La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 31 marzo 2016

L'inutile fatica di essere se stessi nel capitalismo contemporaneo

di Giovanni Di Benedetto 
Nell’Ottobre del 2014 si svolse ai Cantieri Culturali alla Zisa, a Palermo, un seminario di studi che provava a mettere a fuoco la connessione sempre più stringente fra sofferenza psichica, disagio sociale e totalitarismo dell’universale capitalistico. Da quell’incontro seminale, col quale anche la redazione di Palermograd ha provato a confrontarsi (si vedano gli interventi di Calogero Lo Piccolo qui e Salvatore Cavaleri qui), è nato adesso un volume che raccoglie i contributi, rielaborati, dei relatori di quell’incontro. L’inutile fatica: soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, è questo il titolo del libro pubblicato da Mimesis Edizioni (2016) e curato da Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo, un testo che prova a impiantare, riuscendoci brillantemente, un dialogo transdisciplinare tra attivisti sociali, psicoterapeuti, filosofi e psicologi.
Il punto di partenza della riflessione è dato dalla constatazione di quanto sia stata devastante l’incidenza della crisi economica, e dei dispositivi di potere del capitalismo che l’ha generata, sulla precarizzazione esistenziale delle soggettività. La nostra è l’epoca dell’ideologia competitiva e concorrenziale del mercato. Da qui scaturiscono vissuti esistenziali catturati in una rovinosa spirale depressiva imposta dalla pretesa sempre più saturante all’autosufficienza. Nella società della competizione narcisistica il desiderio, trasfigurato in incessante istanza di godimento, viene reificato e oggettivato. Tuttavia, un modello quale quello del capitalismo, che impone la reificazione del desiderio in godimento, rendendolo incompatibile con il legame sociale, tracima in un mondo senza limite e senza futuro. Il luogo della funzione del limite è stato chiamato da Jacques Lacan nome del padre. È il nome del padre che funziona come principio regolatore, che permette l’accesso al desiderio, al campo del fallico, ossia ad un godimento possibile e temperato. Al contrario, il godimento che si sostanzia nell’eccesso (Lacan parla dell’evaporazione del padre, ossia della dissoluzione di ogni limite identificato nella figura paterna), determina l’impossibilità di fare spazio al desiderio. La logica di funzionamento dell’ipermodernità disdegna soggetti desideranti centrati all’interno di un mondo che produce contenimento, il suo programmatico imperativo a fare a meno di limiti produce estinzione del desiderio e apatia in soggetti fragili e consumati.
Secondo Franco Berardi (Bifo) deriva da questo approccio la riflessione, come lui la definisce, neopaternalista, che insiste sulla necessità di ripristinare un limite al desiderio. Se è vero che la contemporaneità vede nel diritto al godimento individuale qualcosa che non può essere messo più in discussione, la caduta dell’orizzonte del grande Altro si presenta come quell’evento che abbandona il soggetto ad un campo di forze che non sono più in grado di rappresentare dei riferimenti che possano avere la funzione del limite. Come se non ci fossero più le condizioni per interiorizzare, assicurando benessere mentale e sanità relazionale, il differimento del godimento. Tuttavia, come sostiene Calogero Lo Piccolo, il limite al desiderio non può essere proiettato su una norma esterna e sociale ma ”resta pur sempre una funzione regolativa inconscia”. Che si tratti, nel caso di posizioni come quella di Massimo Recalcati, di un fraintendimento pericoloso, è dimostrato dal fatto che una tale impostazione del problema potrebbe facilitare la recrudescenza di derive autoritarie e apertamente reazionarie. Ecco allora che occorre riflettere sulla natura del funzionamento psichico per evitare il fardello di possibili svolte liberticide.
Il testo acquisisce ulteriore spessore politico a partire da uno spunto offerto dal lacerante romanzo di Luca Rastello intitolato I Buoni. Il romanzo di Rastello, scrittore recentemente scomparso di straordinaria crudezza e ingegnosità, è un libro sulla società della competizione narcisistica e sulle patologie del desiderio che si articolano secondo modalità distruttive implicanti relazioni di esteriorità, di consumo e di asservimento dell’altro. Sembrerà paradossale ma il libro di Rastello racconta una verità scomoda e tuttavia sotto gli occhi di tutti: non c’è sfera più intossicata dalla retorica dell’altro di quella del mondo dell’impresa sociale, del volontariato e del terzo settore. Come se, nella sfera del cosiddetto sociale, attraverso la continua evocazione dell’altro si volesse esorcizzare la sua reale assenza che, nel quotidiano, si manifesta come un deficit, oramai conclamato, di relazioni e di legami collettivi. Il punto è che oggi, come scrive Salvatore Cavaleri, l’impresa sociale ha sempre più il gusto dell’impresa e sempre meno un’attitudine sociale.
Di fronte alla torsione di senso prodottasi proprio nell’ambito di una sfera quale quella del sociale, assediata e soffocata sempre di più da logiche mercatistiche e privatistiche, la dimensione politica dell’intervento pubblico si riduce ad una residualità insignificante. Viviamo, scrive Cavaleri, il feticismo del sociale oramai ridotto a sfera asettica, neutra e separata, in cui il lavoratore, prendendo in carico i bisogni dell’altro, dimentica di essere un attore sociale portatore di interessi propri. Al venir meno, nel campo della salute e dell’istruzione, della previdenza e della maternità, di una grammatica dei diritti che, a partire dal secondo dopoguerra, era stata garantita dal Welfare State, si sostituisce l’imperativo del fare da sé, la legge della giungla che decreta, in una sorta di rinnovata riesumazione del darwinismo sociale di fine ‘800, il successo del più forte, di chi è capace di reperire da sé le fonti del proprio sostentamento e pronto a diventare imprenditore di se stesso.
D’altra parte la modernità si è data e si è logorata proprio attraverso lo sviluppo di soggettività autonome e qualificate. Si veda cosa scrive Marx in Per la critica dell’economia politica, a proposito dell’individuo nella società borghese, ossia di quell’individuo che può essere autonomo e isolato proprio nell’epoca dei rapporti sociali finora più sviluppati. Ma il problema è che ogni individuo, pur nella sua autonomia, è sempre segnato dal bisogno e dalla finitudine. E non basta avere oggetti e possedere merci per raggiungere il fine dell’autorealizzazione. Non a caso nella catalogazione sperimentale delle patologie del desiderio la clinica non fa più registrare un rimosso del desiderio ma un’apatia del desiderio entro i confini illimitati di una cultura che non fa che promuovere l’eccesso della trappola narcisistica. È ciò che Ehremberg ha definito la fatica di essere se stessi, quel circolo vizioso, che ha fatto presa su una società fondata sulla prestazione individuale, tra l’ingiunzione all’efficienza imposta dalle attese sociali e l’impossibilità di reggere il peso di tali aspettative.
Ma allora, come rispondere a questa condizione di paralisi esistenziale, cosa è possibile fare? Alla depressione quale affetto principale della ipermodernità si può replicare, suggeriscono gli autori dei vari saggi del volume, abbandonando quella prospettiva che, centrata sull’idea di un individuo che si sforza di essere se stesso, presenta i sintomi del disagio come se fossero mere disfunzionalità, non interrogando il soggetto e, di conseguenza, facendo così astrazione dell’inconscio. Cavaleri, per esempio, rammenta ai lettori, direi spinozianamente, che “non esiste libertà fuori dal conflitto, proprio perché la pacificazione non è una forma di guarigione. Non esiste libertà a prescindere dalla consapevolezza delle connessioni di cui si è parte, delle contraddizioni di cui si è portatori e delle dispute di cui si è partecipi.”
Da questa premessa deriva inevitabilmente la necessità di fare i conti con le proprie retoriche, esautorando quello spazio postideologico che, fintamente neutro, pretende di metter al bando la soggettività e quindi il conflitto. Non ci sono e mai ci saranno luoghi terzi e neutri. Ecco perché occorre sottrarsi all’imperativo che sommerge la nostra epoca e che costringe l’individuo a essere liberamente se stesso per prediligere la fatica, altrettanto onerosa, di partire da sé. “Nella distanza tra l’essere se stessi ed il partire da sé si gioca ben più di un artificio linguistico: è in ballo il modo di concepire il soggetto, le sue patologie e le conflittualità di cui è portatore. Partire da sé, in termini tanto terapeutici quanto politici, vuol dire acquisire consapevolezza del proprio posizionamento, del proprio essere situati. Parliamo di un sé non rinchiuso dentro la gabbia ideologica dell’identità, non l’individuo metafisico dell’egoismo capitalistico, ma di una soggettività fatta di relazioni e di contaminazioni, di conflitti. Partire da sé, dunque, vuol dire capire cosa ci lega agli altri, cosa abbiamo in comune”. 
L’inutile fatica è un libro che, come si è cercato di dimostrare, ha tanti pregi. Tra i più importanti mi pare possa essere annoverato quello di invitare a prendere in considerazione l’esigenza di aprire una nuova stagione di critica, proprio oggi in cui viviamo un tempo in cui stabilire clinicamente ciò che pertiene alla dimensione psicologica e ciò che pertiene alla dimensione esistenziale è meno chiaro che mai. Narciso si innamora della propria immagine e il suo dramma è che questa immagine è irraggiungibile. In un mondo di soggettività che si presumono libere e tutte prese dalla trappola narcisistica, l’invito a recuperare il senso del limite e a riconsiderare la difficoltà estrema dell’impegno insieme all’altro, rappresenta il più grande e oneroso impegno politico che ciascuno di noi possa intestarsi.

Fonte: Palermograd 

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