La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 18 dicembre 2015

Trasformazioni nelle Global Universities

di Loris Narda
Nel numero di aprile del settimanale “The Economist” un’ampia parte è dedicata a un’inchiesta sulle trasformazioni delle fabbriche del sapere vivo, partendo dal modello nordamericano ma dando uno sguardo transcontinentale. La traduzione della domanda che campeggia in copertina suona come “sempre più persone nel mondo vanno all’università, è una cosa utile?”, dove questo aggettivo viene preso sia nel suo senso prettamente economico e legato ad una dinamica generale di valorizzazione di capitale, che in quello più politico di stabilità sociale.
Cominciamo con uno sguardo sui dati delle iscrizioni all’università nel globo, che secondo i dati forniti nell'inchiesta sono aumentate ininterrottamente negli ultimi decenni, passando da una media di popolazione studentesca su quella totale che va dal 14% del 1992 fino al 32% del 2012, e secondo il settimanale nei paesi con reddito pro-capite superiore a 3000 dollari annui la crescita delle iscrizioni sembra non avere limiti “naturali” di crescita, ma secondo l’“Economist” questo riduce il ritorno di investimento in una laurea soprattutto nei paesi ricchi.
Lo scenario globale è frammentato e vede anche differenze significative tra paesi diversi: si va dalla Corea del sud che ha un rapporto studenti/popolazione che supera il 90% e dunque un mercato ormai “saturo”, ad alcuni stati dell’Africa o del Sud America con degli indici di possibilità di crescita di popolazione studentesca ancora enormi, passando per paesi come la Cina che vedranno entro il 2020 il 40% della popolazione giovanile andare all'università, superando così la somma di studenti di Stati Uniti e India assieme.
All’interno di questo scenario due sono i problemi principali che individua l’“Economist”: da un lato il fatto che l’innovazione all’interno delle fabbriche del sapere come i corsi online non siano riusciti a penetrare ai livelli che ci si immaginava qualche anno fa, quindi non garantendo come ci si aspettava un ulteriore declassamento e precarizzazione dell’insegnamento universitari, e dall’altra la mancanza di criteri e griglie di valutazione basati su input e output nell’insegnamento, al contrario di quello che avviene nella ricerca dove vige un sistema quantitativo di supposta oggettiva classificazione.
Nel sistema nordamericano secondo il settimanale questi problemi si incarnano nelle Ivy League, che sono un manipolo di università d’eccellenza con un mix di tasse universitarie esorbitanti e un numero molto piccolo di posti disponibili, che secondo l’“Economist” sono i fattori predominanti che danno un valore al “brand” della laurea in queste università che permette di accedere a posti di lavoro molto remunerati al contrario della svalutazione sempre maggiore dei titoli di tutte le altre università, dunque determinando una futura gerarchizzazione salariale non legata a nessun parametro valutativo che non sia quello di aver frequentato quella istituzione e non un’altra. Tutto questo avviene anche perché tra i parametri che vengono presi in considerazione nello “US news and world report” (la più importante negli USA delle tante classifiche universitarie esistenti tra le oltre 150 presenti a livello globale) c’è il numero di studenti non accettati che incoraggia la selettività di tutti gli atenei e spinge a una competizione tra atenei maggiore rispetto al passato, da quando negli ultimi anni sono diminuiti i fondi pubblici e c’è una maggiore dipendenza dalle rette studentesche.
Le classifiche o stratificazioni tra atenei nel globo sono secondo il settimanale delle “guide di comportamento”, e secondo la classifica con al momento la maggiore considerazione a livello globale, cioè quella di Shanghai, le università americane, britanniche, svizzere e olandesi sono quelle che fanno meglio; ma ad esempio la classifica prodotta in Francia mette le università francesi in testa e lo stesso accade in Cina dove da qualche anno esiste un’agenzia di valutazione autonoma, facendo vedere in controluce quanto queste “agenzie di rating” degli atenei siano legate a interessi di parte (nazionali ma prima di tutto di classe).
All'interno di questo scenario troviamo il sistema universitario europeo più omogeneo rispetto a quello nordamericano (con delle eccezioni significative come le Grand Ecole francesi), valutato come un’omogeneità al ribasso nel Sud Europa e un’omogeneità di buon livello nel Nord Europa, dove iniziative di maggior stratificazione e gerarchizzazione tra atenei non trova ancora molto spazio, come dimostra il fallimento del progetto tedesco denominato “Exzellenziniative”, che prevedeva una distribuzione maggiormente meritocratica tra gli atenei tedeschi e che invece ha trovato una forte resistenza ed è stato accantonato.
In questo scenario globale le Ivy League americane diventano sempre più delle aziende globali di produzione di sapere-merce, ognuna con diverse strategie di allargamento. Esiste la via più classica di aprire delle proprie sedi nel mondo come fa la New York University negli Emirati Arabi Uniti e a Shanghai, o ad esempio si possono fare delle joint venture con capitale pubblico come avviene in Qatar dove otto università straniere insegnano in diversi settori scelti dal governo: la Texas A&M si occupa di ingegneria, la Northwestern di giornalismo e la Georgetown University di studi geopolitici (lo stesso avviene con la Nazarbayev University del Kazakistan e con alcuni atenei nella Corea del Sud). Un altro modello nella costruzione di global university è quello dell’Arabia Saudita o della Cina che per far crescere le proprie università nei ranking internazionali prende decine di professori o ex-rettori dalle Ivy League americane.
Fuori dal territorio nordeuropeo sembra allargarsi il modello statunitense di gerarchizzazione, come il Giappone che ha riservato fondi extra soltanto per tredici research university selezionate o come la Gran Bretagna che dà di più alle università considerate ai vertici rispetto a quelle “mediane” nelle classifiche, ma si aggiunge anche l'Italia dove il governo Renzi con il disegno di legge della “buona università” tenterà una ancora maggior gerarchizzazione nell’allocazione delle (poche) risorse disponibili, spaccando ancora di più fra atenei del centro-nord e atenei del sud.
Una parte dell'inchiesta viene poi dedicata alla situazione delle tasse universitarie, che in California sono triplicate e si prevede un +28% per i prossimi anni, cosa non dissimile dal resto degli Stati Uniti, dove infatti il debito studentesco è il secondo più grande volume di debito dopo quello immobiliare; in una situazione simile ma con livelli differenti sono le università in Australia, Nuova Zelanda, Cile e Sudafrica. L'aumento delle tasse universitarie è stato spesso uno dei principali motivi di esplosioni di lotte studentesche, come è avvenuto in Quebec nel 2012 costringendo alle dimissioni il governo di allora, o in Gran Bretagna nel 2010, quando il governo Cameron decise di triplicare in un sol colpo le tasse universitarie da 3000 a 9000 sterline, e centinaia di migliaia occuparono le strade di Londra assaltando la sede dei Tories e molti altri edifici governativi.
Con la crescita delle tasse, aumenta l’indebitamento a cui bisogna accedere per proseguire gli studi (siano essi con una banca, o come avviene in Italia più spesso con la propria famiglia), che viene percepito come una de-valorizzazione della forza-lavoro in quanto una misura maggiore del proprio futuro reddito andrà nel ripagarlo. Ciò si combina con la dequalificazione dei saperi che ha accompagnato i meccanismi di inclusione differenziale che hanno sostituito quelli classici di esclusione dall'università, che fanno parte del sistema formativo dopo che il ciclo di lotte degli anni sessanta li fece esplodere, disseminando filtri e blocchi tra i vari livelli di graduazione nel mondo della formazione.
E dunque quello che possiamo cogliere è una critica al modello americano come emblema di un modello fondato sull’eccellenza, visto però come se fosse una stortura specifica di un modello di formazione in cui l'unico criterio di futura gerarchia salariale è l’aver frequentato un’università oppure un’altra, non capendo che invece è un problema generale dell’economia della conoscenza, cioè la creazione di scarsità (di futuri posti di lavoro ben pagati) laddove vige l’abbondanza (di saperi,competenze e capacità). Di fondo sembra esserci la paura che un modello di questo tipo, dove l’arbitrarietà della gerarchizzazione sociale diventa sempre più evidente, non abbia le gambe lunghe sul piano della “stabilità” sociale, con un umore di fondo che si coglie come molto preoccupato di questa crescita tendenzialmente senza limiti di laureati che fa perdere all’università quella funzione di produzione di soggettività disposte ad accettare differenze di reddito senza alcun fondamento sottostante, nemmeno meritocratico.
E allora forse il problema è provare a trasformare questa inquietudine che il nemico di classe prova sull’università in uno dei luoghi di ricomposizione con altri segmenti della composizione di classe contemporanea, provando a rovesciare a nostro favore la perdita tendenziale di efficacia nella gerarchizzazione della forza-lavoro in un processo che potenzialmente sia in grado di far saltare le fondamenta di un sistema sociale che perde sempre più qualunque funzione di “progresso” per la gran parte dell’umanità. Per fare questo ci saranno preziose le sedimentazioni lasciate dai vari cicli di movimenti del mondo della formazione dell’ultimo decennio; nonostante la calma piatta degli ultimi anni, sappiamo bene che nel futuro potremo dire “ben scavato vecchia talpa”, lasciandoci in fasi come questa la capacità di fare inchiesta e conricerca per iniziare fin da subito a “costruire quello che non ci aspettiamo”.

Fonte: commonware.org

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