La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 26 luglio 2016

Tra libertà e sufficienza, l’economia dell’abbastanza

di Wolfgang Sachs
Per illustrare il contrasto tra economia industriale ed ecologica non vi è quasi metafora più calzante che il paragone tra una petroliera e un veliero (Wuppertal Institut 2008). La nave cisterna, un colosso di acciaio, fornisce un’impressionante capacità di trasporto, ma è difficile da manovrare, si può impiegare solo su vie marittime e consuma per di più una grande quantità di carburante fossile. Diverso è il caso del veliero. Si tratta di un mezzo di trasporto certamente piccolo, ma leggero e maneggevole, spinto dall’energia del vento e pilotato da un abile equipaggio. In modo simile al veliero, la via di sviluppo ecologica risparmia sul materiale, è a basso impatto ambientale e moderata nelle prestazioni, mentre l’espansione industriale si basa sull’alto consumo di risorse, sull’oblio della natura e sul massimo rendimento.
Per un velista niente è una spina nel fi anco quanto il sovraccarico; ogni chilo costa spazio e rende la barca pesante. Allo stesso modo, la parola d’ordine per un progresso migliore è il risparmio di materiale. Si annuncia pertanto il passaggio a un’economia parca di risorse, che metta in accordo il peso del sistema economico con la capacità di carico della biosfera. In ogni settore imprenditori e ingegneri si indirizzano a trasformare l’hardware della società verso una maggiore efficienza nelle risorse. Ciò riguarda anzitutto la creazione di prodotti leggeri, a basso consumo e durevoli: frigoriferi e automobili, computer e abitazioni hanno standard di consumo diversi rispetto a solo dieci anni fa. Si cerca poi di confi gurare procedimenti di produzione che portino al risparmio di risorse. Oltre il 90% di tutti i materiali e il 60% dell’energia vengono oggi consumati nella fabbricazione, prima ancora che il prodotto sia fi nito – i detriti dell’industria mineraria, il calore di scarico delle centrali elettriche, il consumo di terreno nell’agricoltura meccanizzata, i residui nella lavorazione di legno o metalli, i cereali nell’allevamento o l’acqua nella raffi nazione dei metalli. A ogni stazione lungo la catena di produzione si possono evitare spreco e perdite con l’effi cienza nella progettazione e l’intelligenza nell’organizzazione.
L’economia ecologica tratta poi diversamente la natura. Anche gli uomini di terraferma restano affascinati nel vedere come su un veliero venga ricavata energia cinetica dalla natura senza danneggiarla o addirittura saccheggiarla. Di più: grazie a una raffi nata abilità artigianale, si è in grado di accelerare anche contro vento! Similmente, una tecnica a basso impatto ambientale interviene nei flussi naturali, come vento, sole, acqua o crescita organica, li cattura, li reindirizza, rendendoli così utilizzabili agli scopi umani. Al risparmio di materiale si aggiungerà quindi il basso impatto ambientale. Pale eoliche che girano lente o frenetiche nel paesaggio, collettori solari posti sui tetti delle case o sui campi a maggese, centrali termoelettriche che approvvigionano di calore interi distretti con l’uso di biomasse: negli anni Duemila è diventato assolutamente chiaro l’aspetto che assumerà la via verso un sistema energetico solare. Pannelli solari, biotecnica e fitochimica sono esempi del modo in cui, con una raffi natezza e un’effi cacia molto superiori che in passato, si possa attingere dal bilancio corrente delle forze naturali, senza estinguerne le riserve patrimoniali.
Tuttavia un veliero è certo leggero e a basso impatto ambientale, ma è anche, commisurato a una nave cisterna, limitato nel rendimento. Pur con tutta l’eleganza nella progettazione e la consonanza con la natura, non può né trasportare carichi pesanti né garantire una velocità affidabile. In linea di massima, questa analogia vale anche per una forma ecologica di economia. Perciò sarebbe pericoloso attendersi che il risparmio di materiale e il basso impatto ambientale siano di per sé sufficienti per mettere in atto un’economia di massa con una pressione ecologica molto inferiore. L’effi cienza nelle risorse non preserva infatti dall’eccesso; anche un’economia razionalmente organizzata, in caso di una crescita continua del volume complessivo della richiesta di risorse, può diventare troppo gravosa per la biosfera. Inoltre una moltitudine di retro-effetti riduce i guadagni in effi cienza. E neppure il basso impatto ambientale può evitare l’eccesso. Infatti energie e materiali rinnovabili non si possono acquisire in misura illimitata; in particolare, le superfi ci di terreno per le bioenergie e i biomateriali si possono difficilmente ampliare senza compromettere la produzione alimentare e la tutela della natura. Sia il risparmio di materiale (effi cienza) sia il basso impatto ambientale (coerenza) mancano il loro obiettivo se al loro fianco non subentra il principio di autolimitazione (sufficienza).
Decelerazione in arrivo, in primis nei trasporti
Il fascino del concetto di suffi cienza consiste nell’oscillare tra carenza e abbondanza. In situazioni di privazione, persino di fame, sufficienza significa non avere abbastanza per vivere. Ogni uomo ha per nascita certi diritti – all’alimentazione, alla salute, all’alloggio come alla libertà. Qualora l’esercizio di questi diritti non venga garantito, compito della politica della sufficienza è rimediare a questa mancanza. Ma nelle zone ricche di questo mondo essa assolve un compito opposto. Qui sufficienza significa ridurre l’ampliamento eccessivo e l’abbondanza, in particolare quando la carenza di ciò che è necessario per vivere presso gli uni ha a che fare con l’eccesso strutturale degli altri. “Abbastanza” è una parola che esprime la giusta misura e tenta di separare il necessario dal superfluo.
Nei Paesi di prima industrializzazione cresce, nel frattempo, il sospetto che il “mantra” della modernità espansiva – «più in alto, più veloce, più avanti» – abbia fatto il suo tempo. Bicicletta al posto dell’auto, ortaggi regionali, monasteri per manager, yoga contro burn-out, tutte queste sono tendenze di diserzione dalla società dell’accelerazione. Dalla metà del XIX secolo la velocità crescente appartiene alla dotazione di base della modernità industriale. Cosa non è stato mobilitato su treni, automobili, aerei, assieme alle rispettive infrastrutture (stazioni, autostrade e aeroporti), per vincere la resistenza del tempo e dello spazio! A ciò, dagli anni Duemila, si aggiunge anche la rivoluzione digitale: grazie a internet e agli smartphone, simultaneità e ubiquità appartengono alla vita quotidiana.
Tuttavia, a posteriori cresce il dubbio se sia valsa la pena di condurre una battaglia contro i vincoli di spazio e tempo. Certo, nulla è più snervante che procedere lentamente sulla corsia di parcheggio. Ma ciò signifi ca che una maggiore velocità sia sempre anche migliore? Vi è infine un lato oscuro dell’accelerazione: quanto più ci si affretta, tanto più difficile diventa soffermarsi. E quanto più lo spazio è universalmente accessibile, tanto più diffi cile diventa preservare la specificità culturale e la sfera privata personale. La follia dell’accelerazione non comporta soltanto un consumo intensivo di risorse, ma è anche nociva per la qualità della vita.
Pertanto è incerto se una società che non rientra dalla corsia di sorpasso possa mai essere capace di garantire un futuro in senso ecologico o sociale. La sufficienza nel traffico può già oggi essere messa alla prova – nei giorni di divieto di circolazione delle auto, nelle zone a traffico limitato, nelle strade con limite di velocità a 30, 80, 120 km/h. È anche urgente abbandonare i motori ad alto consumo dei Suv e Crossover, che annullano i progressi tecnologici relativi a cilindrate minori e consumi inferiori di carburante, ottenuti attraverso maggiori prestazioni dei motori. Ma in futuro la musica effettivamente cambierà se la sufficienza verrà introdotta come principio tecnico nella progettazione. In tal modo le automobili potranno essere pensate per velocità moderate fi n dai loro principi costruttivi. Una flotta di automobili motorizzata con discernimento, ad esempio, in cui nessuna auto possa viaggiare a una velocità massima maggiore di 120 km/h, ha bisogno di quantità di carburante decisamente inferiori e consente inoltre soluzioni differenti per ciò che concerne materiali, peso, dotazioni di sicurezza e confi gurazione esterna. E soltanto in caso di prestazioni moderate l’auto elettrica può sopravanzare i motori a scoppio.
In particolare, si può arrivare alla svolta nei trasporti se ci si serve della velocità virtuale del postmoderno contro la velocità meccanica della modernità industriale. Attraverso la connessione elettronica, il numero delle auto può diminuire e l’attrattività dei trasporti pubblici crescere. Nel procedere di pari passo di carsharing, di internet e di una motorizzazione moderata, la svolta nei trasporti può accompagnarsi alla riduzione del consumo di risorse. Così l’utopia del XXI secolo trova la sua espressione tecnica nel vivere con eleganza all’interno dei limiti naturali. 
Regionalità dopo la globalizzazione
La velocità viene per lo più convertita in distanza. Pertanto, con l’accelerazione indotta dai combustibili fossili, si sono estese vaste reti di collegamento nello spazio nazionale, continentale e infi ne globale. 
L’uva viene dal Brasile, i computer da Taiwan o viceversa: da noi si produce per il mercato mondiale, rasoi elettrici per il Sudafrica o progettazioni edilizie per Abu Dhabi. Così le comunità locali diventano in gran parte piattaforme dove vengono messe in atto strategie transnazionali di vendita e produzione. La suffi cienza ha dunque anche una componente geografi ca. Il benessere ecologico dipenderà da un nuovo equilibrio tra distanza e vicinanza. E questo per due motivi: da un lato, l’eccesso nel collegamento di luoghi distanti non significa altro che spreco di risorse; dall’altro, un maggiore collegamento locale è il presupposto per un’economia a basso impatto ambientale. È evidente che, se ci si vuole preparare alla fine dei ricchi giacimenti di petrolio ed energia, diventano inevitabili sistemi di rifornimento con incidenza minima di trasporto. D’altra parte un modello economico che si inserisce nei cicli naturali richiede dagli ecosistemi regionali materie prime energetiche, materiali da costruzione, materie tessili, prodotti alimentari da acquisire e trasformare. Con ciò la base materiale per un’economia regionale si ripristina in una certa misura periodicamente.
Frazionata al massimo si presenta, poi, la rinnovata regionalizzazione nell’ambito dei prodotti alimentari e dell’energia. Mercati agricoli, agricoltura solidale e lavorazione regionale dei generi alimentari sono i segni distintivi di una nuova coscienza di appartenenza territoriale. 
Cooperative energetiche e aziende comunali che ruotano attorno al fotovoltaico, all’energia eolica e alla bioenergia, assieme a reti intelligenti, minano nel frattempo le strutture delle imprese multinazionali di fornitura. In tal senso anche il principio posto alla base della distributed energy production può essere esteso sia all’artigianato sia alla piccola e media impresa. Grazie alla connessione digitale “piccolo” non significa più necessariamente “provinciale”: sia nella produzione, come nel caso delle manifatture ad alta tecnologia riguardanti birra, scarpe o progetti architettonici, sia nella distribuzione, come nel caso del custom-made o nel commercio per corrispondenza, internet gioca un ruolo rilevante. Sono passati i tempi in cui localizzazione e isolamento erano strettamente connessi. Ora essere locali signifi ca essere ancorati in una comunità territoriale, nella contemporanea apertura alla circolazione globale di idee e pratiche. Reti di prossimità animano la compagine sociale locale, reti più vaste collegano una regione con il resto del mondo. Detto in breve, dopo il trionfo della globalizzazione si annuncia ora la rinascita della regionalità.
Il bene comune visto dalle imprese
Che il mondo delle imprese necessiti di una profonda trasformazione per diventare capace di garantire un futuro è un segreto di Pulcinella. 
Soltanto poche aziende sono riuscite a realizzare la triple bottom line: people, planet, profit. Certo, la promozione dell’effi cienza nell’uso di energia e materiale si è imposta in ogni prontuario aziendale. E alcuni di questi puntano persino sul basso impatto ambientale dei prodotti e dei processi di produzione e abbandonano completamente le risorse fossili e gli agenti chimici inquinanti. Tuttavia la maggior parte delle imprese ha la crescita come obiettivo ed è preoccupata quando il fatturato, il profitto o i numeri dei pezzi prodotti non corrispondono alle attese. Sufficienza significherebbe invece agire «in modo neutrale rispetto alla crescita» (Liesen et al. 2013): si può crescere o meno, la cosa principale è che sia garantita la protezione dei beni comuni naturali e sociali. Per le imprese che lavorano nello spirito della sufficienza è prioritario fare economia al servizio della vita dell’uomo e della natura. Tutto il resto è secondario.
Le imprese orientate al bene comune fanno profitti, ma non li massimizzano. Qui sta la differenza rispetto ai piani dei tradizionali esperti nella riduzione di spesa e di quei consulenti per l’innovazione che sono obbligati alla massimizzazione dell’utile. Gli imprenditori sociali ed ecologici vorrebbero essere parte della soluzione, non del problema; vorrebbero diventare capaci di durare per generazioni. Qualità invece di quantità, è qui la formula strategica. Se un’impresa si preoccupa della work-life-balance dei dipendenti, se punta alla durevolezza dei suoi prodotti offrendo unitamente un servizio di riparazione, se tratta piante e animali in modo consono alla loro specie, se fa affidamento primariamente sul valore aggiunto regionale, ha a che fare con quella qualità che non si lascia semplicemente trasformare in quantità. E anche qui la modernità digitale apre un campo nuovo, seppure ambivalente: gli imprenditori sociali hanno buone prospettive nella sharing economy come anche nella peer-to-peer production, e allo stesso tempo vengono in questo campo minacciati dalla concorrenza. Del resto, purtroppo, non si può evitare che sulle piattaforme internet della sharing economy, per esempio su Car-to-go e Airbnb, scorrazzino anche capitalisti che hanno scoperto il linking come fonte di profitto
e di creazione di nuovi mercati.
Al di là della libera volontà, un’economia del bene comune ne
cessita alla fin fine di un quadro normativo che tocchi management, tassazione, concorrenza e regime di proprietà. Ha bisogno di regole giuridiche per il controllo indipendente e per una contabilità che tenga necessariamente conto dei costi esterni, così come di una riforma fiscale che alleggerisca redditi e utili e penalizzi il consumo di risorse. 
Ugualmente occorre modificare in tal senso la normativa sulla concorrenza, perché non abbia successo chi grava in modo particolarmente pesante sui beni comuni. E occorre anche prendere in considerazione una revisione del governo societario: non è possibile che le società di persone, così come cooperative e fondazioni, sopportino il carico maggiore del cambiamento, mentre le società per azioni si sottraggono alla responsabilità. Nella crisi del XXI secolo, un’economia di mercato al servizio della vita avanzerà richieste del tutto nuove a chi detiene patrimoni. Su questa linea, un paragrafo della Costituzione tedesca approvato nel 1949 già formulava quel principio mai adempiuto che diventa estremamente attuale a causa della minaccia ecologica: «La proprietà impone obblighi. Il suo uso deve anche servire al bene della collettività».
Beni comuni: dal cohousing al car sharing
Nella ricerca di un’“economia dell’abbastanza” è centrale l’ampliamento del concetto tradizionale di economia. Mercato oppure Stato? 
Concorrenza o pianifi cazione? Queste alternative defi niscono il dibattito politico-economico, come se non ci fosse una terza possibilità, ossia la reciprocità dello scambio di beni nella community. L’individualismo possessivo governa la corrente vita economica, mentre nelle comunità domina la solidarietà. Il politologo italiano Stefano Bartolini (2010) ha trovato una bella formula al riguardo: accanto all’economia razionale vi sarebbe un’economia relazionale, dove si tratta di relazioni tra persone e non soltanto di relazioni con le cose. Nell’economia relazionale la produzione e la spartizione sono regolate da norme consuetudinarie e culturali. Economia domestica, parentela e servizi sociali ne sono esempi eminenti. 
L’economia relazionale si appella a motivi e norme di diversa natura rispetto al mercato e allo Stato. Certo, concorrenza e rendimento, procedure regolate e lealtà sono comunque presenti, anzi possono essere una componente dei beni comuni sociali. Ma non possono mai sostituire la libera volontà e l’auto-organizzazione, la cooperazione e lo spirito d’iniziativa. Sia nella realizzazione di Wikipedia o di parchi pubblici cittadini, sia nella gestione di circoli per anziani o di Repair Café, ovunque viene data assoluta importanza alla virtù della cooperazione. Inoltre esistono numerosi progetti e iniziative, tutti riassumibili sotto il concetto di beni comuni – dalla sharing economy (car sharing, negozi dell’usato, circoli di scambio) alle forme collettive di produzione (officine di vicinato, impianti solari cittadini, produzione di open software) fino a forme di mutua assistenza (asili nido autogestiti, cooperative edilizie, servizio civile nel senso più ampio).
È facilmente immaginabile che i beni comuni vivranno un’ulteriore fioritura se a livello sociale prenderà piede il lavoro part-time anche per gli uomini e per occupazioni qualificate. Detto altrimenti: nella politica occupazionale il “tempo pieno ridotto per tutti”, con conguaglio salariale per i redditi bassi, appartiene ugualmente a una politica della sufficienza (Wuppertal Institut 2008). Con ciò riceve riconoscimento il “lavoro nel suo complesso”, che consiste di lavoro professionale, lavoro assistenziale e lavoro per il bene comune. Istituzionalizzare a livello sociale questo lavoro misto è la base per un boom inaspettato dei beni comuni. Una simile costruzione di un’economia dal basso ha anche qualcosa a che fare con l’ecologia, e precisamente sotto un duplice riguardo. Da un lato, per il fatto che la passione per la condivisione e la cooperazione presenta alcuni fattori potenziali di risparmio di materiale e basso impatto ambientale. Il motto “condividere invece di possedere” – dal tosaerba fino alle biciclette a noleggio – è indice di un distacco dal modello del possesso privato in direzione dell’idea del libero accesso alla proprietà comune. In questo modo, automobili, attrezzi o software vengono sfruttati meglio che se fossero nel possesso di privati. Dall’altro lato, per il fatto che ora diventa pensabile creare benessere con meno denaro. Infatti, poiché nell’ottica dei beni comuni non vengono fornite prestazioni primariamente per motivi monetari, bensì per senso civico o interesse alla questione, si possono soddisfare dei bisogni con un impegno fi nanziario inferiore. Come Wikipedia diventerebbe troppo cara se tutti gli autori ricevessero un onorario, così i più anziani in un progetto di co-housing si forniscono reciprocamente prestazioni assistenziali che la cassa previdenziale pubblica non potrebbe mai pagare. Una reinvenzione dei beni comuni è quindi il presupposto per la costruzione di un ordinamento economico che non si basi sulla crescita.
Saper vivere: per un’estetica della misura
Il fatto che uno standard di vita elevato non debba necessariamente significare una elevata qualità della vita è una delle lezioni che nel frattempo le società benestanti hanno dovuto imparare. Ciò apre la possibilità di un duplice vantaggio: una prestazione economica inferiore non soltanto risparmia risorse, ma crea allo stesso tempo spazio per una vita migliore. Si tratta di una buona notizia per una società che si prepara a ricondurre la quantità complessiva del movimento di merci a livelli meno dannosi. Infatti, la questione fondamentale è se sia ragionevole un modello economico che cerchi di soddisfare sempre maggiori bisogni attraverso prodotti di consumo, ciascuno dei quali necessariamente proposto in cento varianti, e che faccia passare di moda tutte queste cento varianti in cicli di tempo piuttosto brevi per sostituirle a loro volta con prodotti nuovi di zecca. Troppo di rado si trovano negozi dove siano disponibili una buona scelta piuttosto che una gran massa di offerte, qualità invece di prodotti economici, beni durevoli piuttosto che merci usa e getta, un servizio di riparazione invece dell’acquisto del nuovo. Certo – è il caso di sottolinearlo? – una strategia di sufficienza si oppone ai moventi di un capitalismo programmato sulla concorrenza. Perciò per il capitalismo si prepara un “test dell’alce” di natura particolare: soltanto se riuscirà a ricavare plusvalore con quantità di beni in calo, sopravvivrà nel XXI secolo.
La faccenda si configura più semplice per i consumatori. Essi sono in grado di contribuire con piccolo sforzo al depotenziamento delle tensioni a livello mondiale, rispondendo con la zero option ai prodotti a spreco e sfruttamento intensivo (Pallante 2011). Si capisce da sé che le fragole di inverno sono ugualmente equivoche quanto le gite del fi ne settimana in aereo, la bistecca alla fi orentina o gli indumenti a poco prezzo. Nell’ambito dei trasporti è evidente che occorra studiare la diminuzione dell’uso dell’automobile e il passaggio alla bicicletta come al car sharing. Nel settore abitativo, nulla consente un maggiore risparmio di risorse che la rinuncia a superfi ci abitative ampie. E nell’alimentazione si appiana l’impasse su energia e prodotti alimentari, se carne e pesce ricevono di nuovo una posizione speciale nel menu settimanale. La sufficienza è, in fondo, una questione di onore: non si collabora con gli sfruttatori, non importa se di risorse o di lavoratori. Ma il motto dell’autolimitazione vale anche per quei consumatori istituzionali con forti interessi – grandi consumatori come chiese, amministrazioni o catene alberghiere. Una certa misura nel parco attrezzature, nella flotta aerea, nella dotazione degli uffici, nella gastronomia, se possibile accompagnata da un’attenzione viva per eleganza e qualità, può definire uno stile di semplicità al livello delle istituzioni.
Infine, risulta chiaro che una condotta di vita che badi al consumo selettivo deve lasciarsi guidare da un’estetica della misura. Su questo punto la veneranda formula della moderazione (temperantia), coperta com’è da strati di polvere, non consente più di riconoscere ciò in cui consisteva il suo centro: cercare la giusta misura non è una raccomandazione per una vita moralmente migliore, ma per un’esistenza più indipendente. Infatti – così intendono i classici – conduce una vita bella e riuscita colui che non si abbandona a ogni piacere, ma impara a modulare i suoi svaghi e a goderli nello scorrere alternato del tempo. Chi vuole vivere con discernimento si guarderà dal trovare il bene in ciò che presume essere migliore o di legarsi troppo a soddisfazioni che un giorno potrebbero mancare. Non c’è dubbio che proprio in una società dalle molteplici opzioni un simile atteggiamento guadagni di nuovo in attualità. Infatti non è più la mancanza, ma l’esplosione di possibilità a minacciare oggi l’indipendenza dei singoli. Dare forma alla propria vita richiede oggi più che mai la capacità di saper dire “no”. Senza un’estetica personale della misura, una volontà singola non riuscirebbe a sopravvivere, verrebbe travolta dal numero enorme delle offerte. Suona paradossale, ma un certo grado di austerità, in ogni caso nelle zone ricche, può diventare la base per l’indipendenza. Altrimenti capita come allo scrittore austriaco-ungherese Ödon von Horvarth: «Sono qualcun altro, ma riesco a esserlo solo così raramente». 
Ma che ne è della libertà? Ripartire da Kant
Come si rende compatibile l’idea di libertà con l’ideale della sufficienza? Come si possono pensare insieme spirito liberale e senso del limite? Queste domande daranno l’impronta alla filosofi a politica e al dibattito pubblico quando si sarà diffusa l’idea che il tempo della modernità espansiva è concluso ed è iniziato quello della modernità riduttiva. In effetti è una sfi da enorme mettere in accordo le conquiste illuministiche con il dato della limitazione del mondo.
Una prima indicazione può arrivare dal filosofo Immanuel Kant. 
Il suo imperativo categorico recita: «Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che divenga una legge universale». La mossa decisiva dell’etica kantiana non è di sottolineare il diritto alla libertà bensì, al contrario, il corrispondente dovere alla libertà. Se tutti i cittadini vogliono godere del loro spazio di libertà, allora la linea di confi ne è nella libertà degli altri. Tuttavia non ci si può sottrarre al signifi cato di critica del dominio dell’imperativo kantiano. 
A cosa ci si riferisce? Alla libertà dell’assetato di potere o dell’impotente? Alla libertà di chi agisce o di chi subisce? Dove finisce la libertà dell’uno e inizia la libertà degli altri? Espresso nel contesto ecologico, il compito della suffi cienza sta nel frenare la libertà di chi consuma troppo e di rafforzare quella di chi consuma meno. Occorre mettere in risalto la libertà di pedoni e ciclisti rispetto agli automobilisti, favorire la prossimità urbana rispetto alla suburbanizzazione, incentivare gli imprenditori sociali rispetto ai gruppi industriali multinazionali, promuovere la prevenzione rispetto alla carriera, la cooperazione rispetto alla concorrenza e la vita frugale rispetto a uno stile di vita opulento. 
I comandamenti della suffi pcienza devono commisurarsi alla libertà di chi consuma meno. La libertà per tutti non si può ottenere senza una certa uguaglianza. Non vi è liberalismo senza pari libertà per tutti. Per esprimersi con la nota citazione di Gandhi: «La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di poche persone».

Traduzione di Claudio Bonaldi
Fonte: Ecologia Politica

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