praticamente a zero dal 2008, e i mercati, per ora festeggiano. I mercati, si sa, amano avere ragione. Salvo poi pentirsene. Anche perché ci sono alcuni fattori che sembrano proprio favorire i ripensamenti. Fra questi una situazione di debito internazionale denominato in dollari che non solo non si è normalizzata, ma anzi si è aggravata.
Gli ultimi dati diffusi dalla Bis, che al tema del credito denominato in dollari ha dedicato un interessante approfondimento nella sua ultima quaterly review, mostrano che la montagna di debito in valuta americana del settore non finanziario è cresciuta ancora da nove trilioni a quasi dieci; 9,8 per la precisione nel secondo trimestre del 2015.
Una buona parte, circa 3,3 trilioni, sono debiti delle economie emergenti, non a caso divenute la principale preoccupazionedegli osservatori internazionali, specie adesso che il calo del petrolio mette a rischio buona parte dei loro incassi fiscali e che la Fed ha avviato il rialzo i tassi. Evento quest’ultimo che, per quanto ampiamente previsto, condurrà questo debito lungo la terra incognita di un dollaro destinato ad apprezzarsi.
Sicché, giocoforza, gli osservatori aguzzano la vista e provano a far due conti. La prima cosa che viene fuori è una tabella molto analitica che riepiloga la situazione di 12 economie emergenti che da sole pesano oltre 2,8 trilioni di debiti in dollari, che sommano sia l’esposizione bancaria che quella derivante da emissioni obbligazionaria. Se considerate che il debito estero complessivo di questo paesi quota circa 3,8 trilioni, potrete dedurne che gran parte dei debiti esteri di queste economie sono denominati in dollari, pur se con grandi differenza fra l’uno e l’altro. Il che non è certo un buon viatico per la solidità finanziaria.
Vale la pena sottolineare che la partita dei debito in valuta si inserisce in quella più ampia del debito totale che queste economie hanno cumulato dall’esplodere della crisi in poi e che, solo per il settore corporate – e sempre per le 12 economie considerate – vale oltre 22 trilioni, la gran parte dei quali, più di 17 trilioni, sono di imprese cinesi.
Tutto ciò pone degli evidenti rischi di sostenibilità, visto che questi debiti dovranno essere serviti, in un contesto internazionale che vede i tassi (e il cambio) americano orientati al rialzo. Che poi è l’esatto opposto della ragione che negli anni ha spinto questi paesi a indebitarsi in dollari: ossia il cambio favorevole e i tassi bassi.
Ad aggravare le cose la circostanza che gli studiosi non sono neanche sicuri che le cifre stimate siano esaustive, visto che per ragioni tecniche le statistiche non tengono conto di alcune partite. Ciò implica la possibilità che il rischio da exit strategy sia persino sottostimato.
Un’altra circostanza utile da osservare è che solo una piccola parte di questa montagna di crediti risiede in banche americane. Tale circostanza si può riscontrare osservando il caso cinese. Dalle statistiche Bis emerge, valga come esempio, che l’esposizione delle banche del Regno Unito nei confronti del paese è praticamente il doppio di quello Usa. Ciò significa che gli Usa, manovrando la loro politica monetaria, svolgono un effetto diretto sul costo del debito degli emergenti e uno indiretto su chi detiene tale credito e che in gran parte si trova fuori casa loro. Quest’effetto indiretto è positivo finché il debitore paga, sennò diventa un problema che però si scarica in gran parte fuori dal paese che l’ha originato.
Un’altra complicazione deriva dalle diverse strategie che i diversi paesi hanno adottato per garantirsi i fondi bancari in dollari di cui hanno bisogno per i loro prestiti. Cina e Russia, spiegano gli studiosi della Bis, si affidano a depositi domestici in dollari per prestare in casa propria, similmente a quanto fanno l’Indonesia e le Filipine. “Si potrebbe dire che queste economie – spiegano – hanno parzialmente dollarizzato le loro economie, col risultato che le statistiche sul debito estero possono sottostimare la loro vulnerabilità alla crescita del tasso sui dollari o del valore del dollaro”. Altri paesi, come la Turchia emettono bond in dollari e raccolgono fondi il dollari da banche estere per finanziare prestiti in dollari a casa propria, Quindi oltre a importare un rischio di cambio e di tassi, si espongono anche a quello di duration, visto che usualmente i prestiti a lungo vengono finanziati con debito a breve.
Altre singolarità si osservano vedendo come si è evoluta l’emissione in bond denominati in dollari a partire dal 2009, cresciuta persino più di quella dei prestiti bancari, visto che dopo la crisi le grandi banche chiusero i rubinetti., e favorita dai rendimenti più favorevoli assicurati dagli emergenti rispetto ai bond delle economie avanzate. Nel 2015 si è osservato un certo rallentamento nelle emissioni, rispetto al passato. Ma sappiamo che uno dei più grandi emittenti di bond in dollari è la brasiliana Petrobras, che com’è noto agisce nel settore delle commodity, e che “ha visto crescere notevolmente il suo debito fra il 2009 e il 2014”. E adesso che le commodity vanno giù questa compagnia, semi-statale, dovrà faticare non poco a far quadrare i conti.
C’è un’altra particolarità. I cinesi, gli indiani, i russi e i sudafricani usano entità sussidiarie off shore per emettere i bond in dollari. Anche in questo caso, perciò, le statistiche sul debito estero possono sottostimare l’impatto di un apprezzamento del cambio o dei tassi sul dollaro. Per la cronaca, la quota maggiore dello stock di questo bond off shore, pari a 243 miliardi di dollari, è stata emessa da affiliati di istituzioi finanziarie non bancarie residenti in Cina.
Così il cerchio si chiude. Tutti paesi, seppure attraverso canali diversi e con tutte le peculiarità dei singoli casi, dovranno vedersela con l’inizio della normalizzazione monetaria americana. Ovviamente ne sono perfettamente consapevoli, e i mercati con loro.
Il problema è che la consapevolezza non salva dalle brutte sorprese.

Fonte: The Walking Debt

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