La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 27 febbraio 2016

Edward Palmer Thompson e la guerra globale

di Vince B
«Compagni, abbiamo bisogno di un’analisi teorica e di classe stringente dell’attuale crisi militare. Certo. Ma strutturare un’analisi in maniera concatenata e razionale può voler dire, allo stesso tempo, imporre una razionalità coerente sull’oggetto di analisi. E se l’oggetto è irrazionale? E se gli eventi non sono voluti da una singola logica storica causale (“l’atteggiamento militare sempre più aggressivo dell’imperialismo mondiale”, ecc.) – una logica che si potrebbe allora analizzare in termini di origini, intenzioni o fini, contraddizioni o congiunture – ma sono semplicemente il prodotto di una confusa inerzia? Questa inerzia ci può essere rovinata addosso come una configurazione di forze frammentate (formazioni politiche e militari, imperativi ideologici, tecnologie delle armi): o piuttosto come due configurazioni antagoniste di questi frammenti interconnesse dai loro contrasti?
Ciò che sopportiamo oggi si è formato storicamente, e in questo senso è soggetto ad analisi razionale: ma esiste ora come massa critica sul punto di scoppiare irrazionalmente. Lo scoppio potrebbe essere innescato da un incidente, da un calcolo sbagliato, dall’implacabile crescita strisciante della tecnologia delle armi, o da un improvviso getto incandescente di passione ideologica. Se sistemiamo tutto questo in una formazione logica troppo pulita saremo impreparati all’irrazionalità dell’evento» (46).
Così presagiva Edward P. Thompson nel 1980, nel pieno del movimento per il disarmo nucleare, e poi ricordava un articolo di Peter Sedwick (figura rilevante della new left britannica) di vent’anni precedente, nella fase più calda della guerra fredda, il senso era lo stesso: le categorie marxiste non bastavano a comprendere l’irrazionalità della corsa agli armamenti e soprattutto non bastavano a capire come muoversi e opporsi al militarismo, come resistere e attaccare.
Gli interventi di Thompson raccolti in Opzione zero (1982, tr. it. 1983) sono tutti scritti di occasione nel pieno di quel movimento che si opponeva allo scontro Usa-Urss, ma ci parlano anche molto dell’oggi, non solo per comprendere la genealogia dell’ordine mondiale e dello scontro odierni ma perché colgono i primi segni di una mobilità e internità della guerra, l’inizio di quadro frammentato di guerra civile globale. Le parole che ricorrono di più nel libro sono pace, libertà, crisi ed Europa.
Colpisce l’attenzione al ruolo dell’Europa, non come potenza terza tra americani e sovietici, né tanto meno in nome di un europeismo astratto, il punto di vista di Thompson è sempre quello di classe, in nome dell’unico internazionalismo possibile, quello antistatuale: «l’unico internazionalismo che valga qualcosa deve essere fondato sull’esperienza e la comunicazione diretta delle moltitudini» (xv). E cogliendo lucidamente l’inizio della fase neoliberista, quando conclusi i trenta gloriosi che avevano permesso alla socialdemocrazia europea di tenere assieme atlantismo e welfare state in una fase di sviluppo e crescita mondiale, non c’è più alcuna possibilità di riproporre e rilanciare quell’opzione: «Questo non è più possibile. Le ragioni sono di per sé evidenti. Alcune sono direttamente economiche: la recessione non lascia più spazio per programmi umanitari… [e] c’è stata una spinta, una ripresa della spinta del capitale a riprodursi senza limiti» (182).
Nell’ultimo intervento del libro legge la guerra delle Malvinas come paradigma delle guerre future: una dittatura (in quel caso quella argentina) che viene fatta armare facilmente e sfugge di mano alle potenze occidentali producendo oltretutto per reazione «atavismo imperiale» (210): «Siamo incappati in qualcosa che oggi si chiama di solito “una buccia di banana”, ma per cui i greci avevano un nome migliore… Il mondo avanzato non può continuare a pompare armi nel Terzo mondo e aspettarsi che resti immutato. Non possiamo essere certi che tutte quelle armi saranno usate solo per ammazzare i loro e tenere a bada i poveri… che tutti i nostri clienti si impegneranno solo in guerre comode, come quelle tra Iran e Iraq, guerre che non giovano a nessuno, salvo il commercio di armi. Ci saranno molte bucce di banana. La guerra delle Falkland è solo un campione di ciò che ci si può aspettare diventi normale» (209).
Rifacendosi all’ecologia spinoziana di Gregory Bateson e alle sue notazioni secondo cui la retorica della dissuasione produceva in realtà assuefazione,dice: «Non è solo che ci stiamo preparando alla guerra; ci stiamo preparando a essere il tipo di società che fa la guerra» (26). Ed è convinto che il settore guida sia diventato quello militare e si vada delineando qualcosa di diverso dall’imperialismo, uno modo di produzione che definisce “sistema di sterminio” che causa crisi permanente. Certo Thompson si concentra fortemente sull’industria militare e la sua autonomizzazione, nella sua battaglia per il disarmo nucleare, ma la definizione di sistema di sterminio nei fatti non si allontana molto da ciò che Deleuze e Guattari definiscono antiproduzione e Mbembe necropolitica, dove in tutti e tre i casi bisogna prestare attenzione ai due lati da cui sono composti questi concetti bifronti: l’uno distruttivo e l’altro produttivo, una macchina che produce crisi, inclusione differenziale ed esclusione per autoalimentarsi.
A questo si accompagna il passaggio alla società del controllo e il formarsi di una polizia globale (79), ma al contempo le possibilità che restano aperte nella crisi permanente: «Col crescere dell’ansietà e dell’insoddisfazione, si può intravedere la possibilità di un movimento realmente internazionalista» (78).
Ispirato dalla campagna del Worcestershire, Thompson scrive con la prosa schietta del migliore socialismo umanista inglese non rinunciando mai all’eleganza dei riferimenti letterari, ma non è affatto un armchair socialist, gira il mondo inseguendo la tempra apolide del rivoluzionario ottocentesco e a partire dall’esperienza diretta lancia i suoi appelli ai cittadini e agli intellettuali, dunque si tratta della tipiche omelie di sinistra alla società civile? Certamente no: il grande storico marxista non chiede agli intellettuali di raccogliere inutili pile di autografi per la pace perpetua, bensì di mettere al servizio del movimento «le loro capacità e opportunità specialistiche» (27), come fatto da Einstein e Oppenheimer contro il nucleare e appreso da Foucault e Deleuze in un celebre dialogo; e intende i cittadini come espressione di quel comune che va protetto dalla violenza, ormai completamente cieca, del capitale – così come sostiene la difesa dei parchi inglesi dalle ingerenze pubbliche e private, una causa che gli sembra tanto simile alle resistenze contro l’accumulazione originaria.
Vengono subito in mente moltissime esperienze in questi anni di crisi globale che presentano elementi convergenti: la costante di spazi condivisi, luoghi comuni, tutt’altro che simbolici, dove le soggettività hanno dato corpo a lotte contro la paura e a progetti di liberazione. È perciò che non c’è nulla di ingenuo nelle parole di Thompson, sono invece una boccata d’aria dalle asfissianti geometrie euclidee del politico, in questi interventi si rivolge alla composizione sociale, di più, invita a produrne una nuova che tenga assieme gli europei dell’Ovest e quelli dell’Est, la pace e la libertà: «Potrebbe esserci, però, una concatenazione dei cittadini, di specie ben diversa, in cui, come parte della distensione dei popoli, il movimento per la pace in Occidente e quello per la libertà in Oriente si riconoscessero reciprocamente come alleati naturali» (203).
Thompson, che aveva partecipato alla campagna d’Italia degli Alleati e ispirato per tutta la vita dalla figura del fratello maggiore morto combattendo al fianco dei partigiani bulgari, ironizzava sui «combattenti da scrivania» (15) e li attaccava frontalmente facendo nomi e cognomi, spesso ridicolizzando i presupposti vuoti del loro odio: «un quadro politico infantile del mondo, derivato, immagino, da una lettura troppo precoce del Signore degli anelli di Tolkien. Lì c’è, e ci sarà sempre, il malvagio regno di Mordor, e dalla nostra parte la felice repubblica di Eriador, abitata da hobbit liberali, salvati di tanto in tanto dalla magia bianca dei vari Gandalf… [ma] questa è una lode eccessiva, perché in effetti… non dicono assolutamente nulla di politica. C’è il presupposto di un quadro manicheo del mondo e il resto è politicamente zero». (11-2) Come Marcuse, altro intellettuale militante avversato e perseguito dall’ottusità accademica, non si era mai tirato indietro dal prendere parola, sostenere e partecipare attivamente a molte battaglie, denunciando apertamente la violenza del potere e dei suoi ideologi, per un motivo molto semplice che il filosofo tedesco spiega in Critica della tolleranza: «La tolleranza è estesa alle politiche, alle condizioni e ai modi di comportamento che non dovrebbero esser tollerati perché impediscono, se non distruggono, le probabilità di creare un’esistenza senza paura e sofferenza» e perché «La tolleranza che ingrandì la portata e il contenuto della libertà fu sempre partigiana – intollerante verso i protagonisti dello status quo repressivo».
La guerra fredda aveva spaccato l’Europa, a Est si reprimeva e a Ovest si usavano le dittature militari nei paesi del Sud per mantenere l’equilibrio, ma Thompson sostiene che bisogna fare un passo avanti, non fermarsi alle cause ma capire cosa è possibile fare: è sicuro che nel momento del pericolo si apre un campo di possibilità che gli ricorda la resistenza comune durante la seconda guerra mondiale. Bisogna però spezzare la «menzogna che ammorba il nostro mondo, per cui chi non è nettamente di un “campo” è “inconsapevolmente” o “oggettivamente” dell’altro» (109), il movimento deve essere non allineato perché «i blocchi militari opposti non possono essere loro a sanare la ferita. Perché, per definizione, operano sui principi della divisione degli uomini» (119).
Per non essere «i vasi di coccio in questa contesa tra cristiani rinati e marxisti congelati che si sviluppa sulle nostre teste» (41) bisogna che il movimento sia immediatamente contro la guerra e la crisi e si allei con i movimenti per la pace e la libertà (all’epoca Charta 77 e Solidarnosc), mantenendo però ciascuno la propria peculiarità: «Sto parlando di un nuovo tipo di politica che non può essere fatta dai politici, per quanto grande sia la loro buona volontà. Deve essere una politica di pace, informata da un nuovo codice di onore internazionalista, condotta dai cittadini» (201).
Quelle di Thompson sembrerebbero parole di senso comune, ma è utile riportarle e ribadirle quando le speranze dei progressisti più o meno radicali si dividono tra l’Unione europea (sic) e la Russia di Putin (nuovo amico della pace e dei popoli): «… deve essere fatto non dagli stati, ma in qualche modocontro gli stati di ambedue le parti. Questo vuol dire che non possiamo lasciare il lavoro agli statisti e ai funzionari degli stati perché lo facciano loro» (27).
L’opzione zero dei governi deve diventare opzione zero di un movimento che rifiuta «la moneta della sicurezza ufficiale» (39) e inventa una moneta comune indivisibilmente di pace e libertà. Oggi la sfida resta aperta, immaginare qualcosa di più dei bitcoin affettivi dei social media: contro la crisi e la guerra, una moneta comune delle sicurezze e delle libertà.
Nelle conclusioni di un discorso a Hyde Park, Thompson auspica parole semplici e fresche: «La mia ultima parola ai giovani qui. Questo è, soprattutto, il vostro lavoro… Siete voi che dovete inventare i lineamenti di un’Europa pacifica… dovete inventare i nuovi simboli e il nuovo logos, i suoni, il teatro vivo della pace, il nuovo vocabolario dell’internazionalismo» (134). 

Fonte: commonware.org

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