La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 12 agosto 2016

Banche. Che cosa si poteva fare?

di Vincenzo Comito
Che cosa si poteva fare? Sul piano tecnico ci sarebbero state almeno cinque possibili vie d’uscita dalla situazione attuale, anche se tutte presentavano molti possibili inconvenienti: 1) attivare i meccanismi del bail in secondo le regole dell’Unione, 2) accedere all’European Stability Mechanism (ESM), 3) potenziare con nuove risorse il fondo Atlante, 4) arrivare ad un intervento del governo che avrebbe portato ad immettere nel sistema fondi pubblici, o a fornire garanzie pubbliche a fondi privati, 5) infine, pensare all’ intervento di qualche banca in buono stato di salute che avrebbe avuto voglia di acquisire gli istituti in difficoltà. Alcune di queste misure potevano poi essere attivate in qualche modo contemporaneamente.
1)Per quanto riguarda il bail in, per far sì che Bruxelles autorizzasse qualche immissione di denaro pubblico nel sistema rispettando le regole, sarebbe stato richiesto che prima si fossero cancellati o, almeno, tagliati i valori di azioni e di obbligazioni, ordinarie e privilegiate. In particolare, prima di un intervento statale, gli azionisti e i creditori avrebbero dovuto subire perdite sino all’8% del valore delle passività di un istituto. Ma, per quanto riguarda almeno gli obbligazionisti piccoli risparmiatori, si trattava di una soluzione politicamente impossibile, a meno che non si fosse poi riusciti in qualche modo a rimborsare i danneggiati.
Vero è, peraltro, che l’articolo 107 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea permette aiuti di stato in circostanze eccezionali, per far fronte in particolare ad un serio disturbo dell’economia. E cose sostanzialmente simili dicono altre norme emesse da Bruxelles, quali il punto 45 delle regole sugli aiuti di stato e la sezione 72 della BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) (McCrum, Hale, 2016). Tutto dipendeva, a questo punto, dalle interpretazioni che si volevano dare alle stesse regole.
Su di un altro piano, il problema italiano è quello che, nella gran parte dei paesi, le obbligazioni bancarie, e ancora di più quelle di tipo subordinato, sono possedute quasi esclusivamente da investitori istituzionali, che sanno bene quello che fanno e sono in grado di coprire le perdite. E le regole europee sono forse state messe a punto a suo tempo pensando a tale quadro. Ma in Italia circa 200 miliardi di euro sui 600 di obbligazioni bancarie globalmente in circolazione sono possedute invece da investitori al dettaglio. Per quanto riguarda le obbligazioni subordinate, poi, sempre investitori retail, circa 60.000 persone in tutto, possiedono il 50% del totale di 60 miliardi di titoli in circolazione (McCrum, Hale, 2016). Solo il Monte dei Paschi ne ha emessi per 5 miliardi (Sanderson, Barker, Jones, 2016).
2)Il ricorso invece all’ESM avrebbe richiesto che l’Italia si assoggettasse a procedure di controllo molto spinte, ciò che di nuovo sarebbe stato politicamente insostenibile.
3)Per quanto riguarda invece il potenziamento del fondo Atlante, era evidente che qualcosa si poteva ancora fare. Il governo sta ancora peraltro cercando di mobilitare, oltre ai fondi che restano in cassa (circa 1,75 miliardi), altre risorse per circa 2-3 miliardi o forse più. Ad oggi non è ancora chiaro quanto si riuscirà a raccogliere alla fine in totale.
500 milioni potrebbero venire da Sga, una struttura a suo tempo messa in piedi per il salvataggio del Banco di Napoli (ma non si tratterebbe per Bruxelles di aiuti di Stato?), altrettanto dalla sempre disponibile Cassa Depositi e Prestiti, sui cui atteggiamenti interventisti su troppi fronti lontani dai suoi obiettivi di fondo ha tuonato in questi giorni anche la relazione annuale della Corte dei Conti; si stanno ancora mobilitando casse previdenziali, compagnie assicurative, banche d’affari estere (Saldutti, 2016), a tutti promettendo qualcosa sul piano normativo e fiscale (alla fine comunque pagheremo in qualche modo noi). Particolarmente discutibile appare il possibile intervento delle casse presidenziali, che non possono diventare un bancomat del governo. Molto preoccupato il commento dell’associazione dei giovani dottori commercialisti e di quella dei notai, che parlano di “una forma di esproprio patrimoniale”.
4)per quanto riguarda invece l’intervento diretto dello stesso governo, si veda più avanti.
5)L’acquisto, infine, da parte di qualche banca in buona forma, di strutture in difficoltà come il MPS appariva invece problematica, anche se certo non impossibile.
Quello del Monte dei Paschi era il caso nel breve termine più critico. Per esso, tra l’altro, la BCE ha appena chiesto entro la fine del 2018 una riduzione di circa 10 miliardi di euro nel livello delle sofferenze. Il governo ha così pensato, con il consenso di Bruxelles, all’acquisto delle stesse sofferenze attraverso un’operazione complessa, con l’intervento, per una parte, del fondo Atlante potenziato, come sopra indicato, con il risveglio dal letargo, dall’altra, del fondo Gacs per un’altra porzione e caricando infine qualcosa anche sulle spalle degli azionisti.
Inoltre, dopo la ripulitura dal bilancio dei crediti in sofferenza, si varerà un aumento di capitale (il quinto aumento miliardario in poco tempo) di circa 5 miliardi, che dovrebbe essere sottoscritto “sul mercato”, con il montaggio e la possibile garanzia dell’operazione da parte di alcune grandi banche internazionali, ma anche con una controgaranzia del governo i cui termini non appaiono peraltro ad oggi chiari (Bufacchi, 2016).
Altre risorse sarebbero poi necessarie evidentemente per far fronte alle eventuali carenze di capitale di altre banche.
Conclusioni
Il sistema bancario nazionale ha bisogno, nel caso di Montepaschi come più in generale, di una importante iniezione di risorse e tale operazione, viste le attuali condizioni, non si può probabilmente fare, in una qualche misura, senza un intervento finanziario pubblico.
Il momento per il governo italiano di ottenere l’assenso di Bruxelles è abbastanza favorevole. In effetti, le classi dirigenti europee sono ancora sotto lo shock della brexit e sembrano avere superato un primo momento di istintiva repulsione verso le richieste italiane, considerate all’inizio come un comportamento opportunistico che cercava di sfruttare l’evento britannico; qualcuno parlava a questo proposito di “opera buffa”, qualcun altro sottolineava che i problemi italiani erano ben precedenti al referendum di oltremanica.
A Bruxelles, a Francoforte e a Berlino hanno poi cominciato a ripensare alla questione e si è fatta strada la paura di un cedimento del fronte italiano; eloquente, a tale proposito, una ormai celebre vignetta pubblicata in prima pagina dall’Economist del 9 luglio, che mostra un autobus con i colori italiani che sta in bilico su di un precipizio. C’è anche la consapevolezza che la possibile caduta dell’Italia farebbe saltare il sistema dell’euro.
Così l’Europa non sembra volere, tra l’altro, mettere in difficoltà ulteriore il governo Renzi, che vede come l’ultimo baluardo contro il caos e contro l’avvento al potere del movimento Cinque Stelle. Bruxelles si rende probabilmente conto che l’attuale presidente del consiglio non ha migliorato granché la situazione dell’economia italiana, ma comunque si pensa che egli abbia cominciato a mettere in moto le “riforme” auspicate dall’Europa e che, al di la di qualche pittoresca improvvisazione, egli operi in maniera abbastanza diligente in linea con il pensiero dominante.
Così si è arrivati ad un accordo molto tormentato. Appariva molto difficile comunque che Bruxelles autorizzasse un’immissione di capitale al livello che sarebbe stato necessario per coprire tutti i buchi dei bilanci bancari, cioè 40-50 miliardi, come aveva inizialmente chiesto il governo. E’ stata invece autorizzata l’operazione sopra descritta insieme a qualcun’altra di dimensioni più ridotte che potrebbe seguire (The Economist, 2016), facendo tra l’altro finta dalle due parti che si tratti di un’operazione di mercato. Tale intervento dovrebbe poi contribuire, secondo i promotori dell’iniziativa, a portare maggiore tranquillità al settore e permettere quindi una ricapitalizzazione abbastanza facile di Unicredit; sembra sia necessario pensare, in questo caso, ad un’operazione che possa andare dai 5 ai 10 miliardi, oltre alla cessione di alcune importanti attività.
Ma i mercati finanziari non sembrano essere convinti sino in fondo e i titoli bancari, non solo quelli di MPS, nei giorni successivi all’annuncio dell’operazione sulla banca senese, hanno continuato a subire dei rovesci.
Il problema è quello che certamente non tutto è risolto. Le questioni di fondo del sistema bancario italiano appaiono molto importanti e riguardano, da una parte, la persistente debole dinamica del nostro sistema economico, dall’altra, in specifico, oltre al tema dei crediti in sofferenza, quelli di una scarsa redditività, di una debole capitalizzazione e di una inadeguata capacità di gestione degli istituti, nonché,infine, di una scarsa coerenza delle loro attuali politiche con le necessità della nostra economia e del nostro paese.
Tali problemi vengono resi più complicati da risolvere, e non solo da noi, per alcune condizioni esterne che si vanno sviluppando, quali, da una parte, i bassissimi, quando non negativi, tassi di interesse presenti sul mercato e, dall’altra, la forte dinamica tecnologica, che vede tra l’altro arrivare nel settore nuovi concorrenti molto aggressivi. In tale quadro, la capacità delle banche europee, non solo italiane, di reggere la situazione, non appare soddisfacente ed in ogni caso essa sembra inferiore a quella degli istituti statunitensi.
Il timore legittimo ora,in ogni caso, è che i problemi del sistema vengano scaricati da noi solo sui dipendenti, con ondate di licenziamenti, tagli di salari e così via.
Su di un altro piano, a nostro parere bisognava trovare la via di un intervento diretto dello Stato nel capitale del MPS, occasione per impostare, insieme ad altre mosse, una nuova politica del credito di cui il paese avrebbe certamente bisogno.
Essa dovrebbe essere indirizzata al supporto delle piccole e medie imprese e, più in generale, alla riqualificazione dello sviluppo economico italiano, in direzione delle crescita degli investimenti, indirizzati in particolare verso una nuova politica energetica, le nuove tecnologie, il supporto dell’occupazione, in particolare di quella qualificata.
Ma forse tutto questo è chiedere troppo ad un governo come quello Renzi.

2.Fine


Testi citati nell’articolo

-Bufacchi I., Quella doppia garanzia pubblico-privato, Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2016

-McCrum D., Hale T., Exploiting the fine prints of EU rules to save Italy’s banks, www.ft.com, 15 luglio 2016

-Saldutti N., Il cantiere allargato di Atlante2, Corriere della Sera, 12 luglio 2016

-Sanderson R., Barker A., Jones C., Essential repairs, Financial Times, 11 luglio 2016

–The Economist, Crisis and opportunity, 9 luglio 2016

Fonte: sbilanciamoci.info 

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