La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 19 febbraio 2016

Re-imparare a stare da soli nell’era dei social network

di Alessandra Veglia
Perché i social network hanno così tanto successo? Perché una persona visita minimo una volta al giorno il proprio profilo Facebook, la pagina su Twitter, la home di Tumblr? Noia, lavoro, voglia di informarsi, di vedere se quel ragazzo che tanto ti piace ha pubblicato qualcosa di nuovo, se c’è qualche video divertente, sapere cosa stanno facendo gli altri, dove sono, con chi, far sapere cosa stai facendo, dove, con chi. Farsi notare, farsi apprezzare, ciriticare chi si fa notare, criticare chi non apprezzi, criticare chi passa tutto il tempo sui social. E poi l’autoironia, rendersi conto che si è proprio tristi, a star lì, rimbecilliti davanti ad uno schermo: “Sono proprio un nerd”, “che disadattato”.
Invece sei esattamente come tutti gli altri.
Sei un figlio del tuo tempo. Poco importa che le ore le impieghi a far politica e pubblicare post impegnati o a guardare la pagina di Commenti Memorabili, sei esattamente lì dove la tua generazione deve stare, a visitare mondi da dentro una stanza, a esplorare pianeti dalla scrivania, a vincere la corsa alle presidenziali dal tuo ufficio, a ingaggiare assassini che venerano l’immagine distorta di un dio dalla tua base. 
Ma come ha rilevato i cambiamenti nelle abitudini prodotti dai social network chi di ricerca e statistica si occupa? Globalwebindex (GWI) è tra le più autorevoli società che forniscono dati circa l’utilizzo dei social media. I dati riportati risalgono al primo trimestre del 2015, sulla base di oltre 47.000 interviste a utenti Internet da 37 nazioni.



Dalle statistiche emerge che Facebook registra il maggior numero di utenti (82%), ma quello mensilmente più visitato è Youtube (81% contro 73%). Tra le nuove tendenze, nel 2014 si registra un’impennata nell’utilizzo di Pinterest, Tumblr e Instagram. Dal 2012 al 2014 l’utilizzo dei dispositivi mobili per navigare è aumentato da 1,24 a 1,99 ore giornaliere, il ché ha influenzato la crescita del tempo trascorso sui social rispetto alla navigazione online nel suo complesso.
A proposito di dispostivi mobili… Lo sapevate? Secondo uno studio di Royal Pingdom, in 20 anni si è passati dallo o,4% come indice di diffusione del telefono cellulare nel 1991 al 91,1% nel 2010 su scala mondiale. L’Italia è in realtà tra i paesi con minor numero di dispositivi smart per persona: rispetto a francesi o spagnoli (rispettivamente 81% e 74%), “solo” il 66% degli italiani utilizza uno smartphone/tablet.


La Svezia è in testa con il 150%: vale a dire 1,5 dispositivi per ogni persona, includendo quindi uomini, donne e persino bambini; non sono da meno l’Olanda con il 140% (1.4 per persona) e Regno Unito con il 130% (1.3).
Ancora, stando a Audiweb Trends, “nel primo semestre del 2014 sono 39,7 milioni gli italiani tra gli 11 ed i 74 anni che possono accedere a internet da location fisse (da casa, ufficio o da un luogo di studio) o da mobile, che equivale all’83,9% della popolazione nella fascia d’età considerata.”
Questi dati, già di per sé impressionanti, non riescono comunque a far emergere la rivoluzione sociale che vi è al di sotto. In un articolo del maggio 2014 pubblicato su Il Fatto Quotidiano Mario de Maglie, psicologo e psicoterapeuta, riflette a proposito del rapporto tra Facebook e la solitudine: “un mezzo acquista significato anche grazie all’utilizzo che se ne fa, ma non so se c’è vero equilibrio tra quel che guadagniamo e quel che perdiamo”, “i social network […], ci tolgono il sano senso del pudore, la consapevolezza che certi momenti sono solo nostri e tali dovrebbero rimanere, il fascino del non detto, la possibilità di partecipare attivamente, invece di subire la partecipazione”; si rifà anche a Schopenhauer, che dall’alto del suo notorio pessimismo osservò che “ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi”.
Roberto Cotroneo (scrittore, giornalista per “il Corriere della Sera”, poeta, critico) arriva a parlare della “solitudine dei social network”: essi sarebbero la causa stessa della solitudine, che è automaticamente considerata come qualcosa di negativo. Invece, come egli ricorda, “Il silenzio è calore, è partecipazione, è un esserci senza il verbo, senza il linguaggio, senza l’argomentare.”
Quindici anni fa restare a casa da soli significava leggere, magari fare una telefonata, guardare la televisione, diciamo pure mandare le mail di lavoro. Adesso significa “messaggiare” – che brutto verbo, eppure è entrare nel parlato, nonostante i rantoli di sofferenza dell’Accademia della Crusca – ininterrottamente, navigare sul web per dedicarsi dallo sport, agli incontri al buio, agli articoli per il giornale dell’università. In qualsiasi caso, si è aggiornati fino all’ultima ora, minuto, secondo, una foglia non fa in tempo a toccare terra che sono già uscite altre quattro canzoni, due film, otto interviste.
E poi, un giorno, il finimondo: un albero cade su un’antenna (nessun danno né ferito, e l’albero era già malaticcio, nessun dramma) e si interrompe la connessione, abiti in una zona poco coperta quindi non hai rete, o magari ti è appena scaduta la promozione all-inclusive. Dopo cinque minuti in cui il tuo linguaggio sfiora l’indecenza, alla rabbia subentra qualcos’altro. Cominci a sentirti solo, il silenzio spacca i timpani, vorresti chiamare l’amico e commentare su quanto schifo fa la manutenzione delle strade in Italia, ma anche il fisso è fuori uso – quando la sfortuna finisce per “ga”.
Inizi a pensare, prima a cose non troppo serie, poi… non è male starsene così, avere un po’ di tempo per se stessi, osservare lo stadio da fuori. Perché sei lì? Quando potresti stare sdraiato sotto il sole. Quando potresti correre sotto la pioggia. Ora sei in aperta campagna, hai un prato con l’erba selvatica e un po’ troppo alta tutto intorno a te, c’è anche del fango ma non importa, il vento porta il profumo della stagione e ascolti la natura e il tuo corpo; la sciarpa ci sta proprio, e quel cespuglio lì ricorda una donna che porge un saluto. Cammini e ti accorgi che da quella collina – non l’avevo detto? il prato è in cima a un lieve pendio – c’è una vista da togliere il respiro. Quindi un lampo, una di quelle cose molto James Joyce o Virginia Woolf, e ti ricordi all’improvviso che lì ci sei già stato da bambino e correvi per far volare l’aquilone, il nonno che sorrideva guardandoti. Acceleri, poi corri. Ti basta poco per attraversare tutto il prato perché ora le tue gambe sono lunghe, l’aquilone non c’è più e forse nemmeno il nonno, ma il tuo cuore finalmente si solleva ed è leggero. Respiri.
Sei solo e ciò ti piace. Sei solo e non è solitudine quella che provi. Inebriato e svuotato, sei la persona che nessuno conosce. Sei te stesso. 
Hai dimenticato il cellulare. Nessuno sa che sei lì. Torni a casa e non aggiorni il tuo stato, non hai nemmeno una foto di quel momento così bello e rifletti che, se così fosse stato, sarebbe stato tutto meno vero. Ti saresti preoccupato del numero di “like”, di quale dei duecento selfie-con-cespuglio pubblicare, avresti rivisto quel post dopo anni per ricordarti di quella volta che eri in un prato. Invece non pensi a niente, non dici a nessuno dove sei stato, o solo a quella persona un po’ speciale, lei sì perché può capire. E con te porterai per sempre, nel cuore, la sensazione di quella volta che hai volato.

Fonte: sconfinare.net

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