La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 24 luglio 2016

Campagna referendaria e opposizione alla controriforma costituzionale

di Mauro Volpi
Si è conclusa in questi giorni la raccolta di firme portata avanti, su iniziativa del Coordinamento per la democrazia costituzionale, dal Comitato per l’abrogazione del premio di maggioranza e dei capilista bloccati previsti nella nuova legge elettorale (Italicum) e da quello per il No alla controriforma costituzionale. Il totale delle firme raccolte per i due referendum abrogativi è inferiore alle 500.000 necessarie, risultando rispettivamente di 418.239 per il premio di maggioranza e di 422.555 per i capilista bloccati.
Le firme per il referendum costituzionale sono state 313.000, mentre il Comitato per il Si costituito dal PD dichiara di avere raggiunto tale soglia, pare grazie all’aiuto decisivo della Coldiretti, ma è lecito nutrire qualche dubbio, che sarà comunque chiarito dalla Corte di Cassazione, visto che di banchetti per il Si sul territorio se ne sono visti pochi e la struttura del partito, per quanto impegnatissima nelle ultime settimane, è molto ridimensionata rispetto al passato. Il risultato della raccolta delle firme sui referendum contrari alle “deforme” è diseguale da regione a regione. In Umbria è positivo: 10.191 sono le firme certificate per i referendum sui capilista, di cui 6.834 nella provincia di Perugia e 3.376 in quella di Terni; 6.856 sono le firme certificate per il referendum costituzionale (5.344 a Perugia, 1.242 a Terni).
Al mancato raggiungimento del quorum hanno contribuito vari fattori. Innanzitutto la contemporaneità di molte richieste referendarie: oltre ai tre istituzionali, tre della CGIL in materia di lavoro, quattro sulla scuola, due in materia ambientale, uno in Umbria per l’abrogazione della legge elettorale regionale, il cd. Umbricellum. Non ha funzionato al meglio la sinergia necessaria nella raccolta delle firme. Allo stato attuale gli unici referendum certi sui quali sono state raccolte più di un milione di firme, sono quelli della CGIL, ma anche questi corrono il rischio di essere indeboliti politicamente dal mancato raggiungimento del quorum per i referendum istituzionali e sociali. Per quelli sulla scuola è positivo il superamento delle 500.000 firme ma con un margine ristretto che non garantisce con certezza il superamento del controllo della Corte di Cassazione. Un’altra ragione importante consiste nella vera e propria congiura del silenzio operata da quasi tutta la stampa, nazionale e locale, e da gran parte delle televisioni, sulla campagna referendaria di opposizione, una congiura che ha un vago sentore di “regime” e che ci dice molto su quale sarebbe l’esito di una vittoria del Si al referendum costituzionale che attribuisse le chiavi del potere ad una maggioranza monopartitica creata artificialmente dalla legge elettorale e al suo leader (o meglio “capo”, come lo definisce l’Italicum), specie se malato di bulimia del potere come l’attuale Presidente del Consiglio. Infine vi sono stati vari ostacoli tecnici alla autenticazione e alla certificazione delle firme, come il mancato intervento del Governo per consentire l’uso della PEC per avere le certificazioni dei Comuni, a cui si sono aggiunti ostracismi politici, come quello del gruppo consiliare del PD nel Comune di Perugia, che nonostante le ripetute sollecitazioni, si è guardato bene dal rispondere alla richiesta di mettere a disposizione i certificatori, i quali sono chiamati esclusivamente a garantire l’esercizio di un diritto costituzionale. Niente male per un partito che si definisce “democratico”!
Il mancato raggiungimento delle firme necessarie non deve, tuttavia, spingere a considerare sbagliato il ricorso ai referendum e a sottovalutare gli effetti positivi che la campagna referendaria ha avuto. In primo luogo è stata un momento di estesa controinformazione che ha convinto centinaia di migliaia di cittadini e coinvolto tante persone, anche di diverso orientamento politico-cuturale, che hanno prestato un impegno veramente eccezionale, dimostrando che può ricrearsi uno spazio per una bella politica, fondata non sugli interessi e sulle ambizioni personali, ma sulla tutela dei beni comuni e sulle esigenze della collettività. In secondo luogo ha dato vita ad una estesa rete di Comitati territoriali, quattrocento in tutta Italia (una quindicina in Umbria, ma si stanno ormai estendendo a tutte le più importanti realtà locali) e ad un numero notevolissimo di iniziative, che hanno visto quasi sempre un’alta e convinta partecipazione. Tra queste merita di essere segnalata la manifestazione regionale, organizzata dall’ANPI il 22 giugno a Perugia con il Presidente nazionale Carlo Smuraglia, che ha riempito il Teatro del Pavone, nel quale il 6 maggio la Ministra Boschi aveva pronunciato le sue vergognose frasi di equiparazione di chi vota No ai fascisti di Casa Pound. Ancora: nella campagna i Comitati referendari hanno avuto il sostegno importante, a volte decisivo, di associazioni (la stessa ANPI, in varie regioni l’ARCI, Libertà e Giustizia, esponenti di Libera e di Emergency ecc.) e di organizzazioni politiche (Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, Area Socialista e Movimento 5 Stelle). Infine sono stati prodotti vari materiali divulgativi delle ragioni del No, che sono stati ripresi e diffusi anche da altri Comitati (e in Umbria anche dalla Lega Nord nella iniziativa del 9 luglio con la partecipazione di Calderoli). Occorre, poi, ricordare i ricorsi contro l’Italicum sollevati in quasi tutti i distretti giudiziari e che hanno convinto per ora due Tribunali (di Messina e di Torino) a non ritenere infondate alcune delle questioni di illegittimità costituzionale sostenute dai proponenti, sulle quali dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale nella udienza fissata per il 4 ottobre prossimo.
Ma l’aspetto più importante, al quale la campagna referendaria ha dato il suo contributo, è rappresentato dal cambiamento del contesto politico e anche delle prospettive del referendum costituzionale, che, vale la pena ripeterlo, si farà comunque e per la cui validità non è previsto alcun quorum di partecipazione. Il risultato delle elezioni amministrative ha dimostrato la crisi di una politica, quella dell’attuale gruppo dirigente del PD, sempre più lontana dalle esigenze di settori largamente maggioritari della società, che continuano a vivere sulla propria pelle gli effetti nefasti della crisi economica e delle politiche di austerità e di compressione dei diritti sociali. In particolare la narrazione renziana su uscita dalla crisi, ripresa economica, aumento della occupazione e dei consumi, riduzione delle tasse, si scontra ogni giorno con la realtà della recessione e dell’impoverimento di sempre più ampi settori sociali, che subiscono il sacrificio di diritti fondamentali, ivi compreso quello alla salute, come dimostra il dato terrificante secondo il quale l’anno scorso 11 milioni di cittadini hanno dovuto rinunciare alle cure mediche. Il tentativo di addebitare alla Costituzione i guasti provocati da governi incapaci e regressivi, che è stato l’alibi preferito soprattutto nell’ultimo ventennio da una cospicua parte della classe politica, mostra sempre più la corda, anche perché le “riforme” costituzionali fatte, come quella dell’intero titolo quinto sui rapporti Stato-Regioni nel 1999/2001 e quella del 2012 sul pareggio di bilancio, hanno prodotto brutti pasticci e confusione o sono state una palla al piede per ogni seria politica di sviluppo e di tutela dei diritti sociali. Sul terreno del referendum costituzionale è risultato perdente, e forse anche controproducente, il tentativo di Renzi di trasformarlo in un plebiscito sul Governo e sul suo futuro politico, a suo modo coerente con l’uso della riforma costituzionale come “cosa del Governo”, che in caso di vittoria del Si distruggerebbe il ruolo della Costituzione come “casa comune” di tutti posta al di fuori e al di sopra della politica. La crescita del No in tutti i sondaggi, che arriva ormai ad insidiare il Si o a superarlo, ha gettato una secchiata di acqua fredda sulla volontà espressa da Renzi tre mesi fa di “spazzare via” gli oppositori della riforma. Ed è emersa alla luce del sole la pia illusione che le modifiche all’Italicum apportate a misura del Pd dopo il risultato delle elezioni europee del 2014 (premio ad un’unica lista con il 40% dei voti) potessero garantire una tranquilla vittoria alle prossime elezioni della Camera. Gli artefici delle riforme hanno agito come apprendisti stregoni, spianando la strada ad esiti contrari a quelli dati per certi, un po’ come ha fatto Cameron con il referendum sulla Brexit.
In conseguenza del cambiamento politico e della possibile vittoria del No si è assistito ad un balletto penoso del Governo e del suo leader, per cercare di limitare i danni. Così il referendum costituzionale che si “doveva” fare il 2 ottobre prima della decisione della Corte Costituzionale sull’Italicum, è stato rinviato ad una data indeterminata e si è ventilata da ultimo quella del 6 novembre. Il tutto non per ragioni oggettive, ma per fare fronte alle difficoltà politiche dell’esecutivo e del suo leader. Renzi ha improvvisamente riscoperto il ruolo del Parlamento, riconoscendogli sia la possibilità di “spacchettare” il referendum in quesiti distinti e omogenei sia di modificare l’Italicum. L’ipotesi dello spacchettamento del referendum è apparsa come una trovata tardiva, non certo rispondente alle nobili intenzioni dei promotori (come i radicali), ma volta a far slittare di qualche mese lo svolgimento del referendum. Renzi ha dovuto abbandonarla, rendendosi conto sia della sua difficile praticabilità sia del fatto che avrebbe dimostrato la protervia del Governo nel tenere insieme oggetti disparati in violazione della libertà del voto dei cittadini. Resta invece probabile la strada delle modifiche dell’Italicum, come il ritorno del premio di maggioranza a favore della coalizione, tanto gradito ai cespugli centristi alfaniani e verdiniani. Su tale questione non possono esservi ambiguità: l’Italicum è una legge pessima e antidemocratica e quindi va cancellata e sostituita con una legge elettorale rispettosa della volontà popolare e della rappresentanza, che costringa liste e partiti a confrontarsi all’indomani del voto anche nell’eventualità di dare vita a governi di coalizione fondati su programmi seri e su obiettivi concreti e verificabili dagli elettori. Mentre le coalizioni costruite prima del voto per puri scopi elettorali e per avere un voto in più per conquistare il Governo hanno fatto clamorosamente fallimento negli ultimi venti anni.
Altra novità è il vero e proprio “gioco delle tre carte” di Renzi che non mette più in discussione la sua carica, ma attribuisce agli oppositori la volontà di utilizzare il referendum contro di lui. Peccato che ormai si sia perso il conto delle dichiarazioni tracotanti con le quali ha sostenuto da tempo l’esatto contrario. Anche qui va fatta chiarezza: il referendum costituzionale non è sul Governo, ma sulle “deforme” approvate a maggioranza che colpirebbero la democrazia costituzionale. Naturalmente ciò implica la critica del metodo e dei contenuti imposti dal Governo in carica facendo ricorso a maggioranze esigue e raccogliticce e quindi la sottolineatura della responsabilità politica del governo Renzi (o di qualsiasi altro ”nuovo” Presidente del Consiglio che si muovesse sulla stessa linea). All’impostazione plebiscitaria è subentrata quella “terroristica” fondata sulla denuncia dei guasti irreparabili che produrrebbe la vittoria del No. Il Presidente emerito in un’intervista al Corriere della Sera è arrivato a sostenere che non vi sarebbero più revisioni costituzionali. Non solo la storia della Repubblica dimostra il contrario, ma proprio la caduta della “deforma” costituzionale consentirebbe ad un nuovo Parlamento legittimato dal voto popolare di procedere a revisioni puntuali e omogenee del testo della Costituzione con progetti distinti e più facilmente approvabili (riduzione del numero dei parlamentari, attribuzione del rapporto di fiducia alla sola Camera, previsione di meccanismi di semplificazione del procedimento legislativo e di superamento dei conflitti fra le Camere, razionalizzazione della forma di governo parlamentare attraverso istituti quali la sfiducia costruttiva, rapporto equilibrato fra lo Stato e tutte le Regioni, comprese quelle ad autonomia speciale, e costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze ecc.). A sua volta Renzi evoca la Brexit e torna a minacciare lo scioglimento anticipato delle Camere. La prima è fuori luogo perché il No non ha nulla a che vedere con l’uscita dell’Italia dalla UE. Quanto allo scioglimento, non compete (per fortuna) al Presidente del Consiglio e nulla impedirebbe la formazione di un governo di scopo incaricato di approvare una nuova legge elettorale e di adottare misure urgenti in vista del ritorno in tempi brevi al voto popolare. Anche la Confindustria ha deciso di dare il suo contributo alla “causa”, minacciando sfracelli come la diminuzione del PIL del 4% e l’aumento della disoccupazione. Manca solo l’invasione delle cavallette a completamento di dati tanto fantasiosi quanto indimostrabili, ma che la dicono lunga sulla propensione dei poteri forti a sostenere “riforme” che lascino loro mano libera, comprimendo i diritti sociali e la partecipazione democratica (secondo i noti orientamenti espressi dalla Banca d’affari JP Morgan nel giugno 2013 sulla necessità di superare le Costituzioni “antifasciste” troppo garantiste del Sud Europa).
Occorre quindi che il patrimonio umano e organizzativo realizzato durante la campagna referendaria venga pienamente utilizzato dando vita ad una pluralità di iniziative, politiche, culturali ed anche artistiche, che contribuiscano alla piena informazione dei cittadini. In questo quadro il Coordinamento è aperto a collaborazioni e patti di consultazione, basati su una rigida discriminante antifascista, con gli altri Comitati per il No che si vanno costituendo sul territorio, ma non è disponibile ad aderire a strutture organizzative stabili a livello regionale che correrebbero il rischio di appiattire il pluralismo delle varie posizioni e di fornire pretesti a strumentali campagne di equiparazione a chi nella maggioranza del PD non prova nessuna vergogna ad avere approvato le “deforme” insieme a personaggi come Alfano, Formigoni, Verdini e al codazzo dei cosentiniani. “Marciare divisi per colpire uniti” è una vecchia parola d’ordine della sinistra che ben può essere adattata alla prossima campagna per il No al referendum costituzionale. È una battaglia che può e deve essere vinta per respingere il tentativo di verticalizzare e di centralizzare il potere che deriverebbe dalla vittoria del Si. Un esito che non produrrebbe nessun risparmio significativo di risorse, che complicherebbe il procedimento legislativo, dando vita a probabili conflitti fra le due Camere, che metterebbe alcuni istituti di garanzia nelle mani di un partito e del suo leader, che renderebbe più difficile il ricorso agli istituti di partecipazione, che toglierebbe al popolo sovrano il diritto di eleggere i senatori e circa i due terzi dei deputati, che trasformerebbe le Regioni ordinarie in enti amministrativi subordinati al Governo mentre manterrebbe i privilegi di quelle a statuto speciale. Insomma un vero e proprio mostro che deformerebbe irrimediabilmente la democrazia costituzionale, aprendo la porta a involuzioni plebiscitarie e a torsioni autoritarie.

Articolo pubblicato su Micropolis, mensile umbro de il manifesto

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