di Benjamin Selwyn
Il capitalismo globale contemporaneo è caratterizzato da estrema concentrazione di ricchezza e da una forza lavoro global in rapida espansione e largamente impoverita. Istituzioni convenzionali quali la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Lavoro infcoraggiano l’integrazione nelle catene del valore globali come strategia di sviluppo che, affermano, ridurrà la povertà. In realtà l’occupazione nell’ambito di queste catene genera nuove forme di povertà operaia e contribuisce alla concentrazione globale della ricchezza. E’ per questo che dovrebbero essere chiamate catene globali della povertà.
La disuguaglianza globale non è mai stata più grande. Ad esempio, la ricchezza delle 62 persone più ricche del mondo, che nel loro insieme dispongono di una ricchezza maggiore di quella di metà della popolazione mondiale, è cresciuta del 44 per cento tra il 2010 e il 2015. Nello stesso periodo la ricchezza del 50 per cento inferiore dell’umanità è scesa approssimativamente del 38 per cento.
Gran parte, forse la maggioranza, della forza lavoro mondiale è povera. Nel 2010 c’erano approssimativamente 942 milioni di lavoratori poveri (quasi un lavoratore su tre viveva con meno di 2 dollari USA il giorno). Tuttavia queste cifre sono considerevolmente sottostimate.
La misurazione della povertà
L’Organizzazione Mondiale del Lavoro calcola la povertà utilizzando le soglie internazionali di povertà di uno e due dollari USA il giorno in ‘parità di potere d’acquisto (PPP)’, dove un dollaro il giorno rappresenta ‘povertà estrema’ e due dollari il giorno rappresentano semplice ‘povertà’.
Chi vive sopra queste soglie di povertà non è considerato povero. Queste soglie di povertà riflettono l’equivalente internazionale di quanto uno o due dollari USA potevano acquistare nel 1985 negli Stati Uniti. Anche se le soglie della povertà sono state aggiornate da allora, i relativi poteri d’acquisto aleggiano su queste cifre simboliche. Un attimo di riflessione suggerisce che uno o due dollari il giorno negli USA nel 1985 potevano a malapena comprare qualcosa. E’ del tutto evidente che sono necessarie soglie di povertà più elevate. Il problema per la Banca Mondiale è che a seconda di dove sono fissate, mostrerebbero che un maggior segmento della popolazione mondiale vive in povertà. E tale realtà contraddice la celebrazione neoliberista del capitalismo globale.
Le soglie di povertà della Banca Mondiale sono monodimensionali: si interessano solo ai costi dei consumi (il significato della parità di potere d’acquisto). Non tengono conto di altre forme, multidimensionali, di povertà, come la fatica massacrante e le condizioni di vita insalubri. Anche se centinaia di milioni di lavoratori in tutto il Sud globale guadagnano più di uno, due o cinque dollari il giorno, tali salari non coprono i costi della sussistenza. Per sopravvivere devono lavorare molte ore in più, con conseguenze negative per la loro salute. Ma secondo la Banca Mondiale questi lavoratori non sono poveri.
Dunque dove entrano in questa equazione le catene del valore globali, o quelle che più accuratamente dovrebbero essere chiamate le catene della povertà?
Logica Nord-Sud
Dagli anni ’80 un numero crescente di imprese è diventato trans-nazionale, operando attraverso i confini. Hanno spesso la direzione nel Nord globale, mentre le componenti sono prodotte, assemblate e ricavate da tutto il Sud globale. Le imprese del Nord presiedono sistemi di produzione e scambio basati su una competizione sempre più intensa tra fornitori. Così i costi del lavoro sono ridotti in almeno tre modi: 1) mediante l’esternalizzazione della produzione dai mercati del lavoro relativamente costosi del Nord ai mercati del lavoro relativamente economici del Sud; 2) esercitando pressioni per il ribasso dei costi lungo l’intera catena, in cui le aziende fornitrici sono spinte a battersi tra loro sui prezzi al fine di ricevere o conservare i contratti; e 3) usando queste pressioni per intimidire i lavoratori del nord affinché accettino tagli ai salari, oppure perdano i loro posti all’estero. Le aziende fornitrici reagiscono a queste pressioni dominanti in modo razionale: tagliando i costi dei salari.
In questa condizione di intensa competizione tra fornitori e di sfruttamento dei lavoratori le imprese transnazionali sono in grado di appropriarsi della parte del leone del valore creato in queste catene. Non sorprende, allora, che l’occupazione nelle imprese fornitrici delle catene globali dell’offerta sia spesso dipendente dalla riproduzione della povertà di massa e contribuisca a essa.
Un esempio ben noto di questa dinamica – di appropriazione di valore da parte delle imprese e di impoverimento dei lavoratori – è la catena di fornitura della Apple. I suoi profitti per l’iPhone nel 2010 hanno rappresentato il 58 per cento del prezzo finale di vendita del dispositivo, mentre la quota dei lavoratori cinesi è stata solo dell’1,8 per cento. Nel 2010 la Foxconn, uno di principali fornitori asiatici della Apple, impiegava circa 500.000 lavoratori nelle sue fabbriche di Shenzhen e Chengdu. Finì nell’infamia quell’anno dopo notizie di 18 tentati suicidi di lavoratori, 14 dei quali fatali. La Foxconn impiega un regime lavorativo di stile militare. All’inizio della giornata i dirigenti chiedono agli operai “Come state?” e il personale deve rispondere “Bene! Molto bene! Molto, molto bene!”. Dopo di ciò devono lavorare in silenzio controllati da capi con stretti limiti per le pause per i bisogni corporali. Il salario è molto basso e gli straordinari sono spesso il solo modo in cui i lavoratori possono guadagnare abbastanza per vivere.
Una dinamica simile opera nell’industria globale dell’abbigliamento, che impiega approssimativamente 30 milioni di lavoratori.Ci sono regolari servizi dei media sulle condizioni di lavoro oltraggiose in queste industrie, che vanno da salari estremamente bassi a lavoro minorile e a lavoro forzato. Al massimo dell’orrore, in Bangladesh nell’aprile del 2013 sono rimasti uccisi 1.113 lavoratori dell’abbigliamento e 2.500 sono rimasti feriti in seguito al crollo del Rana Plaza, un edificio di otto piani in cui operavano fabbriche tessili. Nel suo esame del settore dell’abbigliamento in 17 paesi John Pickles documenta come, dal 2000 in poi, “il livello dei salari è stato spinto sotto il livello della sussistenza”. In India, Bangladesh e Cambogia, ad esempio, i salari base in percentuale dei salari di sussistenza sono rispettivamente il 26%, il 19% e il 21%.
Nell’industria dell’abbigliamento della Cambogia le condizioni sono così dure che i lavoratori svengono regolarmente sul lavoro in conseguenza dell’intensità dello sforzo richiesto loro. Gli straordinari sono una necessità, poiché i salari normali sono insufficienti per soddisfare le loro necessità quotidiane. Anche se il governo limita gli straordinari a due ore il girono, la norma non è fatta rispettare legalmente e le pressioni economiche sui lavoratori perché superino tale limite sono intense. La maggior parte dei lavoratori delle grandi fabbriche tessili cambogiane fa dalle 3 alle 5 ore di straordinario al giorno.
La ‘scelta’ che hanno i lavoratori di molte di queste industrie fiorenti consiste nell’impegnarsi in elevatissimi volumi di lavoro dannoso per la salute al fine di guadagnarsi da vivere, oppure vivere in gravissima povertà.
Le industrie maggiori si appropriano della parte del leone del valore generato nelle catene della povertà globale perché i lavoratori di tali catene sono sfruttati ferocemente. La concentrazione della ricchezza e la povertà di massa sono due facce della stessa medaglia dello sviluppo capitalista. Una quota più equa del valore generato in queste catene potrebbe contribuire considerevolmente a un genuino miglioramento delle condizioni di questi lavoratori e alla riduzione del numero dei lavoratori poveri nel mondo. Ma minaccerebbe anche, e potenzialmente comprometterebbe, il potere delle industrie maggiori e ne ridurrebbe i profitti. Questo è un compromesso che i politici e le aziende globali devono affrontare se dobbiamo ripensare il mercato globale del lavoro e se devono essere trovati nuovi modi di condividere più equamente la prosperità.
Benjamin Selwyn è direttore del Centro per la Politica Economica Globale dell’Università del Sussex, GB. Le sue pubblicazioni includono ‘The Global Development Crisis’ (2014) e ‘Global Value Chains or Global Poverty Chains: A New Research Agenda’ (2016, CGPE Working Paper, n. 10, Università del Sussex). Questo articolo è stato pubblicato in origine dallo Sheffield Political Economy Research Institute (SPERI).
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: The Bullet
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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