La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 12 agosto 2016

Quando la finanza dimentica i fondamentali dell'economia reale

di Vittorio Carlini
Fatturato, utile (o perdita) aziendale. Poi: il debito netto. Insomma, i cosiddetti fondamentali. Un tempo numeri imprescindibili per i mercati. Ora, invece, più sullo sfondo. Troppo spesso dimenticati. Certo: gli investitori che guardano al conto economico e allo stato patrimoniale non sono spariti. Il rapporto tra prezzo dell’azione e profitto societario, ad esempio, viene ancora sfruttato. E tuttavia la Borsa, il mondo dell’economia di carta, è sempre più scollegata dalle realtà aziendali. Una riprova? L’ha offerta la recente dinamica del settore bancario italiano.
È vero: gli investitori «fondamentali», a fronte del problema delle sofferenze non ancora concretamente intaccato, si tengono lontani dal comparto. Inoltre: non appena, su questo fronte, c’è stata una schiarita le banche hanno un po’ ripreso fiato. E però, ad esempio, non può scordarsi che Intesa SanPaolo, nel giorno in cui ha pubblicato dati sopra le attese, è caduta in Borsa. Per l’appunto: i mercati, nascondendosi dietro al rischio-sistemico, da un lato hanno scordato il bilancio. E dall’altro, nonostante i titoli già scontino scenari pessimi, hanno venduto.
In molti, a ben vedere, hanno puntato il dito contro la speculazione. La considerazione è parziale. Dimentica i motivi di fondo di questa dinamica. Vale a dire: la rivoluzione avvenuta, negli ultimi anni, a livello di struttura dei mercati. I listini, agevolati dalla de-regolamentazione, sono sempre di più habitat iper-tecnologici. Un ambiente dove gli operatori quantitativi, che non leggono i bilanci ma sfruttano algoritmi e correlazioni, da una parte «amplificano» gli effetti dell’operatività (speculazione) di breve. E, dall’altro, sono diventati preponderanti. In tal senso non stupisce che, secondo AiteGroup, i robot trader a livello mondiale gestiscano circa il 66% degli scambi sull’azionario. Il numero è importante. Questa tipologia di operatori, infatti, non si lascia «affascinare» dal dividendo. Né si preoccupa delle previsioni sull’utile aziendale. Bensì: legge soprattutto i valori dei prezzi. Nelle forme più tradizionali sfrutta, attraverso la statistica, le serie storiche dei livelli per decidere se e quando operare. In quelle più sofisticate invece diventa intelligenza «inorganica» che, grazie ad esempio all’analisi sui big data o del news-flow dei social network, imposta al momento la strategia di trading. In entrambi i casi, comunque, il minimo comun denominatore è quello: i fondamentali non sono della partita. Può obiettarsi: non c’è problema, i bilanci sono riflessi nel prezzo! L’affermazione non pare corretta. L’elevata percentuale di scambi gestiti dagli algoritmi «sporca» il valore segnaletico delle quotazioni. Le strategie quantitative, cui fanno riferimento questi trader, diventano esse stesse il riferimento del mercato. Sono i «nuovi» fondamentali senza, però, esserlo realmente.
Ma non è solo questione di trading. Troppo spesso si dimentica il ruolo recitato dal legislatore. In particolare con la Mifid. La Direttiva Ue, nel 2004, ha sancito il superamento della cosiddetta «concentrazione degli scambi». Cioè: la regola che permetteva di comprare, o vendere, l’asset finanziario solo sulla Borsa dove era stato quotato. Il «liberi tutti» ha dato il via al proliferare di listini elettronici diversi dai mercati tradizionali. Una situazione in cui ad esempio gli arbitraggi (non basati sui fondamentali) sono diventati la normalità. Soprattutto per gli High frequency trader. Quei flash boys, peraltro, che si sono infilati in un altro «fenomeno» del nuovo habitat: le «dark pools». Ebbene: i listini oscuri, dove gli investitori nuotano nella liquidità elettronica senza permettere al resto del mercato di sapere chi compra e vende, proprio nel giorno successivo al voto sulla Brexit sono letteralmente esplosi. Hanno raggiunto un controvalore degli scambi di circa 12,6 miliardi. Per alcuni è stato l’effetto degli investitori istituzionali/fondamentalisti i quali, sfruttando la minore trasparenza, hanno effettuato grandi operazioni per evitare l’impatto del mercato stesso. Insomma: una sorta di «male» perseguito a fin di bene. Peccato che, come indica Aite, le dimensioni delle compravendite mostrino come quei listini siano, per l’appunto, sfruttati da chi (i flash trader) i fondamentali non sa cosa siano. Analogamente agli operatori che, nel mondo dei tassi a zero conseguente alle politiche monetarie ultra-espansive, non vanno più a caccia di rendimento. Bensì guardano solo al rischio che possono permettersi. È la cosiddetta risk parity. Una strategia, sempre più diffusa, che porta ad investire dove, al momento, c’è meno volatilità. Di nuovo i fondamentali finiscono sullo sfondo. La materia prima è costituita dagli Etf. Di nuovo le singole storie aziendali vengono (quasi) dimenticate.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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