La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 27 luglio 2016

La convinzione di Sanders

di Guido Moltedo 
Bernie Sanders, che è del ’41, ha mangiato pane e politica fin dagli anni Sessanta, prima nei movimenti, poi mettendosi in gioco molte volte come candidato a cariche istituzionali, la prima nel 1972. È un politico di lungo corso che, da socialista e fiero di esserlo, ha conseguito risultati di grande rilievo in un’America allergica al termine stesso «socialista», fino a essere eletto senatore del Vermont. Conservando per tutto il percorso un’integrità etica che tutti gli riconoscono e uno spirito indipendente (fino al 2015 non era neppure membro del Partito democratico) più unico che raro nella politica americana.
E mantenendo un costante rapporto con la sua «base» elettorale di sinistra e un’attenzione instancabile verso la classe lavoratrice.
Sanders ha sempre saputo tenere insieme e mettere in relazione tra loro idealità, passione e realismo. Bernie, insomma, è movimentismo dentro una solida cultura di governo. Per questo non stupisce, chi l’ha seguito nel corso della sua lunga carriera politica, l’atteggiamento tenuto lunedì nella convention di Filadelfia, quando ha sostenuto la candidatura di Hillary Clinton senza se e senza ma e non come semplice rassegnazione al minore dei mali. Ha citato Hillary quindici volte, dichiarando che «Hillary Clinton deve diventare la prossima presidente degli Stati Uniti».
Politico di vecchio stampo, Sanders ha un acuto senso dei rapporti di forza, ha una lucida visione del campo di gioco in cui si svolge la partita del momento, e possiede una considerevole capacità di influenzare gli eventi nel loro svolgersi dinamico. Sa combinare tattica e strategia. Altrimenti come sarebbe potuto arrivare fin dove è arrivato, avendo vissuto un’intera vita politica in minoranza?
Proprio per questo suo impasto, Bernie ora sembra condannato a perdere lungo la strada, già in questi giorni, un pezzo dei suoi seguaci e simpatizzanti, che hanno visto in lui solo un radical estremista, dimenticando che Bernie è un socialista. Fa politica per ottenere risultati, non per pura testimonianza.
Sono questi i sanderistas duri e puri, che non intendono piegarsi alla logica del compromesso e accettare Hillary come la loro candidata. Quest’area sanderista, che fa sentire la sua voce dentro e fuori il Wells Fargo Center di Filadelfia, si sta distanziando, non sappiano quanto e se definitivamente o meno, dalla maggioranza in sintonia con Bernie. Immagina, quest’area, che ci possa essere, a questo punto, un percorso autonomo rispetto a quello all’interno del Partito democratico, compresa una convergenza con il partito verde della candidata presidenziale Jill Stein, che, naturalmente, si sta dando da fare per portarli nel suo campo.
Il tragitto scelto e ribadito lunedì da Sanders è invece tutto dentro il Partito democratico, essendo teso a far fruttare al massimo quella che non sarà stata la vittoria sperata, ma rappresenta comunque un risultato politico ragguardevole, anzi eccezionale, e che può essere investito e speso sia nella convention stessa, sia nel prosieguo della campagna elettorale, sia, successivamente, come grande patrimonio politico per incidere significativamente sulla linea e sul futuro del Partito democratico.
Certo, lo scandalo delle email che ha messo a nudo l’imbroglio di una leadership del partito impegnata a ostacolare la candidatura di Sanders, anche diffondendo insinuazioni e invenzioni velenose su di lui, ha rafforzato nell’ala intransigente dei sanderistas l’idea che nel Partito democratico non ci sia spazio per il cambiamento predicato da Bernie.
Di converso, Sanders ha valorizzato le immediate dimissioni di Deborah Wasserman Shultz come il segno del peso che ha la sua corrente nel partito. Così come importante è stato il ruolo dei rappresentanti sanderistas nella stesura della piattaforma programmatica. Così come potrà essere rilevante il peso della sinistra nella composizione di un governo presieduto da Hillary, con incarichi di rilievo affidati a esponenti come Elizabeth Warren o il senatore africano americano Cory Booker. O lo stesso Sanders.
In un passaggio del suo discorso Sanders ha sottolineato come «i giorni delle elezioni vanno e vengono, ma la lotta del popolo per creare un governo che ci rappresenti tutti e non solo l’uno per cento, quella lotta continua». In questi giorni, si sentirà risuonare innumerevoli volte il nome di Bernie Sanders nel Wells Fargo Center, segno di un partito che ha drammaticamente bisogno della massima unità per sconfiggere Trump, un’unità dentro la quale l’area di Sanders ha un ruolo cruciale che le è riconosciuto. Per la prima volta, la sinistra, grazie a Sanders, detiene un pacchetto di voti considerevole dentro il Partito democratico. Sanders non lo regala a Hillary. Da minoranza osservata con la benevola simpatia che si riserva agli idealisti inoffensivi, l’area di Bernie oggi diventa un pezzo significativo dentro il partito, come non era mai successo prima.
In un certo senso, Sanders ha oggi la parte che ebbe Hillary Clinton quando fu sconfitta da Obama nel 2008. I clintonistas ottennero allora posti di rilievo nell’amministrazione Obama – il posto di segretario di stato per Hillary innanzitutto – e, soprattutto, riuscirono a tenere saldamente il controllo del Partito democratico che Obama e gli obamiani avrebbero potuto prendere in mano ma non lo fecero considerandolo ormai un ferro vecchio da sostituire con le «nuove forme» della politica internettiana. Idea lungimirante, quella dei Clinton, come dimostra l’importanza avuta dalla leadership democratica, di salda fede democratica, nel favorire Hillary e ostracizzare Bernie.
Oggi sono i sanderistas che possono giocarsi una bella partita sotto la Grande Tenda democratica, perfino mirando a conquistarne l’egemonia. Se decidono di rimanerci dentro.

Approfondimento - La rabbia, la delusione. E ora c’è chi spera in Stein
di Marina Catucci 

Il secondo giorno di convention è stato anche il secondo giorno di manifestazioni e cortei ed il protagonista assoluto ancora una volta è stato Bernie Sanders, ma non nel solito modo. In mattinata Sanders ha ripetuto il suo endorsement ad Hillary Clinton, durante un incontro istituzionale con i suoi delegati che però hanno risposto con i fischi.
Fuori dal perimetro della convention, intanto, si stavano formando due cortei, uno per Sanders e uno per Jill Stein, la rappresentante del partito dei verdi, vista da molti come l’ultima alternativa rimasta. I due cortei ad un certo punto sono confluiti per approdare entrambi alla convention diventando una massa di quasi 10mila persone che chiedevano che le proprie aspettative di cambiamento non venissero deluse.
Nel caldo torrido e umido di Filadelfia sembrava che l’elaborazione politica si stesse facendo per strada; le persone in corteo sono state chiare: non vogliono votare Clinton, nemmeno se questo significa rischiare di far vincere Trump. C’è chi milita tra i verdi da sempre ma c’è anche chi si è avvicinato alla politica per Sanders e vuole restare attivista: ma non con i democratici. E l’unica alternativa è Jill Stein che da mesi corteggia Sanders ed il suo elettorato. «Sanders se volesse potrebbe correre con noi, in un ticket con Stein», dice Mike, 60enne dei verdi di Washington, «potremmo vincere le elezioni battendo sia Trump che Clinton, Stein lo ripete da maggio». «Non posso votare per Hillary, è più forte di me – spiega Josh 34enne di Filadelfia con maglietta FeelTheBern -. Vorrei che i delegati oggi facessero dietrofront e si rimescolassero le carte. Questo non è un partito, è una rivoluzione. E i rivoluzionari non credono nei Clinton».
Di fatto erano vent’anni che in America non si vedevano migliaia di persone in strada per i verdi, dai tempi di Ralph Nader la cui ascesa era stata fermata da quell’enorme bicchiere di acqua gelida che è stata l’elezione (rubata) di Bush Jr nel 2000. In quell’occasione Nader aveva sfiorato la mitica soglia che avrebbe permesso la nascita del terzo polo, ma l’ondata Bush, 9/11 e repressione aveva cancellato tutto. Sedici anni dopo il desiderio di una politica nuova e l’odio bipartisan per l’establishement son più forti che mai, hanno generato Trump, Sanders e ora Stein. Il corteo ha sfilato senza incidenti, lo stesso le manifestazioni fuori il perimetro della zona rossa della convention, anche se a fine giornata si sono contati 55 fermi per atti di disobbedienza più civile che disobbediente.
Gli attivisti, in fila per scavalcare le transenne, dall’altra parte trovavano un poliziotto gentilissimo che li ammanettava delicatamente; l’attivista si metteva con gli altri ammanettati e il poliziotto ammanettava il successivo. «Vogliamo far pressione su i delegati – dice Paula di Democracy Spring – La base di Sanders vuole lui, non votare per lei». La pressione passa anche da atti dimostrativi di questo genere. «Se sei bianco fai tutti gli atti dimostrativi che vuoi», commenta Mel, afroamericana di New York, attivista di Black Lives Matter mentre entra alla convention, sostenitrice convinta di Clinton: essere duro e puro è un lusso da bianchi.
All’interno della convention l’atmosfera è tutt’altra. Attivisti di Sanders ovunque, seduti per terra a discutere, spesso intorno un telefonino seguendo le proteste di fuori. Perché non sei fuori a manifestare? «Non fischio Sanders, lo sostengo – risponde Kim, 40 anni di Denver – Anche votando per lei sostengo lui. È dura ma si farà». Un gruppo di militanti dell’Oregon è dello stesso parere. Il loro senatore Jeff Merkley ha fatto uno dei discorsi più pro Sanders spiegando perché bisogna votare per Clinton.
Merkley, aveva pronunciato uno degli interventi più belli e articolati durante il filibuster per il “gun control” del mese scorso ed è un democratico di sinistra. Alla convention ha spiegato che avere una centrista old fashion, trascinata un po’ a sinistra da Sanders, sia meglio di un fascista doc.
Ma quando a fine della giornata a parlare è Sanders a molti scendono le lacrime ascoltando il loro leader spiegare che ora la Politica Revolution passa per il fermare Trump, che Trump non deve essere eletto a nessun costo. «Vorrei votare per Stein ma non lo farò: sono vecchio abbastanza da ricordarmi come andò con Gore-Bush-Nader» dice Al, 50enne di Seattle riferendosi ai commenti secondo i quali buona parte della colpa dell’elezione di Bush andava ai verdi per aver sottratto voti a Gore, rendendo più facile il broglio.
Fuori si vede la rabbia della base. Dentro l’aria è triste. Nessun dice di aver cambiato opinione su Sanders, ma nemmeno che il suo discorso gli ha fatto cambiare idea. Ma se l’idea iniziale era «o Sanders o niente», invece che niente adesso è votare Stein. «Alla convention la rivoluzione è per strada, guarda a sinistra” ha titolato The Intercept riferendosi al corteo di Jill Stein; ma, si può aggiungere, non solo.
DeRay Mckesson, attivista di Black Lives Matter, presente alla convention, è uno dei personaggi più ricercati e amati dalla base di Sanders, bianchi inclusi. Tutti vogliono parlargli, farsi fotografare con lui, discutere. Si era candidato come sindaco di Baltimora, ha già portato più volte le istanze di BLM alla Casa Bianca. Fa sperare che la nuova classe politica sia lì, in chi combatte per i diritti civili, non a solo scopo dimostrativo.

Fonte: il manifesto 

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